venerdì 24 maggio 2013

Valter Ferrari - Giacomina Zavart


Quando si accorse di essere prossima alla fine, affidò le chiavi di casa alla vicina e chiese di essere portata in ospedale. Pregò, con insistenza, l’autista dell’ambulanza di guidare oltre la frontiera. Come ricompensa alla sua inconcepibile stranezza, gli allungò una ventina di talleri di mancia. Chiuse gli occhi all’imbrunire, alla vigilia di Pasqua, in una camera della medicina di Cividale. Ma prima pretese, nonostante la giornata fosse stata fredda e piovosa, che la finestra  della stanza venisse spalancata. Spiegò, con voce sottile, all’infermiera  quella seconda curiosa stravaganza. Era suo desiderio che gli ultimi aliti di vita si esaurissero con la stessa aria che aveva respirato, quasi novant’anni avanti, distesa sul ventre sgravato di sua madre.
Così, Giacomina ridiventò italiana  pochi istanti prima di morire.
Perché lei era nata italiana, nella sua casa di pietra carsica affacciata sulle balze scoscese dell’Isonzo, in uno di quei tanti paesi di mezzo o di bordo, che sanno d’impasto precario di persone e di dialetti e che sfumano, imbrogliano, la fredda  geometria dei confini tracciati dai cartografi sulle mappe. Fino in fondo, sulla soglia dell’addio, Giacomina volle ribadire la sua identità, restò fedele alle sue origini. E, nella stessa maniera, tenne per cinquant’anni, cocciutamente, un tricolore imbandierato all’asta del parafulmine di casa.
Il casone Zavart,  sulla strada per Volzana, aveva un piano e una soffitta, un cortile di sassi, i serragli delle bestie e fienili dai tetti spioventi, filari di schioppettino e pignolo sulla costa, un orto terrazzato strappato alla boscaglia e una manciata di terra aspra, di roccia dura inginocchiata ai piedi del monte Colovrat.
Giacomina era nata sul lettone buono del solaio, sul pagliericcio di foglie di granoturco, una domenica d’ottobre, gelida di tramontana, tra le braccia incerte di sua nonna  e di una levatrice improvvisata che aveva fatto esercizio nella stalla delle capre. Suo padre lontano, a scavare carbone nelle miniere.
Da quella casa non sarebbe più andata via.
Aveva appena compiuto sei anni, quando sentì i primi rombi bassi dei cannoni  venire dalle montagne e si meravigliò di vedere colonne di soldati e di muli ansimare sui tornanti e sui sentieri.  Alla stregua di una  fiaba, le raccontarono della guerra. I buoni da una parte e gli austriaci dall’altra. Vide i carretti abbrunati dei caduti, le file dei prigionieri e i lampi minacciosi delle mitragliatrici brillare nel buio delle trincee sulle vette.  Come tutti i bambini, pianse e si spaventò. Ma i suoi ignorarono ogni invito e non vollero sfollare dal casone Zavart, benché fossero pericolosamente vicini alla battaglia. Con fermezza decisero di rimanere, preferendo l’azzardo all’abbandono, e si trovarono, trascinati dagli eventi, in una terra di mezzo, costretti tra due fuochi, povere anime di periferia segnate dal destino, in balìa di un assalto coraggioso o di un ardimento estremo che potesse sovvertire, favorevolmente,  le sorti dello scontro. Ben presto intuirono i primi cedimenti, i ripiegamenti concitati delle linee. Soffrirono davanti all’esercito in rotta, braccato, in disfatta. Scoprirono sulle strade e nelle piazze la pomposità delle uniformi austriache e la regale simmetria dell’aquila cucita sui vessilli ed impressa sui manifesti ufficiali. Capirono di aver perduto. Si resero conto di essere diventati estranei a casa propria.
Dopo Caporetto, il casone Zavart finì sulle carte catastali dell’impero, provincia impronunciabile del Kustenland.
Giacomina ebbe in odio quella gente e nella sua fantasia li paragonò ad orchi malvagi, riservò a loro linguacce e smorfie insolenti, non seppe trattenere grida ed ingenue animosità contro chi rubava impunemente patate dai campi e galline nei pollai, dimostrò il suo rancore verso chi si era preso la sua terra e aveva costretto suo padre a lavorare per loro, stagionale del legname, nei boschi d’abete della lontana Carinzia. Quando, un anno dopo, tornarono i nostri colori sulle bandiere e l’elastico del confine recuperò la sua legittima posizione, Giacomina fece festa alla sua maniera: baci, abbracci e un girotondo nel cortile di casa. Ritrovarono la libertà, vennero tempi di pace e di miseria.
Non bastò, per tirare avanti, la poca, avara terra degli  Zavart. Il nonno consumò i suoi giorni in un sanatorio sulle Giulie e il padre di Giacomina divise gli anni tra il lavoro di muratore e le campagne del grano e del riso nelle pianure. Tanti se ne andarono per sempre, cercando fortuna altrove, e bastimenti carichi di sventurati, con le valige semivuote di cartone, partirono da Trieste per le Americhe.
Ma loro rimasero e senza che se ne accorgessero si trovarono davanti agli occhi un’altra guerra.
Gli sacrificarono la giovane vita dell’alpino scelto Bruno, fratello di Giacomina, che non rientrò dalle steppe del fronte orientale, disperso nel fango e nella neve.
Furono traditi ancora una volta, anzi doppiamente traditi, perché, negli accordi sporchi delle rese e degli armistizi, i grandi si spartirono certi territori. Non cedettero, come pegno per l’onta di una sconfitta disonorevole, Venezia o Milano, ma lasciarono agli slavi una fetta d’Italia sull’Isonzo e quel fiume, da allora, si chiamò Soca e il casone Zavart finì, ancora una volta, dall’altra parte.
I potenti pizzicarono l’elastico ballerino di quella frontiera, fregandosene della gente che ci viveva da generazioni, e come in un gioco, sciocco e senza cuore, lo stirarono verso il basso. Giacomina e i suoi pagarono un prezzo troppo alto per colpe altrui e sentirono sulle spalle il peso mortale della diversità e l’amaro sapore della nostalgia e dell’abbandono.
Ci furono antipatiche pressioni sugli italiani rimasti, certe odiose forzature, confiscarono case e terreni, svuotarono paesi. Vennero, di notte, con i camion mimetici della milizia  e, con brutalità, portarono intere famiglie al confine, li costrinsero a salire  su malinconici treni senza ritorno, per un esodo calcolato e crudele. Si dimenticarono del piccolo e modesto casone Zavart, isolato e fuori mano, e delle tre donne che l’abitavano. Misteriosamente, il padre di Giacomina, non tornò da una stagione di fatica e fece perdere le sue tracce. Si scusò, due anni dopo la sua scomparsa, con cinque righe stentate stese da qualcuno, perché lui non sapeva né scrivere né fare di conto.
Spiegò di aver scelto di vivere con un'altra donna, conosciuta in un bar, e con viltà, chiese comprensione, infilando, ingenuamente, denari senza peso nella busta della lettera. Giacomina, con quei soldi, si comprò un pettine e una spazzola per il bucato.  
Giurò, sulla Vergine, che non avrebbe mai preso marito e sua madre si convinse presto dell’accaduto, perchè le povere donne di confine hanno sempre uomini lontani e, da subito, si abituano, nell'ombra, ad essere sole e nell’ombra piangono rassegnate, soffocano nel buio le loro delusioni, sanno e in silenzio dimenticano.
Giacomina rimase italiana nell’anima e non recise mai le sue radici.
La radio e la televisione, sintonizzate sul giusto canale, per sentirle vicine al cuore, e i giornali da leggere per non scordarsi la lingua, la cucina della tradizione da difendere come le processioni di maggio e le feste da osservare; i ricordi, quelli belli, da conservare come preziosi e l’album delle fotografie da sfogliare con calma, quando fuori c’è neve, per ridare vita alla memoria. Giacomina ebbe il tempo di diventare anche slovena. Lo fece al solito modo, trascurando quella minuzia.
Restò sola, nella sua casa sull’Isonzo, con  tre gatti e una cagnetta affettuosa. Chi passa adesso, da quelle parti, scorge il cortile di sassi invaso dai rovi, i serragli senza bestie e i  fienili sfiancati, il vigneto incolto, l’orto soffocato dalla boscaglia e, attorno, terra aspra, di roccia dura lasciata alla macchia ruvida della montagna.
Ma sull’asta del parafulmine del casone Zavart, vede sventolare, ancora, uno straccio di tricolore.

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