lunedì 2 luglio 2018

Marco Gagliani - L'ultima notte sulla terra

Il buio non sarebbe durato a lungo, ma a lui andava bene così. Alla fine era arrivato su quella panchina del belvedere di Castelletto, aveva respirato lasciando uscire un ultimo sbuffo di vapore bianco dal naso e si era lasciato scivolare dolcemente su quella stessa panchina. La vista da lì era stupenda, di giorno si poteva ammirare la città in tutto il suo splendore, con le macchine e le persone, tutti in movimento, tutti indaffarati, senza che l'idea che qualcuno li stesse osservando potesse sfiorarli; anche se il suo sguardo veniva attratto più che da tutto il resto dal manovrare delle navi in porto. Giganti di metallo che si muovevano entrando in città con lentezza e discrezione, quasi a chiedere il permesso, trasportando al loro interno meraviglie di mondi lontani ed allora ancora irraggiugibili, o genti che si apprestavano a rendere omaggio alla superba perdendosi nelle sue meraviglie. Ora, nel silenzio delle ultime ore della notte, sotto ai suoi occhi si spiegava uno spettacolo quantomeno inusuale, il silenzio di tutta la città era interrotto solo dallo spirare del vento gelido, per il resto nulla, nessun movimento, nessun rumore molesto, solo la pace di qualche migliaio di anime che riposavano nell'attesa dell'alba. Quello era senza di dubbio il suo posto nel mondo, quella panchina per lui c'era sempre stata, ogni volta che nella sua vita si era trovato dinnanzi ad un bivio piuttosto che a una svolta il buon Giacomo era andato lì, su quella panchina a guardare il suo mondo e a pensare. Gli piaceva pensare, gli piaceva davvero tanto, non che credesse fosse utile, non sempre quanto meno, anzi, a volte il pensiero lo portava ad affacciarsi su abissi spaventosi, ma proprio quest'esercitarsi in una pratica che tutti ritenevano ormai inutile, una perdita di tempo, specialmente in un'epoca che si apprestava a superare la modernità e che avrebbe trasformato il tempo stesso in denaro, gettare al vento un paio di banconote di tanto in tanto assumeva per lui un valore catartico. Andava a saziare perfettamente quella sua necessità di viaggiare in direzione contraria rispetto al mondo, di non avere paura di alzare una voce capace di distinguersi da quella della massa, e ripeto, non che gli avesse portato qualche beneficio materiale, ma la sua anima in quell'esercizio tornava a vedere la luce.
Su quella terrazza era giunto per la prima volta un'ottantina di anni prima, in un giorno di inizio giugno, per essere precisi l'ultimo della quinta elementare. Uscito da scuola era stato colto da uno stato di profondo turbamento, come se ogni certezza fosse crollata, come se si fosse trovato esposto per la prima volta a un mondo tanto difficile da comprendere, sentì in cuor suo di avere la necessità di mettere un freno a questo disfarsi delle cose. Dopotutto la classe, il signor maestro, tutto ciò che lo aveva più o meno dolcemente cullato in quegli interminabili cinque anni si era dissolto al suono dell'ultima campana. Così passo dopo passo, nella strada verso casa, quando era giunto di fronte a quella panchina, per la prima volta aveva distolto gli occhi dalle sue scarpe blu e in quel momento aveva sentito un'attrazione quasi magnetica, nulla gli avrebbe impedito di sedersi lì, anche solo per un paio di minuti. E infatti andò così, curiosamente la visione di quell'immensità non lo spaventò e nemmeno lo meravigliò, generò semplicemente un senso di pace; se quello era solo un puntino sul mappamondo, e già era così grande, figuriamoci cosa doveva essere la fine delle scuole elementari per il mondo intero, un nulla. Sentirsi insignificante lo fece stare bene, si sentì leggero, quasi felice, tanto da scordarsi del passare del tempo, e poco importava degli schiaffi presi per essere rincasato con il buio, quella sensazione avrebbe reso sopportabile qualsiasi cosa.
Su quella stessa panchina si era concluso il primo appuntamento con la sua Maria, si erano salutati, timidamente senza baci, solo un sorriso, non aveva avuto il coraggio di andare oltre, dopotutto era ancora un ragazzino e quella cosa che gli si agitava dentro, fino a tenerlo sveglio la notte e a contorcergli le viscere non sapeva bene come gestirla. Non avrebbe mai potuto dirle esplicitamente quello che provava, troppo difficile, troppo distaccato, e poi non era una cosa da uomini, alla fine se avevano passato quel pomeriggio a parlare e camminare, da soli, voleva dire che lei sapeva, insomma era una donna, come avrebbe potuto non saperlo? Erano passati mesi, mesi e kilometri di strada fatta insieme senza che succedesse nulla, alle volte un brivdo gli correva lungo la schiena quando le mani che ciondolavano a ritmo di marcia si sfioravano, poi erano tornati lì, sul belvedere ed erano rimasti a guardare il tramonto calare sulla città. Infranta la regola di tornare prima di sera Luca pensò che avrebbe potuto anche infrangerne un'altra, e così, guardandola negli occhi, con il cuore che cavalcava all'impazzata spargendo per tutto il corpo un miscuglio di emozioni indecifrabili e il fiato cortissimo come se avesse corso una maratona, non che in quel momento respirare sarebbe servito a qualcosa, ne avrebbe potuto fare benissimo a meno, con un tremolio delle labbra che tradiva il pandemonio che lo stava travolgendo, la baciò. In quell'istante sperò ardentemente che quelle sarebbero state le uniche labbra che avrebbe baciato nella sua vita e di non dover mai smettere di baciarle. E in effetti con il passare del tempo si convinse che un dio benevolo lo avesse ascoltato quel giorno, e quando la portò all'altare pensò di aver stretto un vero e proprio patto con lui "non osi l'uomo dividere ciò che dio ha unito" tutto era perfetto, al di là delle difficoltà, dei possibili litigi, di tutto ciò che il destino gli avrebbe messo davanti, la vita insieme sarebbe stata meravigliosa.
Sarebbe stata, se una sera, al ritorno dal turno non avesse trovato un bigliettino sul tavolo della cucina, una sola parola strisciante "scusami", nulla era rimasto di lei in casa, non un oggetto, non una foto e nemmeno il suo profumo. Se n'era andata da quella casa ma non da lui, Luca non l'aveva mai dimenticata, e come si fa a dimenticare il motivo per cui si vive, nel suo mondo fiabesco la loro storia non era finita, sperava che in qualche modo si sarebbero ritrovati, anche dopo "cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni" come in quella meraviglia del Gabo Marquez, che tanto l'aveva consolato e aveva fatto ardere il fuoco della speranza. Peccato che alla fine non fosse andata così, e anzi, il buon Luca pensava che il fatto di non sognarla nemmeno più da così tanto tempo fosse indicativo del fatto che la sua storia stesse finendo, erano ben trentun giorni che non gli appariva, non gli era mai successo.
Ora la notte si tingeva di rosa e gli uccellini sugli alberi ai fianchi della panchina avevano iniziato a cantare, aveva sempre odiato quel suono che gli impediva di dormire quando distrutto dalla fatica tornava a casa dopo il turno di notte, curioso come questa volta non gli avrebbero impedito di chiudere gli occhi. Per una volta nessun potere avrebbe potuto fermarlo o impedirgli di fare ciò che voleva, anzi, forse uno sì, il solito Dio che come la vita gli aveva insegnato non era infinitamente potente e buono, esattamente come tutti i poteri esercitati dalla gente. All'inizio lui ci credeva nel potere, credeva davvero che se fosse stato ben esercitato avrebbe potuto cambiare il mondo, c'aveva creduto quella volta che aveva scritto "Antoniazzi" sulla scheda elettorale, quel suo compagno di classe un po' scalmanato ma che infondo era sempre stato un buono, credeva che non si sarebbe scordato del suo paese, delle sue origini, che non sarebbe stato fagocitato dal sistema. Al secondo mandato venne arrestato per tangenti, su qualche articolo di giornale la solita scusa "lo fanno tutti" e forse era anche vero. Aveva creduto nel potere anche quella volta che quel suo collega, ragazzino di diciannove anni, era morto, orribilmente schiacciato in cantiere, e quando i sindacati avevano alzato la voce per guidare una protesta affinchè non ci fossero più morti bianche, affinchè nessuno dovesse più sottostare a turni massacranti, affinchè nessuno fosse più sfruttato lui c'aveva creduto. Aveva pertecipato alle assemblee, all'occupazione del cantiere, aveva sfilato per la città, fin sotto la sede del comune, dove quel potere con cui pensava di poter parlare si era arroccato e sentendosi minacciato aveva delegato il dialogo ai reparti della celere; ma lui credeva in quell'utopia ed era rimasto a testa alta, in prima fila. Peccato solo che quando il potere dei manganelli fece zampillare sangue anche dalla sua testa, con lui non ci fosse nessuno dei sindacalisti che megafono in mano avevano aizzato la folla, esattamente come quando un paio di giorni dopo gli fu consegnata la lettera di licenziamento "Vede, noi vorremmo aiutarla, ma credo che lei si sia spinto davvero troppo in là". Anche quel giorno si era seduto sulla panchina a piangere con il volto tra le mani, un'altra picconata aveva fatto crollare il mondo che tanto faticosamente aveva costruito, dentro e fuori di sè, in tutti quegli anni.
Ora, con il sole che faticosamente emergeva dal mare, dopo aver fatto i conti con la propria vita, una vita che malgrado tutto non riusciva a definire amara, Giacomo pensò che la fine fosse veramente arrivata, chiuse gli occhi e sorrise. Certo non era andato tutto come aveva previsto, anzi quasi niente, ma il fatto che le cose fossero andate diversamente non doveva significare per forza che si fosse trovato male, lui alla vita aveva dato tutto, non avrebbe cambiato nulla del suo percorso, nè di ciò che era, lei non gli aveva dato poi molto ma pazienza, la vita è anche questo e forse la cosa migliore che potesse fare era lasciarla senza rimpianti.
E poi chissà, forse dall'altra parte avrebbe rincontrato quelle labbra.

Tiziana Delsale - Mandrea

Isola, terra brumale
 micro bulbo stanziale

dalle radici tue vagabonde
le idee fervono errabonde

prudono le ore gioconde
starnutisce il tempo gioviale

gocciola il cuore di bellezza
 in quel fazzoletto di gaiezza

gira nudo il cielo, il canto sale

di chiacchiera si spumeggiano le onde
sul suo cuore, stesa, la rena risponde

con l’affettato tono nasale

la voce del granello
raspa di notte l’avello.

Di Mandrea, il segreto
tesor di bosco, sul dir faceto

tace la luna, dormono le rondini
in volo, sulla verità di frassineto
              che ancora si nasconde.

Tiziana Delsale - Alan

Quello che non ho una canzoncina
qui dentro, da cantare,
nel freddo e calmo mare.

Più in basso, e ancor più giù
guizzando
balene e Pinocchi,
migranti
verso le sorgenti di fiabe
eterne,
trasportano i singhiozzi
di stelle
su minuscole barche
di luce
e la croce d’amore
con braccia
di bambino esangue
solleva
il corpicino mio, or che
s’ammuta
la taccia di clandestino.

Quello che non ho sono le paroline
del fratellino, il destino da fronteggiare
e il nostro freddo e calmo mare.

Barbara Stangalini - La casa nel viale alberato

E' quasi un bel giorno di festa, ed ancora immagino di aprire quella finestra e poter vedere davanti a me i colori e le sfumature del cielo sul far della sera, mentre ogni luce si accende dando atto a quel pittoresco paesaggio un po' surreale e un po' incantato.Era bello soffermarsi a lungo ad ascoltare il gracidare delle rane ed il vocio dei grilli mentre la sera lenta scendeva, e noi si chiacchierava animatamente perché ogni piccolo oggetto ed ogni particella del creato diventava poesia...e allora avrei voluto rimanere lì ogni giorno della mia vita e poter gioire nella sera di un luogo splendente e fatato. A volte, quando a tarda notte si alzava un filo di brezza, si udiva solo il rumore delle frasche, e l'ombra degli alberi ondeggiava un po' creando disegni più scuri, e pareva che danzassero davanti a noi,che nottambuli proseguivamo con il nostro chiacchierio a bassa voce per non spezzare l'incantesimo.
Quando il sole si destava inondando le stanze il mattino seguente, tutto appariva differente e la poesia si fermava momentaneamente, perché di giorno tutto tornava alla normalità, il tintinnio delle tazze della colazione trasmetteva buonumore, disegnando un sorriso sul volto mentre gli occhi ancora un po' stropicciati dal sonno iniziavano lentamente a svegliarsi, sereni e lieti in quella stanza dalle bianche e trasparenti tende.                       
Le ore mattutine trascorrevano così velocemente, e mentre la disco music di quegli anni suonava, io giravo impaziente e contenta canticchiando,perché tutto era così perfetto in quel luogo,e quando l'orologio scandiva quasi il mezzodì scendevo le scale correndo e lesta me ne andavo per quella strada che continuai a percorrere anche in seguito senza mai stancarmi. Entrando nel negozio di gastronomia si sentiva il profumo del pane appena sfornato, ed ogni giorno ne uscivo con un piccolo cartoncino triangolare di crema alla vaniglia, dolce come la freschezza dei sapori di quelle terre.
E' quasi un giorno di festa, e immagino di udire quel passo veloce che gira l'angolo della strada ed il campanello che suona trillante mentre sto preparando una frugale cena a base di focaccia calda con patè di olive e frutta di stagione; come sempre mi sono attardata un po' a giocare con i piedi nell'acqua ed a chiacchierare con due amici che mi portano le albicocche appena colte dalla pianta ed ho ancora la sabbia nelle ciabatte, ma la sera è lunga e quando si accendono le prime luci penso che si potrebbe andare a vedere un film in paese o a fare una passeggiata ed incontrare un po' di gente.
Era una casa all'ultimo piano, bella e splendente, e quando entravo nell'ascensore sentivo un tipico ed inconfondibile profumo, che a risentirlo oggi mi riporta sempre là mentre il cuore si stringe un poco con nostalgia, e l'allora fabbrica di detersivi in quella strada che scendeva dritta verso il centro non esiste più, e al suo posto sento così l'odore delle fronde degli alberi che si ergono ad ombreggiare il cammino.A volte mi ritrovo a passare di lì e mentre ancora non mi stanco di ammirare il dolce paesaggio, mi rivedo piccola e tenera, magrolina e poco agile, mentre siedo sul balcone soleggiato ad attendere il pranzo o la cena, e mi domando sempre perché ho dovuto andar via, mentre la brezza scuote lievemente i rami e si odono le onde miti tra gli scogli.
Penso che sarebbe così favoloso potersi svegliare al mattino con l'aria salmastra che entra dalla finestra mentre in cucina qualcuno prepara un caffè fumante da consumare a tavola prima di uscire a  sbrigare le proprie faccende. Non è diverso questo cielo dal mio e non è neppure sgombro da nubi, ma è un cielo di città, pallidamente azzurro e anche un po' afoso, e non si sente il canto dei gabbiani o la salsedine sulle braccia, ma mi è stato dipinto un po' così, e non è che si senta meno il peso di questi giorni, ma quando tutto diventa più difficile e l'animo si rattrista, penso alla casa lungo il viale ed alla felicità degli anni lontani, come se fossi ancora là, come se non me ne fossi mai andata.
Non è detto che si possa vivere una vita come vorremmo, non è detto che si possa essere felici, non è scritto da nessuna parte che staremo sempre con le persone che amiamo e neppure che staremo con loro,ma ci sono persone che segneranno la nostra esistenza, persone che hanno determinato momenti importanti e persone che abbiamo incontrato sul nostro cammino anche solo per poco tempo e che ricorderemo sempre, persone a cui abbiamo voluto bene e che non ci sono già più,e persone che preferiremo scordare perché ci hanno fatto male, ma è comunque la nostra vita, quel passaggio sulla terra di ognuno di noi che, bene o male, lascia un segno; in realtà, quando qualcuno se ne va in punta di piedi senza far rumore,è solo per non rattristarci ulteriormente e non vederci soffrire, ma sicuramente è conscio di quanto grande sarà il vuoto che lascia dentro dentro di noi.
E'un cielo di giugno, diverso dallo scorso anno, i raggi del sole non scaldano poi così tanto e non c'è chi si siede ogni tanto a quel tavolo a mangiare qualcosa e a chiacchierare un po', è tutto così vuoto e il ricordo torna ad una piccola stanzetta ed i passi sotto il caldo rovente, le frasi buttate lì ed i sorrisi tirati per non farsi vedere affranti, andarsene un'ultima volta senza più voltarsi perché anche quel tempo era finito...un attimo solo e poi più niente, e allora conto i battiti del cuore ed i giorni sul calendario, e me ne andrò un po' contenta e un po' impaziente, e ogni tanto tornerò su quel viale alberato, che contiene ancora oggi la spensieratezza di quei teneri anni.
Era una casa piena di luce, e tra tutte mi pareva la più bella forse perché era la più bella, perché in ogni luogo che amiamo c'è una parte del nostro cuore, e negli anni che seguirono non riuscii mai a scordare quel profumo che sentivo ogniqualvolta aprissi la porta d'ingresso del palazzo, un particolare che mi rimase impresso come qualcosa di indelebile ed inconfondibile.
E' quasi un giorno di festa, ma non sento quel passo veloce arrivare e la voce squillante, è quasi luglio e la città fatica a mettersi l'abito estivo, ogni tanto le vie del centro si popolano di gente ma non c'è lo spirito vacanziero di chi ha voglia di riposarsi un po' dopo tanto tempo, la sera scende senza che il tramonto sia così poetico e soave da volersi soffermare un po' ad ammirarlo, ma soprattutto non c'è chi rientra lieto dopo una lunga giornata, e allora penso alla casa nel viale alberato, che dopo tanti anni è ancora là, intatta nella sua bellezza, perché non esiste solo nei miei sogni o nei romanzi d'amore, bensì c' è sempre stata nella realtà, ed è quella che ancora oggi tutti denominerebbero “la casa della felicità”.
Quando le raccontai la vicenda, Rose mi sorrise tendendomi la mano e mi indicò un punto vicino da cui si poteva vedere la casa, cosicchè mi rasserenai un poco perché realmente significava tanto, e anche se sapevo che quei giorni non sarebbero più tornati, forse in questo modo sarei riuscita a sentirne meno la mancanza.
Nelle sere di fine estate, quando tutti se ne andavano a dormire, ci attardavamo a discorrere sui fatti del giorno, e Rose col tempo ebbe un posto importante nella mia vita, tanto che non passava giorno che non pensassi un po' a lei, ed il favoloso paesaggio lo guardavo assieme a lei da una grande terrazza, respirando l'aria a volte calda a volte più fresca, specie quando soffiava il vento di tramontana, e quando non si udiva più un suono che non fosse il gracchiare delle rane, allora ci si ritirava ognuna nella propria stanza a leggere due righe prima di dormire.
Era un giorno ancor tiepido quando, voltandomi a guardare la stanza prima di chiudere la porta dietro di me, sentii una morsa stringermi il cuore, come uno strano presagio, scesi le scale e diedi un  bacio a Rose con la promessa di sentirci al più presto, ma non appena salita sull'auto fui pervasa da un'immensa tristezza, diversa dal solito, con la netta impressione che qualcosa stesse finendo.
Non la vidi  mai più: se ne andò un giorno di primavera all'improvviso, portando con sé tutto l'entusiasmo e la tenerezza dei ricordi più belli.
Oggi guardo il suo viso che mi sorride da una foto; sento la salsedine sulla braccia e gioco un po' con la sabbia fino a quando mi va. Non ho più sentito quella voce squillante di chi con il passo deciso veniva verso di me, e non c'è il sorriso di quel volto che ogni giorno entra in casa felice e premuroso con una carezza per poter rinnovare quell'affetto, reinventando la vita ogni giorno in modo diverso per non annoiarsi mai e percorrere assieme ancora un tratto di strada, ma comunque grazie, a chi un giorno ha bussato alla porta del cuore e  con la sua amicizia ha saputo rasserenare parte della mia vita.
E' quasi un giorno di festa, c'è ancora il vento ed ho ancora tanto da fare, è un'altra volta estate e si sente nell'aria, ma ora scusate, perché l'orologio mi sta dicendo che è quasi ora di pranzo, è tardi e  devo  proprio andare, stavolta mi siedo quasi in mezzo al salone: oggi menù speciale.
- Grazie Rose, grazie di tutti quegli anni felici!

Antonio Albanese - L'attesa

Io sono a pezzi.
Ma tu stai per arrivare....
e so che, come sempre,
raccoglierai i cocci
e li rimetterai a posto
insieme con i tuoi...
Mischierai il bianco con il giallo
l'azzurro col mattino
Per le strade, l'asfalto col profumo delle arance,
e tra gli alberi le mani di mio padre
a ritrovarmi bambino.
La polvere vigliacca, confusa ed impaurita
disegnerà allegorie dentro la primavera,
come se andasse in gita.

Gli anni scivolano, e mai all'indietro
misurando ad uno a uno
con un oscuro metro
i pezzi che ciascuno porta a riparare
tra un pranzo di lavoro e una vacanza al mare.

Ma sempre qualcosa manca
in questa stanza soffocata di troppa vita che non basta mai
piena dell’assenza di un abbraccio che frantuma e scompone.
Ma tu stai per arrivare...
e per qualcosa che sfugge alla ragione
sono un tutt'uno la polvere e i mattini,
il colore e la stagione,
il fine ed i suoi mezzi:
le nostre vite
e i nostri pezzi.

Antonio Albanese - Ma qualcosa rimane

Eppure qualcosa rimane
tra le pagine del libro e le pieghe dell’anima
dopo tutte le corse affannose e milioni di parole,
un’infinita costellazione di sillabe e consonanti
e troppe lettere
prive di corrispondenza.
Sono il silenzio e l’ascolto
il segnalibro dell’Umanità
e per quanto a lungo io sia esistito,
di questo matto racconto sgangherato
solo questo ho udito:
quel che m’hai taciuto.
Quella parola non detta
l’ho appuntata su di un pezzo di carta, ingiallito dai giorni,
e poi non l’ho più letta.
Non c’è nulla che parta
nulla che ritorni;
il tempo è passato,
travolgendo tutto:
la carta, i giorni…
e persino il lutto.
Ma qualcosa rimane,
di quello che è mancato,
a riempire la pagina
e forse è questo che stanca:
che quel che resta sia poca cosa
senza quello che manca.

Carlo Tirinanzi De Medici - Il manuale che non c’è

Basta, ho finito la pazienza.
Sono anni che seguo questo disgraziato, lo accompagno ovunque, gli offro da bere e mi faccio scroccare sigarette, insomma sono anni che lo sopporto. Lui, le sue follie, le sue fissazioni, le sue reazioni abnormi. Basta una luce fioca e non capisce più niente, lo vedi stringere gli occhi a fessura come se lo stessero crocifiggendo. Mettetelo in un ambiente dove ci sia un po’ di rumore di sottofondo, che so io, un bar, con il chiacchiericcio e l’acciottolio dei bicchieri, qualche volta uno scoppio di risa e la musica pop; lo vedrete perdere il contatto con la realtà, non rispondere più alle domande, smettere, con tutta evidenza, di seguire la conversazione, perché – dice – i brandelli di discorsi altrui i rumori le melodie lo colpiscono tutti assieme; cerca di seguirli tutti e secondo la sua espressione «va in crash», manco fosse un computer.
Fategli una carezza, sfioratelo con affetto: farà un salto alto mezzo metro, perché, poverino, il tocco leggero proprio non lo sopporta. Girerà con le magliette a rovescio perché dice che l’etichetta gli dà fastidio. Spostategli un libro dalla pila che tiene sulla scrivania, o mettetegli la tazzina del caffè a sinistra anziché a destra: darà di matto.
E soprattutto, non chiamatelo, come faccio io, Aspie, a meno che non vogliate subire un pippone di trecento ore sui cambiamenti apportati dalla quinta edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali alla classificazione dei disturbi pervasivi dello sviluppo, in base ai quali la “Sindrome di Asperger” è confluita nel più generale “Disturbo dello spettro autistico”. «La tua definizione è ormai datata e scientificamente inappropriata», vi risponderà dopo un lungo détour che avrà toccato neurofisiologia, indagini compiute con risonanze magnetiche funzionali e una dozzina di teorie sul funzionamento autistico.
–Non capisco come mai ti ostini a definirmi aspie, peraltro un diminutivo che, come tutti i diminutivi, non apprezzo. Io sono un autistico e basta.
–Ma Aspie, con la maiuscola, non è una diagnosi, è il tuo nome.
–È il nome che mi hai dato tu.
–Sì, è un soprannome, un modo per rinsaldare la nostra amicizia e complicità.
–Ancora con questa storia della complicità, te l’ho detto, non siamo criminali. Non abbiamo fatto rapine. Non progettiamo attentati. In cosa dovremmo essere complici e –soprattutto– perché sarebbe bello essere complici?
Se volete spiegargli voi in che senso parlo di complicità, accomodatevi: io ci ho provato decine di volte anche con supporti audiovisivi e diagrammi, ma inevitabilmente la sua conclusione è che come sempre mi esprimo in maniera impropria. E non è per questo che ho perso la pazienza, no, figurarsi: ormai mi ci sono abituato alle sue stranezze, l’uso univoco del linguaggio, la sua incapacità a mentire, anche striminzite bugie bianche, i discorsi ossessivi sulle centrali nucleari e l’esprimersi solo per citazioni. No, il motivo per cui non lo sopporto più è quella sua dannata incapacità a empatizzare.

Capita a tutti: c’è qualcosa che ti assilla – la ragazza ti ha lasciato, ti è morto il gatto, stai per essere licenziato, ti sei innamorato, hai sfasciato l’auto e non hai soldi per prenderne un’altra, sei triste spaventato arrabbiato – e cerchi un amico per avere supporto, qualcuno che ti ascolti, ti faccia sfogare. Che ti metta una mano sulla spalla e ti dica che andrà tutto bene, a prescindere dal fatto che sia vero. Qualcuno con cui prenderti una sbronza colossale. Sembra una cosa normale, ma non quando questo qualcuno è l’Aspie. Perché lui cercherà sempre una soluzione pratica, e in casi del genere le ipotesi sono due: la soluzione non c’è, perché il gatto è morto la ragazza si è trasferita in Messico l’auto è da buttare, o anche perché a volte uno è triste così, senza motivo. Oppure la soluzione c’è – vai dal padrone e pregalo di tenerti ancora qualche mese; vai dalla ragazza che ti piace e dille che la ami; – ma adesso non vuoi sentirla, perché sei lì solo per sfogarti e bere un altro bicchiere.
Ecco, una cosa del genere all’Aspie è del tutto incomprensibile. Lui dovrà a tutti i costi progettare un piano d’azione, e se non sarà possibile perché una soluzione non c’è o non è quello che vi serve, lo vedrete innervosirsi. Ballerà sulla sedia, fumerà una sigaretta via l’altra, borbotterà da solo e presto vi farà La Domanda, quella che di solito riceve come risposta un sonoro vaffanculo, se non direttamente un papagno in faccia:
–Ma allora se non ci possiamo fare niente, perché siamo qui a parlarne?
Poi vi chiedete perché l’Aspie ha pochi amici.
Dice che è un deficit di empatia cognitiva: praticamente non capisce perché uno sta male, è triste, piange. Bisogna spiegarglielo nel dettaglio, e spesso nessuno sa come mai quella mattina si è svegliato sverso, no? Ecco, dunque, l’Aspie non sa spiegarsi le vostre emozioni. Nemmeno le sue, peraltro, a quanto pare. Il suo orizzonte emozionale, più o meno, si riduce a due aree sbozzate malamente: “OK” e “non OK”, il resto è oltre la sua comprensione. D’altra parte, le emozioni è come se le sentisse. Se vi avvicinate agitati all’Aspie, otterrete un Aspie più agitato di voi, al punto che potrebbe diventare totalmente incapace di pensare. Fumerà quaranta sigarette, berrà compulsivamente, inizierà a sfregare la camicia o a muovere la testa avanti e indietro, nei casi peggiori cadrà in un mutismo totale (shutdown) o si produrrà in un’esplosione di rabbia da quattrenne cui hanno negato il lecca-lecca (meltdown). Farà tutto questo e molto altro, ma non vi aiuterà minimamente, perché sarà vittima di un contagio emotivo. Come quello dei film in cui una folla improvvisamente impazzisce e fa cose idiote, solo in un’unica persona.

Il problema vero si è posto l’altra sera, dopo cena. Eravamo fuori dal locale, bevevamo forse il quarto amaro e io mi stavo sfogando. In effetti è un periodo, diciamo, poco brillante, per una serie di congiunzioni astrali comunemente dette: sfiga mi sono ritrovato senza lavoro, sull’orlo di uno sfratto, ricco di casini sentimentali e perdipiù – sfiga maxima – con un serio problema in famiglia. Da circa due mesi mia madre è infatti gravemente depressa. È seguita da un medico, ma da alcune settimane ha anche iniziato a parlare molto spesso di suicidio. Mio padre è disperato, e io ho molta, molta paura. Insomma, avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Per mia somma sfortuna ho scelto l’Aspie. Ero arrivato al punto clou, quello relativo a mamma. «Tutti i giorni minaccia il suicidio e…», e l’Aspie nemmeno mi fa finire, gli capita quando è agitato o eccitato.
«Tutto sommato», inizia, «non c’è da preoccuparsi troppo: il 70% degli episodi depressivi maggiori si risolve in un massimo di tre mesi – mediana cinquantotto giorni –. Inoltre, lo so che sembra paradossale, ma statisticamente chi preannuncia atti anticonservativi tende a dare seguito alle minacce in percentuale decisamente minima. Sarebbe stato più preoccupante se avesse avuto comportamenti meno problematici: il candidato ideale al suicidio è il paziente che ha smesso di cercare interazioni con l’esterno, che ha ridotto a zero i tentativi di comunicazione, che ha smesso di parlare dei propri problemi».
Oh, io lo so cosa sta pensando: Ecco fatto, finalmente un argomento su cui ha potuto intervenire in modo sensato. Ha fornito dati rassicuranti, che dovrebbero lenire le paure. È confortante sapere che un evento temuto ha scarse probabilità di verificarsi, no? E qui abbiamo centinaia di studi di coorte, migliaia di pazienti, solide metodologie statistiche che permettono di calcolare la probabilità dell’evento: e quella probabilità è bassa! C’è da festeggiare, almeno questa palata di merda ti ha mancato, amico mio; nessuna mamma tenterà il suicidio, non questa sera! E vedrai che, uno per volta, risolveremo anche gli altri problemi.
È evidentemente soddisfatto. Per questo non capisce come mai lo fisso in silenzio. Credo, in realtà, che non colga nemmeno il fatto che lo sto fulminando con gli occhi (che idiota sono, certo che non lo coglie, quello non guarda mai nessuno negli occhi). Così gli devo spiegare che forse mamma è in quel restante 30%, che magari lei è l’eccezione che conferma la regola, che sicuramente lui è un cretino uno stronzo un idiota insensibile.
–Ma ti sembrano cose da dire?! Ti sembra che ho bisogno delle tue statistiche del cazzo?! Sto raccontando un problema serio, cosa me ne frega se il sessanta per cento dei depressi non si ammazza?»
–Veramente è il settanta per cento, ma riguarda la durata dell’episod…
–Fosse anche il novanta: non è quello che mi serve! Se non hai niente di intelligente da dire, ti conviene stare zitto! Non ho bisogno di numeri freddi, tirati fuori da qualche scienziato pazzo. Non sono dati, sono persone! Carne! Sangue! E, spesso, Sansimone!
–Ok, senti…
–No, senti tu: ti ho raccontato queste cose perché volevo mi capissi, non perché cercassi di tirarmi su con questi tuoi inutili conti della serva! È una cosa del tutto fuori luogo. Perché, piuttosto, non mi hai guardato negli occhi e non mi hai dato una carezza?
–Perché non so se la nostra relazione, al momento, mi consente di farlo.
–Devi leggere il manuale anche per questo? Perché devi sempre classificare tutto? Perché devi sempre attenerti a qualche regola del cazzo, che peraltro nella maggior parte dei casi ti inventi? Hai mai un comportamento spontaneo?
–Sì, ogni tanto, ma di solito finisce in questo modo, ecco perché se ci fosse un manuale, in effetti, gradirei molto leggerlo.
–Sei un caso disperato.
–Forse sì. Ma, senti, davvero non volevo ferirti. Non stavo cercando di sminuire il fatto che stai male, o che sei preoccupata per tua madre. Quello, anche se mi sembra assurdo, lo sento. Pensavo ti avrebbe tranquillizzata, almeno un po’.
–E invece no, cazzo.


Da allora non ci siamo più sentiti. Forse ho esagerato, in effetti voleva aiutarmi, per quanto nel suo modo contorto. Ma non posso sempre sopportare tutto. E non pensiate che dopo vi chiamerà non dico per chiedere scusa, ma per sapere come va: no, lui si perde dietro alle sue cose dimenticandosi persino di andare in bagno. Gli verrete in mente a orari improbabili, e non telefonerà né manderà un messaggio perché a quell’ora, stando alla sua rigida weltangshauung, non si effettuano comunicazioni non d’emergenza.

Eppure adesso che ci ripenso mi accorgo della sua paura, del suo stupore. È come se avesse avuto una percezione nuova, se gli fosse balenato davanti ciò che non ha mai avuto fino ad ora; per un attimo deve avere intuito com’è la vita degli altri — incasinata, complicata dalle incongruenze logiche, da questi fiotti di sensazioni che ti colpiscono e ti buttano a terra. E si rende conto che gli altri, i neurotipici, queste cose le provano meglio, con maggior frequenza e da più tempo; per questo hanno imparato a gestirle. Lui, invece, si muove tra le ondate di emozioni come quando cammina in una stanza piena di persone: goffamente, tanto più urtando negli spigoli quanto più cerca di evitarli. Non sa come fare. Dev’essere successo qualcosa: prima le sue emozioni erano in sordina, ora le spara un amplificatore da mille watt dritto nel suo sistema limbico. Continua a non capirle bene, ma ora cazzo se le sente: e quindi ancor più di prima quando sente le emozioni degli altri ne è sopraffatto. Ecco, forse il mio giudizio sull’Aspie è stato troppo duro, perché lui ora sa, ancorché vagamente, quello che provano gli altri, ha avuto idea dell’orrenda altalena di sentimenti su cui ci muoviamo noialtri, e lui non ha il manuale d’istruzioni, non sa come fare per rallentare certe sensazioni, o come accoglierle.
Allora forse, dopotutto, resterò qui. Per capire i suoi comportamenti e spiegarglieli. A lui, e agli altri, che non sanno cosa vuol dire essere Aspie in questo mondo di incostanti, imprevedibili neurotipici. L’Aspie non ha il manuale che gli serve, ma forse ce l’avrà presto. Meglio che gli telefoni subito, altrimenti se aspetto lui ci sentiamo tra dieci anni.

Carlo Tirinanzi De Medici - Quante storie

Sembra che tutti abbiano una storia tranne lui.
Da ragazzo tornava a casa la sera in bicicletta attraverso la periferia. Scivolava nel crepuscolo, il cielo viola, i casermoni tutti intorno, e le finestre illuminate dal ronzio azzurrino dei tubi catodici. Intravedeva qua e là un lampadario, un po’ di mobilio, quasi mai figure umane. Probabilmente in quelle abitazioni popolari la vita scorreva secondo i ritmi che conosceva bene; a quell’ora l’uomo e gli eventuali figli erano schiantati sul divano, sotto l’orizzonte degli eventi formato dal davanzale; la donna riordinava in cucina, sul retro. A ogni scorcio di abitazione che vedeva, per quanto anonimo e seriale fosse, immaginava le vite che si muovevano in quei pochi metri quadri. Immaginare forse è troppo, non ha mai avuto molta fantasia, però si chiedeva chi era a considerare quella credenza figlia di un’offerta del Mercatone Uno parte della propria intimità, quali i loro mestieri e i loro passati. Perché anche chi vive in un appartamento con i soffitti bassi e gli infissi che dovevano essere cambiati dieci anni fa, al terzo di dodici piani di un casermone nella periferia di una città di provincia, tra le macchine bruciate nello spiazzo sul retro e l’intonaco scrostato, dove c’è sempre almeno un ascensore rotto e si sentono perfettamente i vicini mentre litigano o fanno l’amore, ha una storia.
Il ricordo di quelle pedalate lo invade d’improvviso un martedì sera, poco prima di crollare addormentato all’una per merito della bottiglia di vino rosso che è il suo personale rimedio contro l’insonnia. Lui proprio non sa quale sia la propria storia.

Una volta qualcuno ha detto che una storia è fatta di eventi: per avere un evento serve un agente che compia un’azione, e più eventi messi in fila fanno un racconto. Certo, il racconto ha le sue regole, segue la sua meccanica: c’è un russo un po’ pazzo, Viktor, che ha cercato di compilare un manuale d’istruzioni per i meccanici delle storie e la cosa che per Viktor è fondamentale in un buon racconto è la motivazione, il modo in cui le parti si legano, acquistano una loro necessità. E la si può ottenere solo attraverso un’opera di selezione: scegliere cosa raccontare e cosa escludere; conservare solo gli elementi riconducibili a una stessa motivazione. È così che da una serie di episodi slegati creiamo una storia compatta, una di quelle che ci piace sentire. È un modo per opporsi allo scorrere senza senso o importanza del mondo, al fatto che ogni cosa succede per un po’, e poi è finita.

Poi, alcuni mesi fa, incontra la ragazza con i capelli pieni di nodi. Ha mento squadrato e occhi dell’azzurro di certi vecchi jeans. Si sono visti una sera d’inverno per quello che doveva essere un aperitivo e non sono riusciti più a staccarsi. Quell’intensità fa paura a entrambi, è insolita, ma tutto ciò che la riguarda, pensa, è insolito. È insolito il suo passo deciso; è insolita la sua schiettezza, il bisogno di dire sempre ciò che pensa; è insolita la risata forte che sembra prendersi gioco di tutti, anche di se stessa. E sono insoliti quei suoi capelli apparentemente indomabili, sempre scomposti e pieni di nodi. E – soprattutto – è insolita la sua fame di storie.
Nei trentadue giorni passati insieme ininterrottamente, giorno e notte, gli ha raccontato centinaia di episodi della propria vita e ha voluto ascoltarne altrettanti della vita di lui. Quando non si raccontano storie di cui sono stati protagonisti o spettatori, si leggono reciprocamente i racconti che scrivono o guardano film e serie televisive, e lei in particolare sembra non riuscire a farne a meno, come se assorbire tutti quei racconti fosse una questione di vita o di morte, un modo per essere in molti posti e tempi —  e se non esistono, in fondo, cosa importa? Bevendo troppo e fumando centinaia di sigarette, uscendo dal letto solo per comprare cibo e vino, i due sembrano aver raggiunto una comprensione reciproca che non avevano mai provato. Addirittura lei una volta gli dice: «Esci dalla mia testa», e mentre lo fa emette quella risatina – un trillo così diverso dalla sua solita risata possente e ironica – che fa quando è felice di qualcosa.
Raccontare, ascoltare, bere. Il tutto intervallato da un sesso scomposto, spesso violento al punto che i due si ricoprono di lividi, talvolta interrotto per troppo alcol o sonno. I loro bioritmi sono assurdi, ma sincronizzati: si addormentano alle tre, si alzano alle dieci, le giornate sono scandite dalle bottiglie di vino e dai racconti che fluttuano nell’aria della stanza, pesante di sesso e sigarette. Dopo dodici giorni si dicono nello stesso momento che si stanno innamorando l’uno dell’altra; dopo quindici lei parla di rapporto esclusivo. Lui le chiede una cosa sola, chiarezza fino alla brutalità. Sempre. Sembra d’accordo.
Dopo trentadue giorni lei si ritrae: gli spiega di brutti ricordi che le salgono d’improvviso, e quando accade sembra che nulla abbia più senso, che progettare un futuro sia solo un modo per avere altro da perdere quando la tempesta colpirà.
Lui capisce l’ansia, e le dice che se vuole un periodo di distanza, deve solo dirlo. Lei lo ringrazia ma non glielo dice. Però sparisce. Per giorni, all’inizio, e quando ricompare comunica a monosillabi. Lui cerca di non starle addosso. Poi sparisce per una settimana. Lui non sa cosa stia succedendo, perché non riesce a interpretare i silenzi e i non detti. Chiede se può invitarla a uscire. Lei dice di sì. La invita. Lei lo accusa di volerla controllare, di non saper rispettare i suoi spazi, di possessività. Lui è interdetto: ha molti difetti, ma nessuno ha mai pensato queste cose di lui. Smettono di sentirsi e lui passa il tempo cercando di studiare e chiedendosi dove ha sbagliato.

Davanti a sé ha il libro di microbiologia, gli appunti di una studentessa che non sa compitare “polimerasi”. Fatica a concentrarsi. Sta studiando forme di vita elementari. I virus stanno sul confine stesso della vita. Sono pura esistenza, spinti solo dalla necessità di riprodursi, invadono tessuti e cellule, ne alterano il metabolismo. A differenza degli organismi superiori non provano paura o dolore o tristezza. La morte dell’ospite non è voluta o cercata, è una conseguenza del tentativo di sopravvivere oltre se stessi.
I batteri e i virus non devono rivestire i loro bisogni di motivazioni, i loro non sono nemmeno bisogni, è solo una cascata di segnale. I batteri non studiano microbiologia, non hanno una memoria visuale e così non vedono la ragazza comparire d’improvviso mentre muove la bocca verso sinistra e poi verso destra tenendola leggermente compressa, quasi a mandare un bacio. I batteri non attribuiscono a questo gesto un significato, non sanno che è un segno di incertezza, di perplessità.
I batteri non sono distratti da questi ricordi in forma di immagini che si fanno strada nella coscienza di lui e lo strappano alla lettura, alla costruzione delle sue mappe mentali del cazzo. I batteri non pensano di avere sbagliato, e non devono giustificarsi. Li giustifica la biochimica, molecole che si legano a un recettore e iniziano una cascata di segnale al cui fondo c’è un flagello che ruota e li fa nuotare verso una mucosa, un altro batterio, dello zucchero, verso la vita. Non c’è invenzione, non c’è racconto. C’è quello che c’è, semplicemente. Il resto non esiste.
Lui invece deve sapere, capire. Prende dei manuali di psichiatria, scarica articoli scientifici pieni di statistiche, il valore di p è sempre inferiore a 0,05. Studia gli stili di attaccamento: quello ansioso-evitante è caratterizzato da intensa vicinanza e condivisione, cui presto subentra uno stato ansioso che induce al distacco per un inconscio timore di essere rifiutati.
Il disturbo da stress post-traumatico è spesso caratterizzato da atti autodistruttivi, sbalzi d’umore e improvvise esplosioni di rabbia, abuso di alcool o sostanze.
Il disturbo di personalità borderline fa parte del cluster bipolare, e tutti i bipolari sono caratterizzati da rapidi e improvvisi cicli di valutazione-svalutazione del partner e repentini cambi d’idea e d’umore
Osserva i grafici che accompagnano gli articoli. I grafici di dispersione trasformano le individualità in punti su un pinao cartesiano, ognuno all’incrocio di due variabili. Poi i puntini sparsi vengono sussunti in una linea rossa. Si chiede se la ragazza dai capelli pieni di nodi rientra in quella linea. Ne dubita, gli sembra che non tutto riesca a tornare. Non vede una correlazione lineare. Allora smette di cercare diagnosi, nomi per le cose.
Ne parla con un amico.
– Tu pensi di volere delle risposte –, gli dice, – ma in realtà vuoi una storia.
– Non sono bravo con le storie.
– Nessuno lo è. Ma tutti lo vorrebbero essere. Tempo fa le persone avevano l’impressione di vivere nella Storia, quella con la esse maiuscola, uno luogo in cui i destini individuali si rifrangevano in quelli generali, quando ogni scelta di ognuno sembrava determinante per tutti. Poi lentamente siamo scivolati in uno spazio neutro in cui nulla di ciò che facciamo sembra possa influire sul resto. È questo a spingerci verso lo storytelling.
– Lo storytelling?
– Il racconto. La storia. Tutti parlano di narrazioni: perdiamo le elezioni perché le narrazioni degli altri sono migliori. Guardiamo le serie tv su Netflix perché sono imbottite di storie. È come il kintsugi giapponese: frammenti di ceramica ricomposti con una colla a base d’oro. Il racconto è la colla, i frammenti la vita.
– Questo lo fa la ragazza dai capelli pieni di nodi. Le storie che racconta sono ricostruzioni di eventi con cui evita di affrontare i propri demoni, di dover fare i conti con se stessa. Raccontare o smettere di farsi sentire, sono tutti modi di fuggire. Di non scoperchiare il proprio io. Di tenere i propri fantasmi al guinzaglio, almeno per un altro po’, almeno finché reggono le barriere.
– Lo facciamo tutti. Tu vuoi chiamarlo “disturbo post-traumatico da stress” perché sintetizzi tutta una storia in quell’espressione. Lei forse lo chiama “sei soffocante”, ma è la stessa ricerca di una storia.
– Ma non è vera. Io non sono così. Non sono stato oppressivo.
– E allora? Cerchiamo freneticamente schemi e simboli nelle cose; progettiamo arcate di senso che poggiano sull’assoluta insignificanza delle nostre esistenze, pronte a cedere alla minima scossa; vorremmo ricondurre l’aleatorietà dell’esistenza a qualcosa che ci trascenda, ma non sappiamo cosa possa essere. Così proviamo a individuare almeno noi stessi, a gettare un ponte tra il nostro io di dieci anni fa e l’attuale: ci raccontiamo storie su noi e sugli altri perché è l’unico modo che ci è rimasto per imbastire un pur vago senso. La congruenza di queste storie con la realtà è, per molti versi, superflua.

Ma forse, pensa, anche questa è solo una storia, una ricostruzione imperfetta e incerta. Gli manca la sicurezza di lei per crederci fino in fondo. Mentre torna a casa dalle finestre arriva una luce azzurrina. Rare risate, rumore di piatti spostati. Qualche televisione. Nelle orecchie ha la sua voce: «Sono contenta di essere qui con te». Si rende conto che c’è sempre qualcosa che manca, che è al di là dell’orizzonte degli eventi, come dalle finestre dei casermoni non si vedevano mai i divani, né i tavolini con sopra posacenere e familiari di Peroni. Anche se con ottima probabilità erano lì lui non poteva saperlo allora, come ora non sa se fa bene o male a pensare queste cose. Sa solo che è triste, perché se deve tentare quest’atto di fede che è il racconto vuol dire che non è più nella testa della ragazza. E gli fa male.
Entra in casa, vede l’accendino con Bob Marley, si vede accenderci una sigaretta e passargliela nel buio, con la cenere che cade sulle lenzuola.
Ecco, forse lui non riesce ad accedere alla semplificazione necessaria per costruirsi un percorso negli eventi, dando loro direzione forma senso. I dettagli gli si parano tutti davanti e gli incastri non sono perfetti, non sa usare quella colla dorata per ricomporre i pezzi in un insieme. Sarebbe un’alterazione ingiustificabile. Non sa, o non riesce a mentirsi, non mente a nessuno, mai. E resta lì, senza una storia, con queste immagini che gli scorrono davanti agli occhi, schegge di passato una via l’altra, sempre più rapide, in un presente infinito. Allora nomina i dettagli per avere almeno una presa sui pezzi di memoria che non sa ricomporre. Resta davanti al libro, osserva quello che c’è e c’è stato e vede ogni cosa accadere, e – prima o poi – finire.

venerdì 29 giugno 2018

Loretta Stingone - Respiro

Mi siedo a guardare l’orizzonte
dietro l’ombra di nuvola stanca arrivo fino a te

Nel crepuscolo ancora vivo
sento un fremito

Sono io

L’anima inquieta protesa tocca l’infinito
forse il mio cuore si vuole raccontare

In un fiume lontano gioco tra le rapide
rincorro l’onda e il respiro di un tempo che non ho
gioia e poi la quiete

In un lampo di vita passi tu
immagine mia riflessa
cuore indomito

Come l’acqua
ti sento
scorri lentamente dentro me
ma scivola la mia mano
che ora chiusa
non ha te

Sara De Pieri - Jack Senzacuore

Jack lo chiamavano Senzacuore perché lo aveva perso in un pomeriggio caldo, quando non aveva ancora tutti i peli al loro posto, Jack lo chiamavano Senzacuore perché quando ti guardava ti chiedevi se ci fosse vita dietro quegli occhi neri, Jack lo chiamavano Senzacuore perché a lui piaceva farsi chiamare così e solo un'idiota lo avrebbe contraddetto.
Un giorno Jack si era perso per una scommessa e aveva finito per accettare un incarico che gli avrebbe rovinato la vita, ma in quel momento lui non lo sapeva ancora e poi cosa c'era tanto da rovinare?
Era seduto al bancone del bar e un tizio, uno che conosceva più o meno da vent'anni e più o meno da qualche minuto, gli disse: “senti Jack facciamo così, se mi porto nel retro Giulia tu fai una cosa per me, se ci riesci tu puoi chiedermi quello che vuoi”.
A Jack non fregava un cazzo di nulla, si stava annoiando da una vita e perse la scommessa solo per vedere dove Tizio volesse andare a parare.
“Allora Jack, ci sono due bambocci al porto, sono venuti qui per vedere com'è la vita vera e pensavo di mostrargliela, tu che dici?”
L'alcool aveva sempre un effetto un po' strano sul nostro cowboy e mentre Tizio gli spiegava nei dettagli il piano del rapimento, lui si mise a ragionare su cosa fosse la vita vera, su cosa fosse la vita in generale e soprattutto se ci fosse qualcosa di vero in tutto quel pandemonio.
Meglio la sbronza cattiva dico io, ci saremmo risparmiati tutto sto casino.
Il giovedì alle dieci il mare era piatto, le reti erano da sistemare e mentre azzannavo il mio solito panino con le aringhe vidi Jack che se ne stava sul pontile con un vestito troppo largo per essere suo e troppo blu per aver visto il nostro sole per più di due ore, “Mi hanno detto che cercavate una guida" allungò una stretta di mano secca e decisa "qui intorno non ne esistono altre, a giornata prendo 50 ma sono compresi gli spostamenti con il mio mezzo”. Per quelli là erano quattro spicci e prezzi più bassi sarebbero stati sospetti, uno dei due bambocci, quello più delicato e con i capelli da femmina, sorrise all'altro, disse che gli sembrava un po' troppo ma cacciò fuori senza esitare i 50.
Dalla barca uscì una donna alta, con poche curve e un fascino nervoso, una di quelle che vorresti salvare dal mondo ma che finiscono per spolparti l'anima. “Mi sono unita all'ultimo, spero non sia un problema, soffocavo in albergo e ho sempre odiato le spiagge affollate. Piacere Aurora” spense la sigaretta a terra e porse la mano a Jack. Se Jack fosse stato uno di quegli uomini trasparenti, uno di quelli che la moglie li becca la sera anche se hanno solo guardato una donna al mattino, se fosse stato un uomo qualunque, di quelli che non sanno mentire se tornano con l'alito di birra, il piano sarebbe finito lì. Senzacuore però non mostrava più sentimenti del masso che dominava sul paese, e se so che quell'aggiunta imprevista gli aveva morso le budella è solo perché so come è andata a finire.
Jack non sapeva che cazzo fare, lui doveva solo occuparsi del trasporto e recitare una piccola parte mentre Tizio e Caio prelevavano i due bambocci dalla macchina. Una persona in più complicava le manovre.
Per prima cosa quella sembrava una che non regge la vista di un ragno, figurati stare in un deposito sotterraneo, era capace che iniziava a fare scenate isteriche ledendo i nervi di Tizio e le orecchie di Senzacuore.
Poi chi era? I suoi potevano sborsare qualcosa? E se c'aveva il ciclo? E quei tizi non sembravano proprio affidabili, era il caso di chiuderli insieme?
“Chiamo i proprietari della chiesa, che di sti tempi non è che la lasciano sempre aperta”
Tizio rispose al terzo squillo, “Che cazzo c'è Jack?” “ Stiamo partendo, c'è na tipa in più!” “ come una tipa in più? E chi diavolo è? ma che aspetto ha? Sembra una con la grana?” Jack si voltò a guardare Aurora -una che indossa un vestito bianco lungo per una gita tra la terra rossa sicuro c'ha la grana, quella pelle fine poi, non avrà manco mai lavato un piatto in vita sua- “c'ha la grana sicuro” “eh vabbeh, meglio, ci arrangiamo noi, tu non ci pensare”.
Arrivati a un chilometro e mezzo dalla chiesa la macchina si arrestò improvvisamente, Jack fece finta di scendere a controllare, Tizio e Caio lo colpirono, poi si occuparono dei bambocci e della tipa. Jack si svegliò in macchina “vaffanculo, c'ho mal di testa ora”, “eh dai, scusa mi sono fatto prendere la mano” Caio rispose con un sorriso da pugni, il dente in meno suggeriva che lo aveva usato troppo spesso.
Al deposito Jack si sedette comodo nella zona meno umida, ripassando la sua parte mentre bambocci e Aurora erano ancora fuori gioco, Tizio e Caio non li avevano legati, la porta aveva una finestrella per il cibo e si sarebbero arrangiati così.
Al risveglio i bambocci andarono in panico, iniziarono ad urlare, se la presero con Jack e lo strapazzarono un po’, Jack avrebbe potuto spaccar loro la testa contro il muro, ma poi tutto quel casino non avrebbe avuto senso, quindi si rimise seduto ad aspettare il risveglio di Aurora.
Quando Aurora si riprese reagì in maniera strana, si guardò attorno confusa, mormorò qualche parolaccia e poi rimase a guardare il pavimento con espressione annoiata per quelle che sembrarono ore. Ogni tanto i bambocci le chiedevano se stesse bene, o urlavano a Tizio e Caio di liberarli, che c’era una donna lì! ma era evidente che ad Aurora non fregasse nulla di tutto quello che stava succedendo e che erano loro ad essere terrorizzati.
Al calare del sole Tizio e Caio calarono una cassetta di plastica con dentro 4 panini, Aurora rimase lì senza neppure fare cenno di alzarsi, i bambocci le chiesero se per caso non avesse fame e si presero anche il suo panino.
Jack si alzò, lo strappò di mano a capellidafemmina e lo porse ad Aurora, “non ho fame”, "non è per te è che quei due non se lo meritano mica”, Aurora diede un morso e Jack le si sedette accanto. “Ma tutta sta situazione non ti manda in palla?" “Di cosa stai parlando?" "Dello scantinato, del rapimento, dell’essere qui con tre coglioni” “Ah, quello, meglio dei bambini urlanti in spiaggia comunque”
Jack non si interessava ad un altro essere umano dal giorno in cui era diventato Senzacuore eppure Aurora non gli sembrava esattamente un essere umano, più un problema su due gambe o una grossa nuvola nera, “ma che cazzo c’hai?”
Aurora iniziò a parlare tranquillamente, come se non ci fosse fretta o pericolo, raccontò del buco nello stomaco che aveva da così tanto da non ricordarsi neppure bene quando era iniziato, e parlò della corazza che le stringeva il petto, di tutti quegli stronzi che parlavano e si muovevano e ridevano e gridavano come se non fosse tutto estremamente insignificante, parlò della sua vacanza al mare che era un po’ come portarsi dietro un masso e sperare che si sciolga al sole, parlò di un sacco di relazioni finite e del fatto che non capisse neppure molto bene cosa volesse dire la parola amore, “alla fine questo scantinato è la cosa migliore che potesse capitarmi, qui non devo fingere nulla e se finisce male almeno non avrò dovuto impegnarmi troppo”.
Jack era un po’ stordito da quel casino di informazioni, la tipa gli sembrava un po’ stordita e decisamente troppo incasinata, ma dopo anni gli venne voglia di raccontare la storia di quel giorno in cui aveva perso il cuore, e da lì il vuoto, le cazzate che aveva fatto senza rendersene conto. 
I due bambocci continuavano a frignare mentre la notte proseguiva e quasi Tizio e Caio credettero di sentir ridere nello scantinato “manco un giorno giù e stanno già fuori, che dici vado a colpirli di nuovo?” “ma che cazzo te ne frega, siamo in mezzo al nulla e i parenti stanno già cercando la grana, non fare stronzate”.
Al mattino Jack era stanchissimo e non sapeva che pesci pigliare, da una parte voleva levarsi dai casini il prima possibile dall'altra sentiva già la noia di tutti i giorni che gli alitava sul collo.
Aurora gli era entrata in testa e aveva bisogno di capire bene cosa fare delle carte che aveva in mano.
L'idea di lasciarla lì con i bambocci non gli piaceva affatto e stava già pensando ad una soluzione per tirarla fuori dall'impiccio, in tarda mattinata Tizio e Caio lo avrebbero liberato, ora doveva solo decidere se trascinare Aurora con sé, parlare con Tizio e Caio o combinare un finimondo.
Aurora sembrava dormire, ma aveva un sonno così leggero che le palpebre le si chiudevano a malapena, un  raggio insistente proveniente da una finestrella in alto la convinse definitivamente a tirarsi su, si mise a fissare il vuoto e continuò a non toccare il cibo a fianco a lei che presto sarebbe diventato pranzo per formiche e insetti vari.
"Quella mi crepa qui se la lascio fare" pensò Jack.
Le si avvicinò, i bambocci stavano ancora dormendo per tutte le energie che avevano speso frignando la sera prima, "senti, ho da dirti una cosa", le spiegò la storia del rapimento per filo e per segno.
Alla fine del riassunto Aurora lo guardò innervosita " dovevi proprio dirmelo? Potevo stare qui, lasciare passare le ore e magari i casini che mi affollano la mente o che ne so provare a vedere se da qualche parte dentro di me esiste un minimo di istinto di sopravvivenza... ora invece mi sento responsabile anche per quei due, appena uscita da qui dovrò tirare fuori anche loro e poi mi toccherà tornare in spiaggia, in mezzo ai bambini..." " Senti fa' quello che vuoi" "va beh, qual è il piano?"
Quando Tizio e Caio, passato un po' il post sbronza, aprirono la porta per fare uscire Jack si guardarono attorno, videro i bambocci ancora distesi ma nessuna traccia della bambola. "Dov'è la Gattamorta, Jack?". "Non lo so, mi sono svegliato e non l'ho vista".
Caio si guardò attorno poi fece qualche passo all'interno dello scantinato, sentì un dolore forte alla testa, poi vide nero mentre il suo corpo rotolava giù dalle scale. Tizio si beccò un pugno in faccia, quello che si meritava da una vita e poi parecchi altri. Aurora e Jack presero le chiavi a Tizio e si diressero verso la macchina, Aurora prese il posto alla guida, alla vista delle prime case si fermò e abbandonò Jack per la strada, "ti conviene sparire in fretta" e accelerò verso il paese. "Ma guarda sta stronza!" Jack guardò la macchina allontanarsi, poi sorridendo si incamminò verso la rimessa delle barche.
Qualche giorno dopo, mentre mia moglie si lamentava in cucina perché mi ero fatto fregare la barca, Aurora era con i due bambocci al telegiornale, sembrava una dea fragile ma i suoi occhi puntavano dritti la telecamera, parlò della fame, della sete, di come si era liberata da sola e di come aveva liberato gli altri, parlò di tutto meno che di Jack.
Jack era diventato il fantasma nella nostra storia, Aurora non lo nominava neppure, mentre i due sbraitavano che era complice e andava catturato. L'intervistatore fece la solita ultima domanda da domande finite, "la sua vicenda è stata drammatica, vuole aggiungere qualcos'altro?" "Corri più veloce della noia Senzacuore!"
Jack lo chiamavano Senzacuore perché lo aveva regalato in una notte umida, quando le rughe gli segnavano già il volto e aveva una fame della miseria, Jack lo chiamavano Senzacuore perché quando guardava il mare dalla nave sembrava non stesse guardando nulla, Jack lo chiamavano Senzacuore perché nessuno riusciva a scoprire il suo vero nome.

Stefano Mascella - Resistenza!

«Resistenza o Rivoluzione?»
Erano anni che non sentivo quelle due parole, mai mi sarei aspettato che le potesse pronunciare mia figlia. Si chiama Adelina e tra poco compirà 18 anni.
Adelina è un nome da vecchia, così ci ha sempre rimproverato lei per averglielo messo. Ma nella famiglia di Fiorenza, la madre, resiste la tradizione di alternare questi due nomi femminili tra le generazioni. Io avrei optato per una rivoluzione, ma Fiorenza neanche a parlarne. Così Adelina, sin dalla prima età della ragione, ha sempre preferito farsi chiamare “Deli”.
La guardo un po’ fiero e un po’ preoccupato. Finché la resistenza e la rivoluzione le facciamo noi, magari solo a parole, va tutto bene, ma dai figli non la si gradisce.
«In che senso?» Le lancio uno sguardo dubbioso. Lei capisce al volo e si mette a ridere.
«Ma no, papà, tranquillo. Dicevo per la tesina della maturità.»
Ecco, adesso le parole resistenza e rivoluzione tornano a piacermi. La cosa mi garba ma mi mette anche un po’ di tristezza.
Adelina quest’anno farà la maturità, l’ultima in cui ci sarà da portare una tesina. Dall’anno successivo le cose saranno diverse e invece della tesina si considererà la famigerata alternanza scuola-lavoro. Segno dei tempi che cambiano.
«Deli, forse è un po’ presto per pensarci no? Sei appena a inizio anno.»
«Beh no. Devo concordare con i professori l’argomento e va deciso entro fine mese..»
Resistenza o Rivoluzione allora? Quand’ero ragazzo io, i due concetti erano terra fertile per le battaglie politiche. E per le manganellate della polizia.
«Non saranno tematiche un po’ antiquate?» le dico dubbioso.
«Anche il liceo classico è antiquato?» E ride di nuovo.
«Beh, no…» e rimpiango di aver usato quel termine.
In fin dei conti nessun concetto è antiquato, basta saperlo rileggere con gli occhi della Storia.
«Sai Deli,» riprendo «è solo che gli esseri umani non imparano mai.» Ma mi accorgo che sto per dire una cosa che non è quella che lei voleva. «Ma sì, dai. Sono due argomenti interessanti e puoi agganciarci tante materie.»
«Solo che non volevo essere banale. Non è che siano due tematiche troppo inflazionate?»
«Ma no. Basta non limitarsi ai primi argomenti che ti vengono in mente.» Penso alle Rivoluzioni più famose della Storia, quelle che si studiano a fine liceo. Lasciando perdere le Rivoluzioni americane e francesi, che sono nel programma del quarto anno, quelle dell’ottocento e del novecento sono parecchie. Cerco di pensare a qualcosa di non troppo trito e ritrito e mi viene in mente la Resistenza degli indiani nord-americani.
«Sai cos’è un potlatch?» Le chiedo.
«Aspetta un attimo…»
Le arriva un messaggio sullo smartphone, oggi i ragazzi usano Telegram, io ancora Whatsapp. La vedo digitare velocissima coi pollici. La rivoluzione digitale, penso.
Faccio l’avvocato, ho un piccolo studio. La mia passione per i diritti delle persone si è trasformata in un corso di studi in Giurisprudenza. Volevo fare il giudice. Ma poi il concorso per la magistratura non è andato e allora, di ripiego, mi sono messo a fare l’avvocato spinto dall’idealismo di difendere i più deboli.
«Dicevi?» mi fa lei.
«Un potlatch. Sai cos’è?»
«No.»
«È un antico rito degli indiani d’America.»
«Tipo stregoneria o cose cosi?»
«No. Beh sì, anche. Ma non solo stregoneria. Era una specie di festa popolare.»
«E c’entra qualcosa con la Resistenza e la Rivoluzione?»
Ci penso un po’ su.
«In un certo senso sì. Non volevi essere banale, vero Deli?» Le sorrido.
«Dimmi, allora.»
«Dunque, il potlatch è una cerimonia che si svolge presso alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico. Si tratta di un rito che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone: La cosa importante è che in un potlatch vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati di prestigio. Un po’ come se tu spaccassi il tuo i-phone…» Sono già pentito dell’esempio, Adelina mi aveva già chiesto di comprarle il nuovo modello ma io avevo opposto “resistenza”.
«È una cosa stupida» mi fa.
A me scappa un sospiro di sollievo ma cerco di non darlo a vedere.
«È quello che a noi occidentali sembra. E forse lo è.»
«Ma a che serve distruggere una cosa di valore? E che c’entra con la Rivoluzione.»
«Serve a ostentare ricchezza. Se tu spacchi il tuo i-phone è perché sei ricca. Vuoi impressionare i tuoi amici.» E mi pento di nuovo.
«Non lo farei mai! Mi prenderebbero per pazza!»
«Giusto» e ringrazio il cielo per il suo buon senso. «Oggi è come dici tu. Ma quel rito è, in qualche modo, simile a tanti riti presenti in altre culture. Pensa per esempio all’ostentazione dei pranzi di nozze italiani. Almeno fino a pochi anni fa, più si era in condizioni economiche difficili, più si voleva esagerare con lo sfarzo. Con lo spreco.»
«Ma lo si fa ancora.» aggiunge lei. «Hai presente quel programma televisivo, “Quattro Matrimoni in Italia”?»
«No.»
«Vabbè non importa. Ma non capisco cosa c’entri la Resistenza, né tantomeno la Rivoluzione.»
«Beh Deli, devi sapere che i pothlach sono stati dichiarati illegali in Canada e negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo principalmente a causa della pressione dei missionari e dei governativi che la consideravano "un'abitudine più che inutile", sostenendo che fosse dispendiosa, improduttiva e contraria all’etica del lavoro e ai valori delle società americane e canadesi. Nonostante il divieto, la pratica del potlatch ha continuato a esistere illegalmente per anni. Molti Nativi Indiani d’America hanno mandato petizioni al governo perché rimuovesse la legge che però non è mai stata abolita, anche se nel XX secolo l'opposizione al potlatch si è notevolmente affievolita.»
«Quindi in un certo senso hanno opposto una Resistenza?»
«Già.»
«Papà, d’accordo che è stata fatta una legge stupida, però in fondo distruggere le proprie cose è una sciocchezza.»
«A noi sembra così. Ma nella loro cultura, serve a stipulare alleanze o a rinforzare le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi. In quei riti non è solo importante la distruzione dei beni ma anche e soprattutto lo scambio di doni. Attraverso il potlatch si fa gara a distruggere beni di valore per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso si fosse perso. Infatti, al contrario dei sistemi economici mercantilistici come il nostro, nel potlatch l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita. È questo che il governo osteggiava. Benché il dono sia un tipo di scambio ampiamente praticato in tutto il pianeta (per esempio noi paghiamo da bere agli amici, o pensa anche ai regali di Natale), il potlatch è l'esempio maggiormente conosciuto di questo fenomeno.»
«Capisco… Era una pratica che dava fastidio al sistema capitalistico nascente. Soprattutto è evidente che donare è molto meno redditizio che vendere…»
È intelligente Adelina. Ha colto il punto principale.
«Brava Deli. È proprio così. Certo, non puoi fare una tesina solo sul pothlatch, ma citarlo e rivelarne tutte le implicazioni, culturali, sociali e economiche ti farà fare bella figura.»
Adelina rimane in silenzio. La vedo di nuovo armeggiare sul telefono, sembra distratta. Invece non lo è.
«Eppure papà, sarebbe bello vivere in una civiltà basata sul dono invece che sul capitalismo. Perché quando si fa un dono, sincero, ci si sente felici.» Mi guarda con occhi interrogativi, ci tiene a sapere come la penso. Spesso i figli testano i genitori.
«Sì sarebbe bello. Meno pratico ma bello.»
«Certo. Non tutti i doni ci piacerebbero o ci sarebbero utili ma forse il dono non è tanto ricevere l’oggetto in sé quanto ricevere il pensiero dell’altro. E la sua felicità.» Non avrei saputo esprimermi con parole migliori delle sue.
«Beh sai, ci sono civiltà che hanno provato a basare la loro economia sul dono. Per esempio a scuola ci insegnano che quando ancora non esisteva il denaro il sistema di scambio utilizzato era quello del baratto. Ma forse non era sempre così. Mi piace pensare che il baratto fosse una pratica meno importante del dono. E potrebbe pure essere, no?»
«Sì forse. Anche se a pensarci bene pure basarsi solo sul dono potrebbe essere asfissiante. Perché poi i doni vanno ricambiati, in un certo senso si crea un obbligo. Forse bisognerebbe continuare a usare il denaro ma donare di più. Anche riciclando. Per esempio, nonna Adelina mi ha regalato una cornice di vetro che non si può guardare. Te la posso dare a te?» E ride.
«Certo! Si capisce quando una cosa viene fatta col cuore…» E rido anch’io. «Allora, per la tua tesina?»
«Ok, mi hai convinto. Resistenza. E citerò il potlatch.»
Fare l’avvocato civilista mi ha fatto scoprire molte meschinità umane. Le cause civili sono terribili, quelle in cui si scatena il peggio dei nostri istinti. Ne ho viste di tutti i colori, da agricoltori che si citavano per una differenza minima di confini, da coniugi che si facevano la guerra per un mobile, da fratelli che finivano per odiarsi per un orologio lasciato in eredità all’uno piuttosto che all’altro. Tutto, o quasi tutto, per la proprietà. Quando ho raggiunto il limite della tollerabilità, ho pensato che stavo sprecando la mia vita. Così mi sono dirottato, gradualmente, verso un ramo del diritto che tutela davvero i più deboli: i minori. Questa è l’unica Rivoluzione che sono stato orgoglioso di aver fatto nel mio privato.
«Sai, le culture tradizionali, specie quelle locali, sono sempre insidiate da quelle dominanti. E non è detto che delle civiltà minori tutto sia lecito. Per esempio» e qui mi sono rifatto alla mia esperienza giuridica «quando a farne le spese sono i bambini. Però schiacciare queste culture ad armi impari è una bella vigliaccata, no?»
«Gli esseri umani sono così» mi fa. E io noto una certa forma di rassegnazione nelle sue parole che alla sua età io non avevo. Forse è solo consapevolezza. «Sai cosa ti dico, papà? Che avere la pancia piena è una bella cosa, ma svuota un po’ la testa.»
La guardo con tenerezza e orgoglio, sono sicuro che la sua non è vuota per nulla.
«Sai, spesso rifletto su tutte le cose che abbiano. Sinceramente sono troppe. Magari per i nonni o anche per voi accumulare era importante. Eravate impegnati a pensare a tutto quello che non avevate. Ed effettivamente vi mancavano tante cose. Ma a un certo punto uno dovrebbe guardarsi allo specchio e capire che riempiendosi le tasche non ci si sente meglio. Anzi, le tasche talvolta diventano voragini che inghiottono tutto e bisogna riempirle sempre di più, sempre di più…»
Certe volte noi adulti siamo sfiduciati sui giovani, ma credo che ci sbagliamo.
«Io invece voglio avere di meno ed essere di più. Non so, potrebbe essere questa la nostra nuova Rivoluzione. Una rivoluzione finalmente pacifica.»
«Sei in gamba Adelina. Ok, la tua idea di Rivoluzione mi piace. Adesso prova a immaginare una tua forma di Resistenza e ad applicarla.»
Aspetto una sua risposta ma lei se ne resta in silenzio.
«Qualunque cosa ti venga in mente Adelina, qualunque cosa che non ti va, devi resisterle.»
Niente, ancora silenzio.
«Beh non ti viene in mente nulla?»
«Oh sì. Sto applicando la mia Resistenza già da tanti anni.»
«E quale sarebbe?»
«Non risponderti quando mi chiami Adelina.»
È una Resistenza piccola, d’accordo. Ma come genitore mi sento più tranquillo.
«Ti voglio bene, Deli.»
«Anche io, papà.»

martedì 26 giugno 2018

Fabrizio​ Burlone - Francesco Rivara, marinaio

Francesco Rivara aveva una faccia di quelle che non si lasciano guardare comodamente, neanche un po’. Non che mordesse, santo cielo, però metteva soggezione. E allora la gente tendeva a girargli al largo, anche più del necessario. Un peccato, perché era una faccia interessante dopo tutto: la crapa pelata, il naso importante, due occhi scuri piccoli piccoli sormontati da sopracciglia appena accennate, un numero infinito di rughe che gli calzavano a pennello. A saper leggere una faccia come qualcuno sostiene di saper leggere una mano, lì c'è n'era per settimane.

Doveva essere sulla sessantina, lustro più, lustro meno, solido ed asciutto come il legno degli ulivi che crescono  da queste parti, a Camogli. Lo vedevo sempre seduto allo stesso caffè, quello appena fuori dal budello, all’inizio della passeggiata. Dentro se era brutto, ma se il tempo era buono, anche solo per i pinguini, lui stava fuori. Non so cosa facesse quando non era lì: so che quando passavo, e passavo piuttosto spesso visto che avevo il laboratorio proprio lì dietro,  lui c'era. Mezzo bicchiere di bianco sul tavolo, e gli occhi a guardare il mare. Com'è e come non è, incominciammo a scambiarci qualche cenno di saluto. Senza impegno, come si fa tra persone civili. E poi una sera, una di quelle sere così belle che non si può tornare a casa presto, una di quelle sere che c’è fuori tutto il mondo e non trovi un posto per sederti neanche a pagarlo oro, mi toccò di domandare ospitalità proprio al suo tavolo. Un sorriso aperto e un cenno della mano accolsero mia la richiesta quasi prima ancora che fosse formulata.
Chiacchierammo per un po' delle solite cose di cui si discorre tra estranei: tempo, partite, le ultime notizie dei giornali... Non particolarmente interessante, ma ogni cosa ha un suo tempo. "Vede quelle luci di navigazione laggiù, dottore? Appena oltre la fila delle lampare?" domando' saltando di palo in frasca all'ora che il locale si stava finalmente svuotando. "Oggi le chiamano carrette del mare, ma è su quelle che ho passato la maggior parte della mia vita..."

Francesco Rivara era nato in uno dei tanti  paesi della pianura che sta alle spalle dell'Appennino, uno di quelli dove il mare non lo vedi nemmeno eppure ne avvertivi la presenza in ogni cosa. Lui, però, a dodici anni il mare l'aveva già visto parecchie volte: i suoi ce lo portavano d'estate, per le vacanze. Giusto qualche giorno, ma aveva persino imparato a nuotare. Come per tanti altri, la faccenda avrebbe potuto finire qui, vacanze e nuotatina, non fosse stato che i suoi erano devoti di San Giorgio lo Stilita. Quello che con il drago non ci aveva avuto niente a che fare, ma aveva passato sessant’anni seduto su di una colonna in contemplazione dei misteri della fede e delle onde che si frangevano sulla scogliera dabbasso.
Per una volta, avevano deciso di portarsi dietro il ragazzo, al santuario. La tentazione di arrampicarsi sulla colonna era stata tanto irresistibile quanto l’azione si era rivelata irrealizzabile: recinzione a parte, il posto era pieno zeppo di fedeli che andavano e che venivano, di gente che pregava, di devoti e di peccatori in cerca di grazie e assoluzioni. Per non dire dei gruppi e delle comitive salite fin lassù  solo per godersi il panorama.
Ma nel giardino c'erano anche degli alberi, nessuno dei quali pareva recintato od assediato. Quando uno dei preti lo scorse, appollaiato su di un ramo come un colombaccio, i suoi lo stavano cercando da quasi un'ora.

"Cosa avevo visto da lassù?”  mi chiese. “Se a questo punto si aspetta un qualche tipo di rivelazione, dottore, mi tocca deluderla. Avevo giusto visto il mare. Solo che, per la prima volta,  lo avevo visto tutto insieme.”

Tornato in pianura, Rivara aveva ripreso la sua vita. Scarsamente dotato per gli studi, suo padre era riuscito a piazzarlo nell'officina del paese, dove tra auto moto e trattori aveva trovato una specie di vocazione. Un giorno poi, ma "un giorno" e' appena un modo di dire, aveva raccolto le sue cose e si e si era diretto verso il mare. Era partito da Genova: mozzo, aiuto motorista, motorista, il suo talento meccanico gli aveva aperto un sacco di strade nelle profondità delle navi. Macchinista, capomacchina, viveva in un mondo buio e sudato dove il fuoco si trasformava in propulsione, dove gli alberi erano fatti di metallo, e di metallo erano anche il cielo, l'orizzonte ed ogni altra cosa. Dove il mare era appena un lampo azzurro intravisto mentre si apriva un boccaporto o si scendeva una scaletta. “Non che ci spendessi molto tempo a pensarci, sa dottore? Avevo troppo da fare. E poi, tutto sommato, era anche una bella vita. Pagare, pagavano bene. E io, in sala macchine, ero qualcuno: ero il "signor" Rivara. Anche il capitano mi chiamava signor Rivara: signor Rivara, abbiamo bisogno di questo, signor Rivara abbiamo bisogno di quello, signor Rivara, come faremmo senza di lei..." Si fermò, inseguendo qualche pensiero. "Sì era una bella vita, dopo tutto. Fino a quando.." si interruppe di nuovo..
"Fino a quando..." gli appoggiai..
"Mi perdoni, sa dottore..  E’ che a volte mi perdo.. Beh, per un motivo od un altro di navi ne ho cambiate parecchie, la gente andava e veniva. I porti, e chi se li ricorda tutti? Però, la sala macchine... quella era casa mia, e quelli che ci lavoravano dentro erano la mia famiglia. Non so quando, come o dove cambiò. Forse non cambiò neppure, era sempre stato così solo che io non lo vedevo.  Si trasportava di tutto. Merci, lecite o meno, mezzi, manufatti, impianti, rifiuti, armi, disperati. Di tutto. E più il lavoro era difficile o sporco, più soldi giravano. E i compagni  diventavano dei rivali,  gli amici estranei, stare in mare giusto un dovere e tornare a terra anche meno. Mi sentivo straniero in acque straniere, e passavo sempre più tempo da solo, sul ponte, a guardare l’orizzonte. Sembra orribile, vero dottore? Ma è solo perché la sto mettendo giù così. Mi capisca dottore: c'erano tante belle giornate, più di quante non riesca ricordarmi, e ho visto cose e conosciuto persone che mi porto ancora dentro. Tutto sommato potrei dire che sono stato un uomo fortunato”
"Buon per lei.." incoraggiai, più che altro per evitare una nuova pausa.
“Però mi sentivo vuoto, vuoto come una di quelle conchiglie che si trovano sulla spiaggia e uno la raccoglie e cerca di immaginarsi chi ci abitava dentro. Ma ormai non c’è più, è solo una conchiglia vuota. Delle navi non me ne fregava più nulla,  di tutti quei “Signor Rivara” nemmeno. E allora mollai tutto e tornai a casa.  Sa, dottore, in effetti non sapevo bene cosa fare. Sono anche andato a San Giorgio, ma era tutto così diverso... La colonna c'era ancora, ed anche qualche albero, ma non mi sono nemmeno arrampicato, lo sapevo già che non avrei visto niente.”
“E allora?” domandai.
“E allora mi sono fermato qui, a pensare.  Non sono molto sveglio, dottore. Però sono fortunato, ricorda? E ho imparato a guardare. Sa quanta gente passa davanti a questo bar? Tanta, anzi: tantissima. Ricchi, poveri, giovani, vecchi, di tutte le razze, di tutti i colori. Li guardi in faccia, se ha tempo, li guardi negli occhi. Sa cosa troverà in quelli che hanno appena visto il mare per la prima volta?
Dovetti ammettere la mia mancanza. “No, a dire il vero”.
“Meraviglia, dottore. Pura meraviglia. Perché il mare, vede, nella nostra testa non ci sta proprio. Quel che si pensa di sapere non conta niente. Il mare, finché non l'hai visto da te, non sai. Tutta quell'acqua, tutta insieme, che non si vede da dove viene e dove finisce, che non si capisce perché si muove e non si ferma mai…. Si rimane a bocca aperta, che se qualcuno non te la chiude mandi giù anche i moscerini. A ripensarci oggi, dottore, dev’essere stato questo quello che avevo visto veramente dalla pianta tanti anni fa: un mondo nuovo.  Perché a quell'età tutto il mondo doveva essere nuovo. Nuovo, meraviglioso ed inspiegabile; e aspettava solo me…  Poi... poi, come le ho detto, mi sono ritrovato a fare altro e non ci ho pensato più. Fino a che non ho visto sulla faccia della gente che guarda il mare che tutto quanto è ancora là. Solo che io non lo vedo più. Sa, dottore, se mi sento vuoto non è perché sono vuoto, ma perché lo sono le cose con cui mi sono riempito la vita. Ora sto imparando a lasciarmele indietro tutte, una per una, e non mi mancheranno neanche un po’. Sono i sogni di qualcun altro, non i miei. Con i soldi che avevo messo da parte ho comperato una barca, se passa al porto la può vedere, si chiama “Lo Stilita”. E adesso sono qui che aspetto la marea..”
“La marea?”
“La marea, il vento, il momento giusto, quel che è, insomma. Ma un giorno o l’altro, ci può scommettere, Lei passerà di qui e io non ci sarò più.”
Avrei dovuto stare zitto, invece mi feci scappare un “Già, un giorno o l’altro”. Fortunatamente la mia invidia non colse il bersaglio, e di questo sono felice.
“Al momento giusto. O quando mi garberà a me, se c’è troppo da aspettare. La mia vita è ancora tutta là fuori, ora lo so. Devo solo andare a viverla.” Rispose tranquillamente Francesco Rivara.
Questa volta solo il vento continuò il discorso. Il racconto era evidentemente finito e per ognuno di noi era tempo di tornare ai propri pensieri. Nel buio, il sartiame di una barca lontana batteva lugubremente contro qualche cosa, l’albero probabilmente, e mi metteva i brividi. Mi alzai per congedarmi e, chissà perché, mi sembrò il caso di fare una precisazione.
“Una cosa, ancora.”
“Dica, dica pure…”
“Io non sono un “dottore”. Non lo sono mai stato, e neanche ci sono mai andato vicino.”
“Ah, non importa, dottore. Se è per questo, io non ho mai fatto il marinaio.”

Clara Tacchi - Quello che conta

(racconto breve in ricordo di un uomo perbene)

Era una gelida giornata di dicembre.
Sembra l’inizio di un  commovente racconto di Dickens, lo so, ma la storia che sto per raccontare non se ne discosta poi tanto.
Era una gelida giornata di dicembre, dicevo, quando mio padre salì su un treno per Milano, diretto all’abitazione di un uomo, un poveruomo, che da tempo gli doveva dei soldi.
A questo gesto era stato costretto da mia madre, e solo a distanza di molti anni, troppi, riesco a comprendere le sue ragioni, e a perdonarla. Allora lo vissi solamente come una costrizione, una violenza nei confronti di mio padre.
 Anche lui, agli occhi delle persone o meglio della cosiddetta “buona società”, poteva apparire come un poveruomo, un perdente. Unico figlio di una famiglia benestante, aveva ereditato da suo padre una piccola fabbrica che lavorava il ferro, come tanti in quegli anni, nella cittadina in cui vivevamo.
Ma tutto era andato storto. Dopo alcuni anni la fabbrica era fallita, in seguito ad alcune scelte avventate dovute, credo, al carattere ingenuo e ottimista di mio padre, che non aveva certo l’indole dell’imprenditore senza scrupoli.
Ricordo ancora, con pena, un giorno di quel triste periodo, in cui tutto sembrava andare in rovina, nella nostra famiglia. Lui era seduto di fronte a me a tavola, ed eravamo soli. Non so dove fossero mia madre e le mie sorelle. Non c’erano, anche perché in quel momento non era facile stare insieme. Senza neppure guardarmi, senza alzare gli occhi dal piatto disse con amarezza: “Quando morirò, la gente dirà: E’ morto un cretino”. Inutili, o forse no, le mie parole di protesta, le mie assicurazioni che no, non era vero, che per noi figlie lui era sempre stato un uomo da ammirare, un padre meraviglioso sempre pronto ad ascoltarci, a consolarci per le nostre piccole o grandi delusioni.
Il suo fallimento aveva ovviamente trascinato la famiglia in una situazione difficile, che non eravamo preparati ad affrontare. Si viveva solo con lo stipendio da insegnante di mia madre, ma quei soldi non bastavano per vivere, e per pagare tutti i debiti che lui aveva contratto e che voleva ripagare.
Partì dunque per Milano, quel giorno, con l’animo prostrato dai sensi di colpa verso la sua famiglia ma anche verso quell’uomo a cui avrebbe chiesto dei soldi, e che sapeva trovarsi in grande difficoltà. La sua situazione era, con ogni probabilità, ancora pù grave della nostra.
Tornò tardi, con un treno della sera. Tra le mani teneva una scatola di fazzoletti da uomo, bianchi.  Mia madre lo apostrofò subito – era ancora sulla soglia –chiedendogli ragione dei soldi che avrebbe dovuto riscuotere.
Ricordo ancora la sua espressione, avvilita e stanca, quando le rispose, quasi balbettando, che no, quei soldi non li aveva. Era entrato nella casa di quell’uomo, in quel gelido pomeriggio di dicembre, e aveva visto lo squallore, la miseria: nelle stanze semibuie i mobili non c’erano più, se li era portati via un ufficiale giudiziario, e quell’uomo non aveva più nulla, neanche i soldi per comprarsi da mangiare.
Mio padre non aveva avuto il coraggio di chiedergli nulla e l’altro, forse illudendosi di saldare in qualche modo il suo debito, gli aveva dato quella scatola di fazzoletti, che vendeva come rappresentante prima del suo crollo.
Non voglio ricordare la lite violenta che ne scaturì, con mia madre che urlava contro di lui una sequela di insulti e di parole di disprezzo. Preferisco dimenticare, perché fa ancora troppo male.
Una cosa, però, la ricordo con chiarezza, come se fosse accaduta ieri. Mentre con le mie sorelle assistevo a quella scena, in preda ad una rabbia impotente, ad un tratto sentii affiorare nella mia mente i primi versi di una poesia di Camillo Sbarbaro, versi che avevo sempre amato:
“PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI MIO PADRE / SE ANCHE FOSSI A ME UN ESTRANEO / PER  TE  STESSO  EGUALMENTE  TI  AMEREI”.
Così era allora e così è anche adesso, a distanza di 34 anni dalla sua morte.


Per alcune persone della mia famiglia, scrivere ha spesso rappresentato un modo per superare momenti difficili. A loro dedico questo racconto, e la mia gratitudine per aver sempre condiviso con me questa esperienza 

Vilma Buttolo - Ernesto

Come ogni sera avevamo parcheggiato la nostra Panda lungo quel murales a disegni geometrici, “spartiacque tra due mondi, simili ma non uguali” così dice Lorella. A lei piace tanto. Che ci troverà di speciale non so. E’ solo un muro ai bordi di una vecchia piazza e una via, un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra. Forse lei pensa al nuovo che avanza, la scuola Holden, la mongolfiera contro il resistere della via, cuore del Balon.
Eravamo scesi dall’auto e ci eravamo avviati verso casa. Io avevo già camminato tanto e desideravo mettermi tranquillo, disteso  sopra al divano.  Lorella però non sembrava  convinta che la giornata fosse finita e continuava a temporeggiare. Prima si era  fermata davanti alla vetrina del rigattiere. No, non quello vicino al ristorante cinese, da cui escono alcuni profumini, quello con la proprietaria simpatica che tutte le volte mi fa un sacco di complimenti. No. L’altro. Quello vicino al portone di casa nostra. Viviamo lì. Noi due da soli da quasi cinque anni.
- Che peccato Ernesto che non ti piacciano le bambole. Queste due – aveva detto indicando la vetrina – sono davvero uno splendore!
Lorella è così. Ama le cose vecchie, un po’, come dire “vintage”, se vogliamo anche  un po’ strane. A volte la gente per strada si gira a guardarla. Io all’inizio, folle di lei, pensavo: “ perché  è bella”. In realtà mi sono accorto, con il tempo, che non sono sguardi di apprezzamento. Sorridono o scuotono la testa come per dire: “ Quella lì non è tutta a posto”. A me però non interessa. Nei suoi abiti fuori tempo, con i suoi cappelli strani mi piace. Adesso come allora quando l’ho vista per la prima volta. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo piaciuti subito. Il suo primo abbraccio non lo scorderò mai.
Davanti a quella vetrina non so quale susseguirsi di pensieri aveva fatto ma di botto aveva esclamato :
- Oddio ho finito le sigarette!
Non è che sia un salutista, figuriamoci con tutte le schifezze che mangio, però questa storia delle sigarette mi ha un po’ stufato. Ecco quando fuma in casa è uno di quei pochissimi momenti che mi fa arrabbiare.  Devo allontanarmi, magari anche trovare un posticino in cui rifugiarmi.  Però sopporto. Che altro potrei fare.
In quel preciso istante, alla parola “sigarette” avevo capito che avrei dovuto attendere ancora un po’ prima di rientrare e soprattutto avrei dovuto seguirla su, su per quella via un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra.
- Ernesto dobbiamo andare dal tabaccaio. Dai tesoro, facciamo in un attimo.
Non ho potuto neppure accennare un disappunto che con passo da alpino Lorella si è  avviata lungo la via che porta al tabaccaio. Mentre io cercavo di starle dietro, o quanto meno a fianco, sentivo il rumore dei suoi stivali sui ciottoli scivolosi. Dicono sia una stradina caratteristica per i suoi negozi d’antiquariato, per i suoi locali artistici e accoglienti, per le foto appese ai balconi come lenzuola, per il via vai di compratori e venditori della seconda domenica del mese. Chi ci passa ogni tanto ne vede solo le bellezze. A me invece,  non è mai piaciuta. Tra un ciottolo e l’altro si rischia di inciampare.  Farsi male è un attimo. E’ per questo che Lorella cammina sempre  dove il terreno è meno dissestato, lì al centro, sui lastroni più grandi. Il primo pezzo di via Borgo Dora era fatto, dovevamo solo  attraversare la piazza. Libera dalle bancarelle sembrava anche più grande. L’insegna del tabaccaio era là, luminosa in mezzo a tutte quelle altre luci di lampioni e finestre dell’ora di cena. In quel momento della giornata schiamazzi e folla sono altrove. Anche se qualche bar è ancora popolato di suoni, questi  sembrano attutiti dal buio. C’è un silenzio strano, che sai non appartenere a quel luogo ma che proprio per questo incanta. E anche quella sera avevo rallentato per godermi quel mondo diverso da quello incontrato nelle mie passeggiate diurne. La voce di Lorella però, mi aveva spronato ad accelerare.
- Dai Ernesto veloce, che è ancora aperto. Così non devo lottare con quello stupido distributore automatico.
Dovevamo allungare il passo perché Lorella diffida di qualunque  tecnologia.  Già la parola automatico la inquieta, per non parlare di virtuale. E’ una donna di altri tempi a cui piace scrivere con carta e penna, confrontarsi per qualunque cosa con un altro umano piuttosto che con un video, un display. E quella sera con un distributore automatico.
Quasi all’angolo con la piazza dietro di noi un colpo di tosse, un raschiar di gola seguito da un rumore chiaro e distinto di qualcosa di umido che cade a terra. Un uomo nero, alto e grosso procedeva nel nostro senso e prima di superarci aveva deciso di liberare i suoi bronchi. A quel comportamento, sicuramente poco piacevole, Lorella aveva avuto una reazione di disgusto un po’ eccessiva. Di scatto si era scostata al centro della strada con un balzo improvviso ed era finita in una buca cadendo miseramente a terra. L’uomo invece aveva proseguito per la sua strada non rendendosi conto di nulla.
- Porca vacca Ernesto! Mi sono rotta anche il collant! – aveva esclamato a bassa voce. Lorella non alza mai i toni.  In tutti questi anni di vita insieme, credo  di non averla mai vista arrabbiata.
Nessuno dei ragazzi appollaiati sulle sedie del dehor di fronte si era preoccupato di venirla ad aiutare. Non so se perché mi avevano visto o perché in realtà erano ragazzi”insensibili” come dice spesso Lorella parlando dei giovani maschi. Invece erano accorsi tre uomini stranieri, quelli che quando parlano aspirano continuamente le lettere. “Per non lasciale libere di andare” sostiene Lorella.
- Signora si è fatta male? Se vuole possiamo portarla in ospedale? – Le ha domandato uno, in un italiano chiarissimo, mentre l’aiutava a sollevarsi. Un altro le ha raccolto il  cappello che le era caduto e glielo ha restituito insieme ad un sorriso sghembo. Solo il terzo stava fermo lì a guardarmi  con un certo timore. Figuriamoci! Io sono così tranquillo.
- No grazie, non mi sono fatta nulla – aveva poi detto incerta Lorella. Aveva sorriso e, cercando il mio sguardo, con il buco nei collant aveva proseguito a passo svelto verso quella luce azzurrognola all’angolo della piazza.
La tabaccheria, nel frattempo aveva già chiuso e nonostante dentro ci fosse ancora il proprietario, Lorella non era riuscita a farsi aprire.
- Usi il distributore automatico – le aveva gridato l’uomo che era all’interno.
- Accidenti Ernesto dovrò usare questo – mi aveva detto indicando il distributore  di fronte a noi e subito dopo immergendosi nella sua grande borsa  per tirarne fuori la  banconota giusta. L’avevo vista sudare nella ricerca delle sigarette preferite e poi della fessura in cui inserire il denaro. Sembrava una bambina. Ogni tanto si girava indietro, verso i locali dove ci fermavamo per un caffè o un aperitivo. Chiusi. Dietro di noi solo un uomo in attesa del suo turno.
- Posso aiutarla?  - Le aveva detto ad un certo punto. A guardarlo bene mi era sembrato anche lui un po’ stranino con quei capelli grigio topo, così spettinati. E anche i suoi vestiti consumati non gli donavano un bell’aspetto. Ma Lorella lo aveva guardato, senza timori e poi sorridendogli gli aveva dato la banconota da 5 euro. Anche lui aveva sorriso, prendendo il denaro. Ad ogni passaggio del distributore automatico si erano scambiati sguardi e sorrisi. Fino all’arrivo del pacchetto di sigarette che, nella fretta, avevano raccolto entrambi trovandosi così mano nella mano. A quel punto il fastidio provato fino in quel momento era arrivato al limite. Intruffolandomi tra loro, ero finalmente riuscito ad attirare l’attenzione su di me.
Solo allora Lorella mi aveva preso in braccio e lo sconosciuto mi aveva squadrato, capendo subito chi fossi.
- Questo sì che è un cane che mi piacerebbe avere! Un bel bassotto a pelo duro.
Che tipo questo qui. Speriamo rimanga.

venerdì 22 giugno 2018

Francesca Protti - Quello che non ho... sono le prove!

“Quello che non ho sono le prove!”
Ci sarebbe stato bene un pugno sul tavolo, o un …merda!, ma non erano cose per l’Ispettore. Troppo posato, troppo composto, troppo rispettoso delle regole, soprattutto di quelle che si dava da solo.
“Vado a fare un giro. Sai mai che l’aria fresca mi faccia venire qualche idea…”

Un caso come tanti. Una persona anziana, una badante straniera, un compatriota poco raccomandabile disposto a tutto pur di racimolare qualche euro. Una delle numerose storie che riempivano le pagine di cronaca e appesantivano il lavoro delle forze dell’ordine. Eppure il trasporto di quella giovane slava gli era sembrato genuino, il pianto sincero. Più del solito, almeno.
Non c’erano segni di scasso. L’assassino, quindi era stato fatto entrare. O aveva le chiavi, che la badante poteva aver sottratto a signora.
La ragazza, però, giurava che le cose non erano andate così. Gli aveva persino mostrato dove signora teneva i soldi della pensione appena ritirata. C’erano tutti. Controlli!, aveva gridato. Il giorno in cui signora era morta, figlia di signora le aveva tenuto compagnia per qualche ora. No sempre faceva così. Lo ripeteva in continuazione. Figlia di signora, figlia di signora, figlia di signora, figlia di signora… E che era andata a trovarla. Come se una figlia non andasse a trovare la madre. Non era detto che chi affidava i genitori a badanti straniere lo faceva per lavarsene semplicemente le mani. Magari era vero il contrario. Avevano solo bisogno di un aiuto proprio perché agli autori dei loro giorni ci tenevano.
L’ispettore aveva fatto cercare l’erede, anche solo per darle la notizia. Era in vacanza e avrebbe ripreso il lavoro di lì a due giorni. Se era via, non poteva aver fatto visita alla madre. Chi ti assicura che fosse davvero via? Era meglio far controllare. Al momento, però, tutto era contro la badante.
Se anche la pensione risultava intatta, potevano aver rubato altro. Il luogo del delitto gli ricordava la casa di una sua prozia, piena di cianfrusaglie buone solo a far polvere e disordine. In quel marasma chissà cosa poteva mancare, forse in casa c’erano altri soldi di cui nessuno sapeva. Ricordava, su di un tavolinetto, una scatola di latta arrugginita, il cui contenuto era sparpagliato tutto intorno.
La ragazza, rassettando casa, poteva aver scoperto un piccolo tesoro e averne parlato a qualche amica incontrata nelle ore di libertà. Una collana di perle? Magari con orecchini e bracciale coordinati. Un dono d’anniversario? O i gioielli per le nozze che si tramandavano di madre in figlia.
Se aveva una figlia,  perché erano in casa della defunta? Forse non si era mai sposata. La madre non se ne era voluta separare e la badante aveva finito con il trovarli. Poi la voce poteva essersi sparsa e qualche mascalzone aveva convinto la ragazza a lasciarlo entrare in casa per prendere un po’ di quel denaro. Signora di sicuro non si sarebbe accorta di nulla. Signora era troppo vecchia per indossarle. Loro, invece, erano giovani. Potevano rivenderle e farci dei bei soldi.
Il caso si presentava già risolto. Qualcosa nell’animo dell’ispettore, però, non era soddisfatto di quella risposta. Le mani curate e il viso pulito di quella giovane donna l’accusavano di fare di ogni erba un fascio. Non sono tutte ladre e approfittatrici. Così almeno gli piaceva pensare.
“Accidenti!”
Tirò un calcio a un sasso lungo la strada che andò a sbattere contro un paraurti. Il suono metallico gli diede una scossa. Decise di concedersi 48 ore di navigazione a vista; se non fosse approdato a nulla, avrebbe archiviato il caso, consegnando alla giustizia la colpevole al momento più probabile. Non gli andava, però, non gli andava per niente quel modo di lavorare approssimativo.
“Uffa!”

Scelse di tornare nell’appartamento e considerare meglio quella scatola di latta. Perché lasciarla lì, se si era sottratto il suo contenuto più prezioso? Perché non rimettere tutto a posto evitando di destare sospetti? Perché i ladri sono esseri umani. E gli esseri umani spesso non ragionano, soprattutto quando vanno di fretta. “Questi non sono ladri di professione, che calcolano ogni minimo dettaglio. Ogni minima eventualità. Questi fanno del carpe diem il proprio motto…” Gli pareva improbabile che dei ladruncoli conoscessero Orazio, ma tant’era.
L’odore di vecchio e canfora si mischiava a quello dei preparati chimici dei tecnici della scientifica, urtando il suo olfatto molto sensibile. Aprì le finestre e si mise al tavolino su cui ancora c’era la scatola. Tenne il giaccone per proteggersi dal freddo. Un ricciolo rosso tiziano, vecchie lettere, qualche foto, un certificato di nascita e altre carte ricoprivano il piano del tavolo, mentre dentro la scatola rimanevano vecchie bolle dell’affitto, un ventaglio e un paio di occhiali da uomo. Nulla gli assicurava che quella latta avesse custodito qualcosa di maggior valore. Era molto più probabile, invece, che l’anziana donnina avesse trascorso qualche ora in balia dei ricordi, dimenticandosi, poi, di riporre di nuovo tutto nella scatola. Oppure un tramestio, dei passi nella stanza potevano averla attirata in camera da letto e l’intruso poteva aver messo troppo impegno nel soffocarne le grida.
Il ragionamento filava, ma l’ostinazione con cui la badante aveva parlato della visita di figlia di signora non lo lasciava tranquillo. Qualcosa sfuggiva al quadro generale. Tutto era troppo semplice, dov’era la fregatura? La cercò nei mucchi di foglie secche lungo il fiume, ma senza successo. Il cercapersone vibrò, era il commissariato. La figlia della defunta era stata rintracciata e stava arrivando. Era meglio se tornava in ufficio.

La donna non doveva essere tanto più giovane di lui, eppure gli ricordava sua madre. Quel tailleur a longuette dal taglio fuori moda, per non parlare del colore. Il cappellino con la veletta strappata, le scarpe con il tacco a rocchetto, quegli strani guanti.
“Che rapporti c’erano tra sua madre e la badante?”
“Semplicemente mia madre non voleva più star sola e io non potevo tornare a vivere con lei. Katia è stata la soluzione migliore, si occupava della casa e della spesa, vegliava sua mia madre.”
“Capisco. Ciò che vorrei sapere, però, è se sua madre si fidava della ragazza o se, invece, la temeva. Le aveva fatto qualche confidenza in merito?”
“Mia madre ed io non ci siamo mai scambiate segreti. Percepivo però che la faceva sentire tranquilla. E questo bastava.”
“Quando ha visto per l’ultima volta sua madre?”
“Domenica, dopo la messa. Ero passata a sincerarmi che Katia, quel giorno in libera uscita, avesse lasciato tutto in ordine, che mia madre non necessitasse di nulla.”
Strano, non pronunciava mai la parola mamma.
“La ragazza, però, sostiene che lei è stata a casa di sua madre il giorno che …” preferì non finire la frase.
“Si sbaglia.”
L’ispettore non se ne stupì. La soluzione era lì davanti a lui, per quanto scontata fosse. Fu solo per curiosità che interrogò ancora la donna.
“Sa dirmi chi è Anita?” Il certificato di nascita ritrovato nella latta riportava quel nome e una data del 1973.
“Mia sorella, credo.”
L’ispettore non riuscì a trattenere la sorpresa.
“Non sono certa che fosse anche figlia di mio padre.”
Tra i documenti ingialliti c’erano anche gli atti relativi a un’adozione, decisioni di famiglia che esulavano dal caso.
“Non ho avuto scelta, capisce?” La donna parlava con lo sguardo rivolto al vuoto.

La polvere del tempo le aggrediva le mani, sentiva la pelle seccarsi. Non se ne curò e continuò a svuotare quella vetusta scatola di latta, le notizie che rivelava avevano un effetto magnetico.
Si guardò i polpastrelli ormai neri. Poi se stessa allo specchio, trovandosi vecchia e stanca.
C’era una sola cosa da fare.
Sua madre dormiva. Si sedette ai suoi piedi, un cuscino di piume tra le braccia. La guardò a lungo, poi prese la sua decisione.
Si alzò e lasciò cadere il guanciale, sistemandolo bene.

“Perché ha dovuto darla via? Perché mi ha privato di tale fortuna? Quando ho trovato la scatola, l’altro giorno, il suo contenuto mi ha aperto gli occhi. E ho ricordato. Gli estranei che vennero in casa a prenderla, a liberarla da quella prigionia prim’ancora che l’aggredisse. Una ricca signora voleva tanto una bambina e accettò subito di adottarla. Ricordo che abitavano davanti a noi, dall’altra parte della strada, la vedevo giocare con i suoi fratellastri – ora so che non erano uniti da alcun legame di sangue – crescere nell’agio e nell’amore. Essere felice, capisce. Era felice. All’epoca non sapevo chi fosse, ho compreso in pieno solo adesso. Lei probabilmente non saprà nulla. Le avranno taciuto la verità. Era poco più che neonata quando venne portata via. Io invece no. Io ero grande. Perché io non avevo avuto altrettanta fortuna? Perché non aveva dato anche me in adozione. Non mi voleva, non mi ha mai voluta. Lo sentivo. Si crede che solo le madri sentano certe cose, ma il cordone ombelicale è a doppio senso. Anche le figlie sentono cose non percepibili dai sensi. Non mi voleva eppure mi ha tenuto e condannato a una vita di stenti e rinunce. Forse per farmi pagare qualche colpa. Non mia, però. Appena tutto ciò mi si è fatto chiaro, ho dovuto punirla per quello che mi aveva fatto. Il cuscino era lì, ai suoi piedi. È stato facile.”
Tacque. Gli occhi sempre fissi su volti che solo lei vedeva.
L’Ispettore si protese lentamente verso di lei.
“Come ha detto?”
“Io non ho parlato.” Ribatté la donna guardandolo dritto in faccia. Ma non era la stessa persona. In quel corpo c’erano due anime che lo shock della presa di coscienza aveva irrimediabilmente separato. I ricordi, nella loro crudele chiarezza, avevano scatenato la reazione più estrema. La badante aveva ragione, la figlia giocava un ruolo centrale, era lei l’assassina. Lui, però, aveva le mani legate, non c’era alcuna prova a sostegno di quella tesi. La donna non avrebbe mai ripetuto tutto quanto in presenza di testimoni, una parte di lei nemmeno sapeva ciò che l’altra aveva fatto.
Non aveva dubbi che la verità fosse quella. Il suo animo si era rasserenato, come quando tutti i pezzi del puzzle si trovano al loro posto. La frustrazione per l’impossibilità di assicurare alla giustizia la vera colpevole, però, gli seccò la gola.
Se anche avesse persuaso il GIP, questi avrebbe preteso delle prove. “Non le fabbrichiamo, Ispettore, le cerchiamo e le troviamo. Se non saltano fuori, vuol dire che non ci sono. E le nostre teorie, per quanto belle e convincenti, rimangono ciò che sono. Teorie. E con le teorie in tribunale non si va!”
Non c’era modo di provare nulla. Era la parola della badante contro figlia di signora. E alla prima non avrebbe creduto nessuno. L’Ispettore sì perché gliel’aveva confessato figlia di signora. Ma figlia di signora non avrebbe mai ripetuto quello che gli aveva detto per il semplice fatto che una parte di lei non ne era consapevole.
Non aveva la benché minima prova.
Bisognava che la badante avesse un alibi. Così la storia si sarebbe un po’ aggiustata. Letaqqen ha’olam. Aggiustare il Mondo, ovvero renderlo più giusto.
L’aveva letto in un libro. Gli era piaciuta e l’aveva eletta a proprio motto. Era il suo mestiere, quello. Aggiustare il mondo era quello che faceva. Anche quando le prove non le aveva. Almeno ci provava.