mercoledì 17 aprile 2019

Annamaria Balossini - Una favola infinita

Nidiata di parole sui rami della betulla
cullate dal vento che a baci li dondola,
lìtigano, scarabòcchiano, tìrano in alto
il filo d’una storia su una virgola blu.

Tu ed io, due bambini, nel tempo incantato
delle favole prime, l’oro d’un sogno stregato
di rosso, sillaba d’oro su un blu ingiallito.

Tu ed io, due fratelli, che solo il cuore
ha conservato sul triciclo abbandonato
in un angolo del cortile.

Ed ora che te ne sei andato
per quella strada non voluta, per quello
strappo ineluttabile che la vita, ahimè,
ci impone, adesso che nell’assenza

il richiamo è più vicino, io con te
ancora vivo quella favola senza tempo,
senza giorni e senza ore, sulla sella
di un triciclo dove ancora pulsa il cuore.

giovedì 4 aprile 2019

Elisa Marchinetti - Quel sorriso che non ti aspetti

Tutto di lui era la spia di un malessere, quando lo conobbi.
Gli occhi, soprattutto.  Due fessure acquose di tristezza, perennemente rivolte a terra,  a marcare la distanza tra sé e il mondo, a sottolineare il disagio del momento. E quel  suo sguardo, perso e languido, di chi  è sopraffatto dagli eventi, vittima  suo malgrado  delle incomprensioni degli altri, degli adulti, di coloro che anziché preservarlo dal dolore, il  dolore glielo avevano  arrecato. I suoi genitori, per l’appunto.
L’incarnato, di un pallore  quasi niveo, il riflesso di una condizione esistenziale che si trascinava lenta e stanca, spiccava  su un viso magro ed asciutto, dai lineamenti delicatamente definiti. La bocca, un tratto di matita  che raramente sbavava in un sorriso, dava  voce, in  tonalità monocorde, ad  un bisbiglio sussurrato che si coglieva nei rari monosillabi che di tanto in tanto venivano pronunciati.
“ Pietro, hai capito?” gli  domandavo  spesso al termine di qualche spiegazione, per distoglierlo da  quell’alone di  vacuità  in cui volentieri annegava i suoi pensieri. Un sì grugnito a denti stretti,  mentre fissava il mondo fuori dalla finestra , era  la barriera che erigeva a sua difesa e che fungeva da  freno a  qualsiasi mio desiderio di indagare.  Quello spazio oltre, oltre  le mura della scuola, oltre il “qui ed ora“, nel vuoto  di certezze e valori,  quel buio liquido di sensazioni ed emozioni il rifugio ai suoi tormenti interiori.
Ma era il suo incedere che dava la misura del suo straniamento. Camminava, o meglio, scivolava lungo i corridoi e fra i banchi con passo leggero e a spalle basse e ricurve, il cappuccio della felpa calato  sul capo chino e leggermente reclinato a destra e le mani sprofondate nelle tasche. Con  quell’atteggiamento tipicamente adolescenziale  a metà fra il  fastidio e il  disinteresse  verso  un tutto indifferenziato, persone e cose, in egual misura. E con  il senso del disincanto  cucito addosso e la precarietà marchiata a  fuoco sulla pelle.
“Si sta come  d’autunno sugli alberi le foglie ” pensavo, parafrasando la sua condizione. Sulla carta il primo incontro con lui:  un tu per tu con le descrizioni degli assistenti sociali e degli educatori e  coi  freddi rapporti  compilati dagli psicologi di turno, da coloro che in un qualche modo erano entrati nella sua vita e ne avevano preso le redini. 
Estranei che si erano intromessi nel suo mondo di relazioni parentali violandone l’intimità  e che avevano scompigliato le carte della sua  partita con la vita da poco iniziata. Pagine di dossiers  a decretare  la sua condizione di disadattato sociale, vittima innocente  di tensioni familiari sfociate in  sentenze e appelli, carte bollate e ricorsi. Pagine e pagine  di sterili  tecnicismi e aride conclusioni. Sui sentimenti, i suoi in quel frangente e le emozioni, le sue, da ascoltare, niente di più che qualche riga.
 Aveva 15 anni quando iniziò la prima superiore, un anno in più dei suoi compagni,  ma la stessa  fragilità e apatia  di molti di loro. Il pit stop in seconda media. All’epoca viveva con la madre, di cui portava il cognome,  e tre fratellastri  insieme ad un’orda di cani  in un piccolo appartamento  non lontano dal centro.  La cura di quest‘ultimi  un must in quella famiglia, al primo posto dopo gli umani. 
 Il padre, che non l’aveva riconosciuto alla nascita,  si era qualche anno prima  riscoperto in quel ruolo e  ne richiedeva la custodia, vista la situazione di degrado in cui il figlio vegetava.  Nella giungla delle accuse  tra i grandi, il ragazzo lasciato  allo sbando, vivacchiava e  consumava  i giorni  seduto sul divano di casa  trastullandosi coi videogiochi, tra  pigrizia e indolenza,  tra uno sbadiglio e l’altro, tra una carezza ai cani  e un film alla tv.  Ma soprattutto  sordo al richiamo del dovere scolastico, un po’ per indole, un po’ perché  in parte indotto.  Già perché il controllargli i compiti richiedeva fatica e presenza  tanto quanto il controllargli lo zaino che vuoto rimaneva per giorni e giorni. La leggerezza della cartella, di libri, di quaderni e di merende,  la misura del vuoto  attorno a lui; l’assenza  di  cura e amore  la cifra del suo disagio.
 Così  Pietro  era cresciuto,  insensibile ai suoi doveri verso la scuola per colpa  di chi aveva l’obbligo di seguirlo nella sua crescita  e  che preferiva tacitare la sveglia  ogni mattina piuttosto che  assecondarne il richiamo, lasciando il figlio al caldo delle coperte. Perché essere madri richiede impegno e sacrificio e una buona dose di responsabilità. Delle proprie azioni, così come del proprio ruolo. Non fu difficile capire che  una resa scolastica inadeguata, un impegno insufficiente unitamente ad una  marea di assenze  furono le motivazioni  che decretarono la sua  bocciatura. 
Doveva ancora compiere 15 anni  quando lo portarono via. Una tiepida giornata   di fine Estate, accarezzata da un malizioso venticello,  accompagnò il suo ingresso in una comunità  per ragazzi  sulle colline, a parecchi kilometri di distanza da casa. L’allontanamento dal suo nucleo  si consumò in fretta e senza spargimento di lacrime da parte di nessuno;  a testa china e con i nervi tesi, Pietro racchiuse  i  suoi indumenti in pochi borsoni  sportivi,  salutò con gli occhi la madre e i fratelli  e senza proferire parola seguì  gli assistenti sociali verso il suo nuovo domicilio.  Verso l’ignoto, di  persone e luoghi, che accettò con tacita  rassegnazione.  Nel silenzio del proprio dolore, però, non un cenno di stizza,  né di odio  fu mai pronunciato.  Nel silenzio sulla propria condizione, invece,  tanti gli  interrogativi che  presero a macerare.
 L’allontanamento dalla madre, decretato dal Tribunale, e l’inserimento in una comunità  il primo passo verso la sua rieducazione ed il recupero della sua personalità.  Con lei solo  un colloquio telefonico alla settimana,  in modalità protetta, con gli educatori ad ascoltare  aride telefonate inframmezzate da lunghe, lunghissime pause. Puri soliloqui a mezze voci.
“Ciao. Come stai? gli chiedeva freddamente e puntualmente.
“Bene”, le mentiva spudoratamente, a tacitare  il suo apparente interesse. Poi  il gelo del silenzio a rimarcare le distanze. Sulla  nuova scuola, sui docenti, i nuovi compagni  in  classe   e in  comunità,  sul nuovo mondo che roteava attorno al figlio,  non una domanda le uscì  mai dalla bocca, tantomeno dal cuore. 
Nel contempo, lentamente Pietro andava recuperando  il rapporto col padre che, assuntosi finalmente le sue colpe e responsabilità, aveva intrapreso un percorso impegnativo di riavvicinamento al figlio, imparando  a gestire quel ruolo ex novo con tutta l’insicurezza e l’improvvisazione dei novizi, ma con l’energia e la determinazione dei  vincenti. E soprattutto  con amore. Con l’obiettivo  della  piena tutela del ragazzo e la conquista della sua fiducia.
 Il tempo per entrambi  e la perseveranza di ambedue le chiavi per la riuscita in  un percorso lungo ed impervio, fatto di  regole, orari e doveri  da rispettare e  incontri settimanali con gli assistenti sociali. Una strada in salita, dove tutto era nuovo, o quasi, ed aveva il sapore del sacrificio, soprattutto per il ragazzo. A partire  dalla mattina quando  si alzava prestissimo, cambiava due pullman per andare  a scuola, assisteva alle lezioni  e  ritornava in comunità  verso le tre del pomeriggio. Poi la vita di gruppo e la condivisione delle attività. Spazio per la libertà individuale quasi nullo. 
 L’aveva scelta lui la scuola, attratto dall’informatica  in cui riusciva senza problemi. Nelle altre discipline, invece, aveva lacune come i buchi della groviera. E poca simpatia per le lingue straniere, l’Inglese in special modo. 
 “Sei nato l’11 Settembre  nell’anno dell’attacco alle Torri Gemelle”, buttai lì  uno dei primi giorni  per stimolare la conversazione. 
“Prof, l’anno prima”, mi corresse con  voce flebile ed un impercettibile sorriso , senza indirizzare  il suo  sguardo verso il mio. Poi lasciò che l’orizzonte al di là dei vetri catturasse i suoi umori. Capii che  sarebbe stato un percorso di luci ed ombre e che le sfumature  ci avrebbero dato il senso degli ostacoli  in parte superati.  A lui in primis, poi a me. Ritroso com’era  schivava le discussioni come le pozzanghere e per non caderci dentro si trincerava dietro un aspetto del suo carattere.
“Sono timido, prof, lo sa!”, mi ripeteva  con un certo imbarazzo quando lo spronavo ad esprimersi.
“ Come on!”,  replicavo, aspettando il suo intervento. Imparai a dare tempo al suo tempo, a  metter da parte rigorosi  schemi di valutazione  e ad apprezzare i  minimi risultati da parte sua, quei  piccoli passi verso le tappe intermedie.
Ci mise qualche  mese a sfoderare  una fila di denti bianchissimi e ben allineati  e a liberare un cenno di  sorriso nel rispondermi. E  un  guizzo  compiacente negli occhi. Mi bastavano quei segnali per dare sostanza al mio lavoro e  giustificare gli sforzi fatti e quelli, ancora tanti, dietro l’angolo a venire.
Gli diedi spazio e tanto quell’anno, e fiducia da riporre  nelle sue capacità. Sorvolai sui contenuti, scarsi, che apprese, sulla  sua pronuncia  non  certo di Oxford, ma molto maccheronica, sulla sua proverbiale lentezza e puntai sulle sue conoscenze dei fatti  del mondo derivate dalle  frequentazioni sul web  e sulla sua capacità di cogliere il nesso nelle relazioni. Intuizione e logica non gli mancavano, mentre  pigrizia e apatia abbondavano. 
Continuò a raccontare di sé e delle sue relazioni interpersonali  agli assistenti sociali e agli educatori, obbedendo ai dettati del giudice. Continuò a frequentare la scuola sino alla fine, senza mai assentarsi un giorno, ma sbuffando quotidianamente. Quando entrava e quando usciva.
Superò il primo anno non senza qualche difficoltà, con alcune  insufficienze che colmò agli esami di fine Agosto.
Aveva 16 anni quando, finalmente, fu assegnato al padre. L’inizio della seconda superiore coincise  anche con una nuova vita a due e  un rapporto da ricostruire nel segno della continuità e della condivisione di un progetto di vita. Con una certa serenità nell’animo Pietro proseguì gli studi,  sempre in bilico, però, tra apatia e apparente disinteresse e sempre in altalena col profitto.
Lo persi due anni dopo, all’inizio della quarta,  quando fui assegnata ad altre classi. Ci incontrammo nel corridoio della scuola  a metà Settembre, nel caos dell’intervallo. Ebbi la netta sensazione  che mi stesse aspettando, appoggiato allo stipite della porta, con il capo, libero dal cappuccio,  reclinato sulla spalla  e  le mani sempre nascoste nelle tasche. 
Gli occhi, sgranati in una malinconica  espressione,  parlarono prima di lui.
“Prof, perché ci ha abbandonato?, liberò con un tono lamentoso quando ci trovammo uno di fronte all’altro. 
“Ci manca”, continuò  sostenendo  per la prima volta  il suo sguardo nel mio, regalandomi, poi,  un sorriso di riconoscenza.  Nel gelo che seguì  a quella rivelazione inaspettata  ebbi il tempo di osservare  meglio quel mio studente:  avevo di fronte non più un ragazzino imberbe ed impacciato, ma un giovane uomo, distinto nei  modi  e ben curato, dall’incarnato un po’ più roseo e dalla capigliatura  definita con cura. Un giovane cresciuto in fretta  che con la vita aveva già fatto a pugni diverse volte e che messo alle sbarre aveva sfoderato  colpi prodigiosi. E vincenti.
Balbettai, trattenendo a stento  l’emozione, una  risposta  che non lo convinse più di tanto. E  quella volta fui io a tenere gli occhi rivolti a terra.
“Impegnati e comportati bene anche quest’anno ”, riuscii  a  dirgli nel congedarmi da lui. Ma prima che mi dileguassi con il cuore gonfio e le gambe deboli, lo sentii urlare:
 “Prof, aspetti. Facciamoci un selfie!”
Mi girai e mi avvicinai a passo deciso verso di  lui  che tra le mani già  racchiudeva il telefonino. Le varie  foto che scattò  ritraevano  due volti ravvicinati e sorridenti , due identità accomunate da un lungo e delicato percorso, due anime finalmente appagate.

“Fai attenzione alle piccole cose, perché un giorno ti volterai e capirai che erano grandi” ( Jim Morrison)