mercoledì 30 maggio 2018

Francesca Benzo Dellepiane - Niente

Se non hai niente
non puoi perdere niente.
Se non hai niente
non ti possono rubare niente.

Se hai niente,
puoi perdere niente.
Se hai niente
ti possono rubare niente.

Francesca Benzo Dellepiane - Nemmeno te

Tu sei troppo.
Tu sei tutto.
Tutto ciò che voglio,
e che potrò volere.
Non ti avrò mai.
Non posso averti.
Perché se ti avessi io avrei tuuo,
e avendo tutto non vorrei più niente…

…. Nemmeno te

Stefania Paganelli - Parti ragazzo!

Dopo l’afa di oggi, la brezza leggera che spira dal mare è una benedizione.
Siamo rimasti solo noi due sulla spiaggia. Ce ne stiamo seduti sul molo con le gambe a penzoloni nell’acqua senza dire una parola; solo lo sciabordio delle onde e il suono lontano di una radio rompono il silenzio.
Sta per partire questo mio nipote, se ne andrà in giro per il mondo a vivere la sua vita. Così fanno i giovani d’oggi: vanno per il mondo. Ai nostri tempi ce ne andavamo in fondo alla via, nel paese accanto ad andar bene. Gliel’ho ripetuta già un milione di volte ‘sta storia, non lo farò adesso, negli ultimi momenti che passeremo insieme da soli.
«Stavo pensando…» da che ha due anni mio nipote inizia sempre così le sue frasi. «Stavo pensando che tu hai qualcosa che io non ho e che mi farebbe comodo avere in questo momento.»
«Cos’avrò mai che ti può servire! Qualsiasi cosa te le do volentieri» rispondo io, senza riuscire ad immaginare cosa possa mai avere di utile ad un ventenne.
«Le tue rughe, nonno.»
«Le mie rughe?» Chi non lo conosce può rimanere spiazzato dalle sue uscite e dal suo contorto e ramificato pensiero, a volte tortuoso, quasi sempre logico. Io no, ho smesso da un pezzo di stupirmi o per lo meno mi succede raramente.
«Le tue rughe, i tuoi capelli grigi, sembri così sereno alla tua età, un po’ tipo la quiete dopo la tempesta. Vorrei un po’ della sapienza dei tuoi anni.»
«Ragazzo, quel che non ho più io, ma che vorrei avere ancora, è il tuo passo da gazzella, l’argento vivo addosso e l’impazienza dei tuoi giorni.»
«Quello che mi manca è una linea già tracciata che sappia indicarmi la via maestra e una pista da seguire per non perdermi nel nulla. Quello che non ho sono ali forti per volare e piedi saldi per ancorarmi a terra» mi risponde lui.
Mi mancherà questo ragazzo e questo modo tutto nostro di parlarci, un po’ scherzoso, un po’ poetico. Un gioco tra noi, un abitudine, una mania forse, per vincere l’imbarazzo e riuscire a dirci le cose importanti della vita.
«Sono certo che con te porterai un paio di occhi nuovi da sgranare, una coscienza onesta da custodire e la chiave giusta per il cassetto dei tuoi sogni.»
«Quello che lascio già conosco, quel che cerco non lo so, quel che perdo piangerò, quel che trovo amerò» aggiunge lui.
Per un attimo fugace mi ritrovo quasi a desiderare di essere al suo posto, posso sentire vibrare la sua impazienza, il fremito per quel che sarà di qui a poco.
«Quel che non ho più è un infinito domani, quel che mi è rimasto è un lungo ieri» dico, forse con un velo di malinconia di troppo.
«Nonno» riprende lui dopo un attimo di silenzio «nei miei ricordi avrò le tue bolle di sapone da guardar volare con il naso all’insù, le tue stecche di cioccolato per ritrovare il mio sorriso e i tanti racconti sulle tue ginocchia.»
Già, sulle ginocchia! Pareva ieri che, appollaiato sulle mie ginocchia, ascoltava i racconti di un povero vecchio. «E poi? E poi?» ripeteva infinite volte.
E poi eccolo qui, un uomo ormai, cresciuto più veloce di quanto mi aspettassi. Adesso starò io in attesa di ascoltare i suoi racconti.
«Quel che posso darti ora è il mio sorriso, la mia pacca sulle spalle e un porto sicuro a cui tornare, se lo vorrai.»
Non so resistere al desiderio di dire ancora qualcosa che lo accompagni là dove andrà.
«Quel che devi avere è una bocca accorta nel parlare e orecchie pronte ad ascoltare e la forza di cambiare le tue idee per cercarne sempre nuove. Ragazzo mio, tieni sempre a portata di mano un pizzico di ironia, una manciata di follia e tanta allegria...»
Il sole scompare dietro la collina e cala, a poco a poco, il buio. È ora di rientrare forse, ma spero lui non abbia troppa fretta di farlo.
Sento la sua mano coprire la mia appoggiata sul cemento. Rimango immobile senza neanche respirare. Vorrei che il tempo si fermasse per sempre, o almeno fin a che io non fossi pronto a lasciarlo andare, pronto a vederlo partire.
Lui guarda dritto davanti a sé con un sorriso appena accennato sulle labbra e un luccichio negli occhi che posso scorgere nonostante il buio.
Poi si volta e mi guarda. Per la prima volta non sono in grado di leggere tra i suoi pensieri, scorgo solo una lacrima scivolare lenta sulla sua guancia e fermarsi a metà come se non riuscisse a lasciare quella che fino ad ora è stata casa sua.
Allungo la mia mano e sfioro il suo viso per raccogliere quella lacrima, poi la guardo inumidire le mie dita.
Allungo di nuovo la mano verso di lui per quella che deve essere una carezza d’addio.
«Andiamo, è ora adesso. Parti ragazzo, vai e non tornare, è giusto così.»

Alberto Salvalaio - Al solo pensiero

Questa mente che non sa far altro che far sogni
è ridotta a disastri quotidiani,
celebrando sgargianti vuote citazioni e vanità avariata,
vecchi film e armadi aperti.

Avanzi di me si trascinano verso la lavatrice.
Mi specchio.
Mi cadono le braccia, e poi le spalle
e i denti.
La faccia stanca, la pancia gonfia.
Sconto le mie pene in casa,
insieme a tanti inutili interi e così poche metà.
Da starci male al solo pensiero.

Esplodono i ricordi strizzando gli occhi e il petto.
Mi hai dato la vita e la passione
sono tuo figlio,
tuo fratello,
sono il tuo amante,
sono il paziente.
E devo vederti
Vederti bene
Vederti in faccia
E poi scordarla.
Da starci male al solo pensiero.

Forse vaneggerò su quelle anime belle.
A ciò che immagino di loro in me.
Arraffandolo per la Rivoluzione che ritarda,
che si muove al buio.

Credo in chi ha provato la noia.
In chi ha aspettato che un minuto finisse.

Alberto Salvalaio - Io sono il tuo specchio (stagioni)

L’estate ci tormenterà di più,
come un’esistenza che non bada più a stessa.
La vita la misuro in settimane.
Rimango il tuo riflesso.
Tu rifletti il tuo passato.

Puoi potare i rami più grossi fino a far tremare le radici.
E rincorrere pietose strategie, come un patto tra diseguali.
Sembreranno solo abitudini (per rallentare il tempo) o
altri metodi di tormento.
Finché morte non mi separi dal pensiero di te.

La primavera è feroce.
Può vincere (l’inverno) tutte le battaglie di marzo,
ma il suo destino è stabilito.
Anche arrendersi è un diritto.

E quel ghigno uguale per chiunque,
le bestemmie ostentate, l’abbaiare dei cani, il tuo passo veloce.
Sono morto di sospetti e di conferme su strade a curve sopra il mare.
Lacrime come preghiere. Pigre ferite.
E non mi ricordavo di che colore fossero i tuoi occhi.
E non sprecavo tempo a fotografarti.

Se solo il mondo si sistemasse, in qualche modo, che accontenti proprio tutti.
Anche i vecchi nemici.

Maria Francesca Giovelli - Senza benzina

C’era poca benzina nei motorini
per arrivare alla piazza del paese,
negli occhi, gli sguardi ancora bambini
là dove le anime si sono accese.

L’estate toccava i pensieri col vento
sui gradini chiari della chiesa
abbiamo colto il senso del tempo
in quella stagione che ora si è arresa.

Ma quel senso ha solcato la vita
come agosto segnava la sera,
correva il tempo come una sfida
e nel cuore è rimasta quella bufera.

Correvano piano quei motorini,
e ancora la meta deve arrivare;
la strada ha segnato tanti destini,
la vita si svela nel suo camminare.

venerdì 25 maggio 2018

Marco Mastromauro - Sbarre

Qualcuno più distante da noi
non ha più tempo né parole,
non ha nulla:
le ascelle gonfie e dolenti,
lo sguardo sospeso
che in attesa rimane.

Ci sono guardie che sorvegliano
gli angoli nascosti
affinché non sfugga al verdetto
chi ancora sconosciuto
non mostra un abito pulito
non possiede una fissa dimora.

Questo continente si veste da monastero
con le sue città ordinate dalle settimane,
trasparenti fino alle scuole,
alle fabbriche… nella moltitudine.

Addossati ai muri più alti
siamo qui in molti al cospetto del futuro
dietro gli usci sottili, le tendine
e i respiri.

Siamo qui, corriamo forte
verso una stazione di cieli assoluti
ma lì i treni sono stati tutti demoliti
dalla lunga notte di sonno
che si conquista ogni giorno.

lunedì 21 maggio 2018

Antonio Giordano - Chantal

Mai come adesso sento la mancanza di Chantal. Posso solo sognarla e l’ho sognata stanotte. Quand’ero più giovane mi succedeva di sognare cose completamente diverse da quelle che mi erano successe il giorno prima. Ma, da qualche tempo, la notte allarga i pensieri del giorno, dando loro una dimensione che li conferma poi nella sensazione o nel ricordo.
Mentre aspetto che arrivi il mio turno e mi facciano entrare ripenso ancora a Chantal.La donna in camice bianco è bruna e ha forme piene. Mi guarda un po’ seccata.
Chantal non era né bruna né piena, eppure l’ho amata lo stesso.
Stanotte mi portava a un concerto. Sonavano la terza di Schumann, la “Renana”.  Mentre la musica ci fasciava, mi baciava e mi accarezzava i capelli. Scendevamo per una scala ed eravamo a mare felici.
Dopo tanti anni ho rivisto Chantal in sogno, liberamente, e ci siamo amati. Allora non si è spento in me quell'amore per lei che credevo che il tempo avesse diluito e disperso. Me ne è rimasta una componente, una scintilla, se si vuole, che nella libertà del sogno mi ha procurato l’ebbrezza di amare.
Comincio a pensare che non sono gli esseri che abbiamo amato che restano in noi ma è l’amore che assume poi le forme e le esistenze di questi esseri. Fin tanto che sarò capace di amare avrò dentro Chantal, forma di questo sentimento che, altrimenti, resterebbe un’esigenza vaga e indefinita.
Il castello sorgeva a strapiombo sul mare a testimoniare assalti moreschi, vigili e febbrili difese contro gli invasori. Ora, vecchio e malandato, era stato adibito a ostello della gioventù.
Nel mio giro estivo, reduce degli esami di maturità ero ritornato là dov’ero stato anche l’estate precedente rimanendone incantato. Prima v’ero stato con amici, adesso vi ritornavo da solo, ansioso forse di non essere legato a programmi concordati, di essere indipendente da altrui volontà.
Lerici, con i suoi vialetti verdi lambiti dal mare, con le sue barche e il suo sole. Avevo diciotto anni e mi sentivo libero come una farfalla uscita dalla crisalide.
Mady, la “mamma albergatrice”, era una vecchia grinzosa, magra, simpatica e misteriosissima. Si era riservata un appartamentino nella parte più alta del castello dove abitava in mezzo a trofei, strani tamburi e chitarroni, credo africani o sudamericani, e ai ricordi che i ragazzi ch’erano passati di là le inviavano continuamente.
“Da dove vieni?”, mi chiese rimestando nella pentola dove cuoceva il minestrone.
“Dalla Sicilia”, risposi piuttosto intimidito .
Mi guardò, smise di rimescolare e si piantò con le mani nei fianchi, reggendo il mestolo.
“Ce l’hai la ragazza?”.
Mi vergognai.
“Veramente no”.
Mi scrutò severa con la sua faccia di cartapesta.
“Dimmi, Turiddu, vorresti averla?”.
Deglutii.
“Beh, certo”.
“Un siciliano senza ragazza è sprecato, no?”.
“In effetti, … già”, balbettai confuso.
“Non cercare scuse”, sbuffò. “Se non sei capace di procurartela, ci penserò io. Sennò che mamma sarei?”.
Si mise a ridere e mi diede un colpo di mestolo sulle gambe.
“Quando ti chiamo corri, va bene Turiddu?”.
“Va bene signora”.
“Mady”, mi corresse.
“Va bene, Mady. Io mi chiamo Carlo”.
“Preferisco Turiddu”, tagliò corto.
Il mare era calmo e trasparente. Riuscivo persino a scorgere i pesciolini che mi guizzavano intorno quando mi fermavo dopo una lunga nuotata. E’ triste, però, fare il bagno da soli. A mare è bello scherzare, rincorrersi, parlare ad alta voce; quando si è in compagnia il bagno elettrizza, dà voglia di ridere, infonde energia.
Mady, affacciata alla finestra, mi chiamava. 
“Turiddu, vieni presto!”.
Ero appena uscito dal mare e stavo per avviarmi alla doccia. Corsi un po’ goffamente sui piedi nudi e fui presto nel suo stanzone misterioso.
“Questa è Chantal. Trattamela bene perché è una brava ragazza. E non lasciarla sola. E’ belga ma parla benissimo in italiano”.
I grandi occhi verdi mi fissavano, circondati da un visetto minuscolo. Aveva i capelli castani, era piccola di statura ma molto ben fatta. La guardai anch’io e le sorrisi, tremante ancora di freddo.
“Aiutala a sistemare i bagagli e falle la corte. Che razza di Turiddu sei?”Chantal mi tese una mano. Mezz’ora dopo ero di nuovo in acqua con lei. Finalmente potevo ridere, muovermi, giocare. Facemmo la doccia e ci distendemmo al sole. E così ogni giorno. Tante volte al giorno.
C’era in Chantal qualcosa, non so, che commoveva. Il vedere il suo corpo, delicato e solido a un tempo, steso ai raggi del sole, mi dava una specie di groppo alla gola.
Rimasi per un pezzo a guardarla, accoccolato su uno scoglio, senza parlare, senza neanche pensare, tutto preso dalla sola contemplazione di lei.
Quando aprì gli occhi e si accorse del mio sguardo si mise a ridere, mi posò una mano sul braccio con aria sbarazzina e mi disse nella sua lingua:
Pourquoi tu me contemples? Tu me fais sentir précieuse”.
Mi venne allora naturale, istintivo, piegarmi su di lei e sfiorarle le labbra con un bacio; così, senza pensare, con la mente sgombra.
I saloni del castello avevano volte cupe che ci sembravano coltri fresche. Ci stringemmo con dolcezza. Poi il suo odore, il suo fiato, la sua carne si centuplicarono e scesero dentro di  me. Anche lei scossa da quel turbinare, si aggrappò e si aprì.
Aveva l’odore del mare. Fu un ritrovarsi. Come se ci aspettassimo da sempre. Una voce lontana, persa nel mare, cantava i misteri del nostro amore
Sì; per la prima volta nella mia vita amai. Chantal, il cielo che si vedeva dalla bifora, la luna, il mare, erano tutte amore. Carezze, abbracci, sussulti, ombre sui muri, sciacquío delle onde, quella voce lontana, erano un nucleo unico, un mondo inscindibile. Ero felice.
“Che faremo, Chantal?”.
“Non ci lasceremo, Turiddu. Io verrò con te e tu con me”:
“E i tuoi studi, i miei, le nostre famiglie?”:
“Siamo pazzi, ti prego. Dobbiamo esserlo o ci perderemo. Abbracciami, Turiddu; non voglio aver paura di essere felice”:Avevamo fatto il bagno e ora, distesi al sole, tacevamo. Mi sembrava che gli scogli portassero in trionfo il corpo di Chantal.
“Devo tornare, Turiddu. Mi son finiti i soldi e lunedì devo ricominciare a frequentare il corso. Ci vedremo presto, promettimelo”.
Mi si aprì nel cuore come un baratro e volli svenire senza riuscirci. Per chi avrei avuto un corpo, un cervello, un sentimento, senza di lei?
“Verrò a Liegi fra un mese. Troverò i soldi, vedrai”.
“Teniamoci stretti, Turiddu mio”.
Ci amammo là, sugli scogli facendoci una disperata promessa.

Anche se potessi non la cercherei più, oggi, Chantal. Siamo rimasti l’uno nell’altra con qualcosa che non si cancella né si disperde; che ritroviamo quando siamo senza amore e il ricordo di un bene passato riempie questo cuore ostinato che ha sempre bisogno di palpitare. Ma anche quando amiamo; come spinta inconscia , come … come uno spazio immenso che esso ha aperto e che dobbiamo sempre riempire.

“Turiddu, amore mio, hai mantenuto la promessa!”. Con il cuore che mi batteva forte avevo bussato al campanello ch’era sul cancelletto. La casa, una palazzina a un piano con i tetti spioventi, era posata sul prato verde e dentro di essa c’era lei e stavo per farle una sorpresa. Sapeva che sarei arrivato ma non le avevo detto quando.Quando la vidi aprire la porta e correre verso di me fu come se tutte le campane di Liegi sonassero a stormo nella mia testa. 
Maman, c’est mon ami Turiddu. Il logera chez nous. Tu veux?”.
La mamma di Chantal mi squadrò da capo a piedi, poi mi tese la mano.
Cucinava molto bene e si sforzava di piacermi. Trovava che ero un italiano speciale, educato cioè. Per lei tutti gli italiani, figuriamoci poi i siciliani, erano stati fino a quel momento dei mafiosi attaccabrighe.
C’est une chanson qui nous rassemble …”, cantava Chantal mentre mi riassettava la stanza, benché le avessi detto che potevo farlo io. Era una canzone di Yves Montand molto nota allora, anche in Italia.aaaaaaaaaaaa
 nord les emporte dans la nuit froide vers l’oubli …”  E’ la voce di Chantal, ancora, che si libra fra me e l’ordigno e che ci impedisce ogni possibile comunicazione.
Tu vois je n’ai pas oublié la chanson que tu me chantais”, le rispondevo.“Facciamo tutto quello che si può fare nella vita, ora. Concentriamolo in questi momenti, Chantal. Ho il presentimento che non durerà. Andiamo, partiamo, corriamo l’uno verso l’altra ma la vita finirà per metterci i ceppi in luoghi diversi e un giorno ci chiameremo senza sentirci”.
”Non essere  così melodrammatico”, mi sorrise, ma era preoccupata.
Mi pareva malato, allucinato, quel giorno, il sole della mia Sicilia.

Sto solo, adesso, sulla spiaggia, ad ascoltare le onde meste che carezzano la riva al suono di un pianoforte languido.
Infreddolito, nudo, con il volto bagnato di lacrime e d’acqua. Chantal è là, nel mare. Avanza, torna indietro con le onde grigie; un oboe mi invoca.
I nostri abbracci sono adesso un ricordo sconsolato che il mare fa riaffiorare e sommerge lentamente con arpeggi di tasti mentre l’archetto sembra un rimprovero sofferente.
Chantal, vorrei tenderti le braccia, far sorridere il tuo visino, ma non posso. Ho le braccia troppo pesanti; non riesco a staccarle dal mio corpo biancastro e infreddolito. E tu vai, vieni, sulla linea di un orizzonte incolore: due occhi grandi, sbarrati, il volto piccolo, bagnato dalla tristezza di un mare senza sole.E’ la musica che mi tiene fermo a piangere inutilmente incollato sulla spiaggia, è questo violoncello che mi fascia di languore impotente o è la paura, invece? Una codardia appiccicosa che mi blocca in una culla malsana?Sento che è la mia ultima occasione, ma la volontà si scioglie con le lacrime e vedo i tuoi occhi, la tua bocca, sempre più lontani e il vischio di questo violoncello lega per sempre le mie braccia.
Addio, Chantal. Non ho neanche la forza di gridartelo, intorpidito da questa accoratezza inutile.
Uno stacco, una pausa. Chantal non c’è più, non ci sarà mai più. L’ho tradita anche adesso. E lei, ch’era tornata, percorrendo con i suoi occhi tutto quel mare, tutti quegli anni. Per me.
Il mare l’ha sommersa e adesso ride, scroscia birichino in una miriade di spruzzi, improvvisamente animato da un sole che lo rende azzurro e bianco di bave, ilare sotto la luce; un chiarore iattante che asciuga le mie lacrime e che sembra calcarmi sulla terra.
Ora il mare s’alza verso il cielo e l’acqua diventa un muro mentre da una fenditura esce un coltello di fiamme che mi trafigge. Il dolore mi arriva fino al cuore…
T’ho tradita per l’ultima volta, la terza, Chantal. E si ripete l’evangelica profezia: “Prima che il gallo canti mi tradirai tre volte”
“Turiddu, vieni! Ti ho preparato una sorpresa”.
“Aspetta, Chantal, non mi tirare così, sto facendo il bucato e ho le mani tutte bagnate”.
“Ma va’. Corri, lascia perdere”.
Lasciamo il grande spiazzo del castello, folgorato dal sole e dall’azzurro e ci facciamo inghiottire, ridendo, da una scalinata buia e fresca. Scendiamo chissà quanto.
Ora siamo nel nostro salone. Là, dove ci amiamo, alla luce fioca della luna. Dalla bifora entra un chiarore indeciso.
“E’ questa la sorpresa?”.
“L’amore è sempre sorpresa, Turiddu”.
La luna percorre la bifora.
“L’ho fatta venire per te”, mi dice accarezzandomi la nuca.
La sua pelle è fresca e al buio trovo le sue labbra, i suoi occhi, il suo calore e mi stendo su di lei con il cuore e i sensi gonfi….Come sei dolce Chantal! Quando sto per emettere l’ultimo grido d’amore, sono interrotto da un vocione brusco. Il sole si oscura, sento un dolore forte all’addome. Ho la gola asciutta.
Giù, ancora giù … Mi debbo far forza, devo aprire gli occhi …
“Tutto bene. Adesso pensi a guarire”.Attorno a noi la sala si illumina improvvisamente di torce, lampioncini. Centinaia di medici in càmice verde ci circondano, incombono ridendo sgangheratamente, agitando bacchette in cima alle quali ondeggiano lampioncini multicolori, faccioni ghignanti e baffuti.
Siamo scoperti e così, nudi e impudichi, siamo posseduti e immobilizzati da una vergogna cocente…
Ho aperto gli occhi. Finalmente! Il viso di mia moglie:“Ce l’hai fatta, Carlo”.
No, Non ce l’ho fatta. Chantal,ti’ho perduta. Per sempre.

mercoledì 16 maggio 2018

Lodovico Balducci - La scala mobile invertita

Ció che non ho é un pulsante
Che   arresti
La scala mobile e ne inverta il corso
E mi riporti ai sapori
Della mia infanzia
Depositati in un conto fiduciario
E forse estinti
Come i libretti di banca al portatore
Perché il computer non sa decifrare
La calligrafia
Di impiegati a doppie maniche
Rivolte a  preservare
Luccicante
Senza sfilacciature e abrasioni
Il  pettinato
Del solo completo permesso al salariato
La domenica in chiesa o al dopolavoro.

I perigli  di un vivere incerto e faticoso
Su un sentiero minato  di trappole e  agguati
Ho sfidato in un viaggio lungo e tortuoso
Per poter ritornare ai miei piccoli tesoro sotterrati:
Il vino amabile di Pollo, riservato al nonno
E agli invitati importanti alla fine del pasto
E la robiola coi vermi vivi affogati nel vino
Che bambino concupivo
Quanto le mutandine  da donna stese ad asciugare.
Con le damigiane dei vigneti privati
Sui tetti delle vetture
Il consorzio della valtidone
Ha esaurito i sapori diversi del sole
Sulle colline
Nel gusto comunitario del Gotturnio
E l’istituto di Igiene
In combutta con il mercato europeo
Legiferando  sapori legittimi
Per la comunitá continentale
Ha messo al bando la degustazione
Dei vermi nel formaggio raffermo.
Temo che la Robiola sia morta con Cicci.

I miei tesori includevano gonne lunghe e spaziose
Che predicavano un mondo incantato
Di campanule e orchidee
Da esplorare lentamente
 E scoprire a lume  di candela
Con ondate di rossore
Incoraggiati  dalla sinfonia
Che il vento estraeva ai pini e agli abeti
La notte al passo del Pellizzone.
Dai leggings sfatato
 E Ingabbiato
Pollo anónimo  d’allevamento 
Il becco minuscolo del sesso  spennato
Emerge esiguo ed esitante dalla sbarre della stia
Trascurato
Come un mozzicone di sigaretta
Per un fumatore incallito.
E Fabrizio e  Iannacci
Bandiere  di ribellione
Abortita
Per una generazione
Dilaniata al seguito di bandiere diverse
Senza spessore
Sono ammutoliti dal clamore
Assordante
Di rappers e  heavy metals
 Per cui amore
E’  parola arcana e insignificante 

Ció che non ho sono le risorse
Per riscattare la storia
Da una ipoteca avventata
E irredimibile

Lodovico Balducci - Quello che non ho

Sprazzi fortuiti di giovinezza
Stentati e torpidi come un fiore di campo in miniera
Nel ritiro forzato della sera
Ho   agganciato in  una catena
Di anelli sconnessi,  fraintesi
Come  episodi di vita  piena
Di malavoglia certo e per dovere,
Forse anche incoraggiato da un alito
Di speranza inconfessata
Impercettibile  brezza
La carezza
Di un’ amante  schiva 
Durata
Il tempo  in cui la sabbia del deserto
Esaurisce una pioggia rarefatta e rara
E si illude di essere viva.

Non ho  la voglia
Di continuare a vivere:
Un nuovo software  mi ha tagliato fuori
Da ogni canale legittimo
Di comunicazione:
“accesso negato” tasto dopo tasto
Non un solo bottone é rimasto
A cui affidare un messaggio.
Encriptato in un linguaggio
Di elettroni avariati.
Giá l’avevo previsto
Perche’ il vecchio cellulare
Non tollerava nuovi apps
E in un nuovo cellulare mi sarei perso
Come nelle circonvallazioni  senza GPS
Per questo ho rifiutato Disneyworld ai nipotini.
I microchips sono impermeabili ai miracoli :
Perché inutilizzate
Le chiese sono state chiuse insieme ai casini.

Non ho la voglia di darmi la morte
E uccidere la speranza
Malposta forse ma vivificante
Dei bimbi che in coro
Mi invitano a far la guida
 A un mondo nuovo e esuberante
Che li invita e li ammalia
Anche se a me appare staniero , e minaccioso;
Della sposa che si assopisce tra le mie braccia
Ancora dopo cinquant’anni
Per risvegliarsi
Nel mattino ogni giorno più prezioso
Anche se a una visione
Ogni mattino  più lontana e  sfocata;
Degli amici  fuori mano
Che nutrono un futuro impossibile
Di ricordi  rimodellati invano
Per vivificare la vecchia casa dai muri corrosi
E il tetto che crolla;
Anche se mal tollerata e silenziosa
La mia vita é preziosa
A coloro a cui comunica la vita.

Nel Getsemani
Cristo ha vissuto il dramma  umano
Lo stesso per credenti e non credenti
Quando ha pregato che gli fosse risparmiata la morte
E che gli fosse impossibile continuare a vivere.
Quello che non ho é uno stratagemma
Per sottrarmi al dilemma.

giovedì 10 maggio 2018

Pierpaolo Lavatelli - Spirito avvolto

Per toccarsi, non servono le mani.
Per amarsi non servono i corpi:
una parola, uno sguardo può
attraversare le nostre difese,
arrivare dritto e implacabile a colpirci in pieno.

Cosicché tutto il resto, è solo una conseguenza.
L'emozione rimane dentro di noi,
la conserviamo gelosamente.
Ogni volta con te è così:
voglio catturare la tua luce
e farla mia; ti ammiro e ti assorbo.

Filtro il meglio e mi prendo la tua essenza.
La tengo qui, dentro di me;
mi stupisce e m’innamora.

Ho ciò che è più bello di te...
il tuo corpo riveste il tuo spirito,
con una confezione pregiata.

Così svolgo il nastro che avvolge
a spirale la tua pelle,
accarezzo le tue forme,
m’impossesso di qualche goccia di te.

Resto incantato a guardarti perché so
come sei fatta dentro e tremo di passione:
di quello che non ho, non sento la mancanza.

Pierpaolo Lavatelli - Insensati fervori

(canzone)



Seduto di fronte al televisor
dopo l’ennesima interruzione,
profumi, automobili, divani…

vera, imperdibile promozione,
sospinto per strade vuote dal motor;
fai presto, solo fino a domani!

Sorridenti e finti, siam artigiani!

Il rumore e la polvere d’un branco,
che invade così disordinato
il parcheggio di un ipermercato:
di posseder oggetti non è mai stanco.

Nella confusion io, invece, arranco.
Mi sento così vuoto…
Perduti sono tutti quei valori,
sommersi nel fondo del maremoto,
schiacciati da insensati fervori.

Ossessionati di poter apparir,
non ha più importanza in che modo;
protagonisti nel bene e nel male
senza rispetto, perché tutto vale!

L’anima ridotta a un colabrodo.

Io, oggi mi fermo qui,
ad ammirare questo bel tramonto.
Voglio restar spento qui
Senza nessuno a cui rendere conto!

Maria Rita Merlo - Zahara

Ho paura, ho tanta, troppa paura ! Nella mia vita ho sempre avuto paura, non ricordo un solo momento in cui abbia potuto giocare serena, tranquilla, senza sobbalzare al minimo rumore, senza dover stare continuamente in guardia, pronta a scappare a gambe levate al primo accenno di  pericolo, ma ora quello che provo è terrore!
Sono qua, su questo barcone puzzolente, pigiata con un altro centinaio di poveracci come me, da stamattina presto, ho visto lo spettacolo del sorgere del sole, ma poi ha cominciato a fare  sempre più caldo, di acqua ce ne hanno data poca, ho sete, anche fame, ma soprattutto sete, chi ha provato a protestare è stato  preso a schiaffi, allora io ho deciso di tacere.
Col passare delle ore il mare, che prima era calmo, è diventato sempre più mosso; io non avevo mai visto il mare prima, ora ci sono delle onde gigantesche, sono tutta inzuppata  e quest'acqua non la posso neppure bere: è salata!
Ormai il sole è tramontato, ora è buio pesto, il cielo è squarciato da lampi accecanti, accompagnati da tuoni  spaventosi, piove  molto forte e questo è un bene, perché apro la bocca e bevo, finalmente... però non so se ce la faremo, prima o poi un'onda più alta della altre rovescerà questo guscio di legno e finiremo tutti in bocca ai pesci!
Fa freddo, stringo a me mio fratello Shomari, che per sua fortuna si è addormentato e provo a chiudere gli occhi, che bello se potessi passare dal sonno alla morte senza accorgermene.
Io sono Zahara, sono nata 14 anni  fa in un villaggio del Sud Sudan, situato nella regione di Bahr al Jabal, bagnata dal Nilo Bianco, una delle poche zone dove non manca l'acqua, si può coltivare la terra e allevare gli animali, siamo più fortunati di coloro che vivono nel deserto, ma purtroppo c'è la guerra; dicono che, da quanto il Sud Sudan è diventato indipendente nel 2011, la guerra sia finita, ma non è vero. Da anni è in atto un conflitto etnico tra le varie tribù, di lingue e religioni diverse, ormai il territorio è preda di diversi gruppi armati, bande di criminali e delinquenti di ogni tipo su cui il governo non può, o non vuole, esercitare alcun controllo.
Forse mi sono addormentata anch'io o forse sogno a occhi aperti, perché ora rivedo la mia infanzia: la mia famiglia tutto sommato non se la passa male, entrambe i miei genitori sanno leggere e scrivere, gestiscono il piccolo emporio del villaggio, coltivano un orticello e hanno una decina di capre, che noi ragazzi sovente portiamo al pascolo;  io sono la primogenita, due anni dopo è nato Shomari e dopo altri tre anni le gemelline Chara e Vasha; io e Shomari siamo nati in casa, con l'aiuto delle donne del paese, ma per le gemelline le cose si erano messe male, Papà ha dovuto in tutta fretta attaccare il cavallo al carretto e portare Mamma, veloce come il vento, al piccolo ospedale delle Suore Missionarie, che si trova nel villaggio vicino...vicino relativamente... a piedi ci vuole quasi un'ora, me lo ricordo bene perché tutti noi fratelli siamo andati a scuola dalle Suore, Papà ha sempre detto che l'istruzione è importante.
Io non so cosa sia la pace, quando sono nata c'era già la guerra, il primo conflitto, che poi ha portato alla separazione del Nord Sudan, a maggioranza musulmana, dal Sud Sudan, dove prevalgono i cristiani; il fronte era più a Nord, la nostra zona era interessata solo marginalmente dagli scontri armati, anche se i nostri giovani erano costretti ad arruolarsi e andare a combattere, purtroppo ne abbiamo persi molti .
Ricordo con piacere che, per andare a scuola, dovevamo alzarci presto, radunarci con gli altri bambini  del paese e poi, in gruppo, allegramente, cantando, rincorrendoci, prendendoci in giro a vicenda, ci mettevamo in cammino; ad accoglierci c'erano le Suore con la colazione pronta, niente di grandioso, pane e latte, ma dopo la scarpinata, era un vero lusso! 
La lezioni si tenevano sotto tre tettoie di paglia con il pavimento in terra battuta, gli scolari seduti su quattro o cinque file di panche, di fronte la cattedra e la lavagna; libri, quaderni, matite, tutto l'occorrente ce lo fornivano le Suore che tenevano anche le lezioni, divise in tre classi; lì ho imparato a leggere e scrivere nella mia lingua, ma anche in inglese, lì ho imparato la matematica, la geografia, la storia e, dato che la mia maestra era una giovane e simpatica Suora di Milano, anche l'italiano, che, diceva Papà: “Ti tornerà utile quando andrai in Italia...”.
“ Ma perché mai dovrei andare il Italia ? “ pensavo io, ed ecco che ora sono qua su questo orrendo barcone diretto proprio in Italia, ma io sono sempre più convinta che finirà in fondo al mare portandosi dietro tutte le nostre vite.
Finita la scuola, ho continuato a frequentare la Missione delle Suore, a volte per aiutarle, a volte per prendere in prestito dalla loro biblioteca i libri che mi è sempre piaciuto leggere; quando avevamo la fortuna che capitasse lì un Sacerdote, andavo a Messa con tutta la mia famiglia, per l'occasione Papà, col carretto, dava un passaggio a tutti i  compaesani che volevano unirsi a noi: arrivava gente da tutti i villaggi vicini, era una vera e propria festa, ognuno portava qualcosa da mangiare e, dopo la celebrazione, si pranzava tutti insieme, chiacchierando allegramente, poi si faceva un po' di musica e si ballava fino a sera.
Purtroppo ricordo anche benissimo che una volta la festa è stata rovinata dall'incursione di una banda di guerriglieri; sono scesi dalle auto con i fucili spianati e, urlando e minacciando di morte tutti i presenti, si sono fatti consegnare tutto ciò che loro aggradava; quando finalmente se ne sono andati, siamo rimasti tutti senza parole, terrorizzati e in lacrime; ricordo che Papà, sulla via del ritorno ci ha raccontato di aver letto sul giornale, poco tempo prima, che, a causa dei numerosi crimini commessi in Sud Sudan, negli ultimi sei anni, circa un terzo dei dodici milioni di abitanti è sfollato, la maggior parte a Sud, in Uganda.
Alcuni, soprattutto giovani, tentano di arrivare in Europa, una vera e propria lotteria con la morte, ma la paura ormai è tanta che si preferisce rischiare la vita perseguendo un obbiettivo, piuttosto che trascinarla avanti qua, senza alcuna prospettiva, ma solo chi può disporre di almeno mille dollari, la somma solitamente richiesta dalle bande che organizzano le traversate, può tentare.
Shomari e io siamo stati miracolati qualche mese fa, quando nel nostro villaggio c'è stata un'incursione dei guerriglieri di Boko Haram, i peggiori di tutti, perché, oltre a far razzie, rapiscono i giovani per farne degli schiavi: i maschi vengono addestrati a fare i soldati, per poi diventare a loro volta criminali, le femmine, dopo essere state stuprate, sono costrette a prostituirsi; spesso invece entrambe vengono venduti alle organizzazioni specializzate nel commercio degli organi.
Per nostra fortuna, quando sono venuti nel nostro paese, Shomari e io eravamo al  pascolo con  le capre, non ci siamo accorti di nulla, ma quando siamo tornati abbiamo trovato quasi tutte le famiglie in preda alla disperazione: si erano portati via una trentina di ragazzi tra i 10 e i 20 anni, molti nostri amici...ho pianto per ore !  Nel nostro emporio avevano rubato un sacco di cose, ma, fortunatamente non avevano picchiato nessuno e avevano deciso che le gemelline erano troppo piccole per portarsele via, ma se ci fossimo stati io e mio fratello non avremmo avuto scampo.
Quella sera ho sentito i miei genitori che parlottavano piano di un viaggio, ma non ho potuto capire bene e poi, il giorno dopo, Shomari e io siamo stati chiamati a rapporto: ci hanno comunicato che, già da tempo, stavano mettendo da parte i soldi per andare in Europa, ma, per il momento, non erano sufficienti per tutta la famiglia, quindi, dato che noi due eravamo più a rischio,  saremmo partiti da soli; nel frattempo loro avrebbero risparmiato ancora, venduto l'emporio, la casa e le capre e poi ci avrebbero raggiunti con le gemelline.
So benissimo dov'è l'Europa, perciò so che è lontanissima dal Sud Sudan e che per arrivarci bisogna attraversare  prima il deserto e poi il mare...abbiamo provato a protestare, ma papà è stato irremovibile, si sarebbe messo in contatto con qualcuno che organizza le traversate e poi saremmo partiti !
E così è stato: in una notte senza luna Shomari e io, al collo una busta impermeabile contenente i nostri documenti e uno zainetto ciascuno come bagaglio, siamo saliti su un pick up che sfrecciava per strade isolate e ogni tanto si fermava a raccogliere qualcuno; si viaggiava solo di notte, di giorno ci si nascondeva tra la vegetazione, finché c'è stata, poi in casolari abbandonati o tende beduine; ci davano da bere e qualcosa da mangiare, fortunatamente non ci hanno mai maltrattato; abbiamo cambiato veicolo moltissime volte, dopo un paio di settimane, siamo arrivati in Libia, a Bengasi, dove ci hanno rinchiusi in una specie di vecchia caserma, sporca, umida e priva di servizi, in attesa della traversata...
Quello è stato il periodo peggiore, non so neanche quanto è durato perché ho perso il conto del tempo, ma sono certa che sono stati diversi mesi, i giorni passavano tutti uguali, sempre rinchiusi nella penombra, senza niente da fare, solo di notte ci facevano passeggiare in cortile, non ho mai apprezzato così tanto l'aria fresca sulla pelle!
Sono riuscita a non impazzire probabilmente perché ero insieme a mio fratello nel gruppo dei minori non accompagnati, mentre gli adulti erano stati divisi: gli uomini in una camerata e le donne coi bambini piccoli in un'altra; ogni camerata aveva un unico gabinetto, sporco e puzzolente, ci si poteva lavare e cambiare una volta la settimana, il cibo era una vera schifezza, però almeno non ci hanno mai picchiati; ogni tanto portavano via qualcuno perché era venuto il suo turno di partire.
Poi due notti fa sono venuti a prendere anche noi due, dopo un breve viaggio in auto ci hanno fatti salire su quest'orrendo barcone e siamo partiti.
Mi ero veramente addormentata, perché vengo svegliata di soprassalto dalla sirena di una nave, ora la vedo...è ancora lontana, ma è tutta illuminata, ha puntato dei fari potenti su di noi e si sta rapidamente  avvicinando: è la salvezza !
I nostri compagni di viaggio sono in fibrillazione, si alzano in piedi, si spintonano, si sbracciano, ma così fanno dondolare troppo la barca, finirà per rovesciarsi...per fortuna il mare si è calmato...meno male che Shomari e io sappiamo nuotare: come tutti i bambini che hanno frequentato la Missione delle Suore abbiamo seguito le lezioni di nuoto, che si tenevano in un'ansa del fiume chiusa, simile a una piscina; Suor Federica, l'insegnate, ci diceva che saper nuotare ti può salvare la vita...io credo che sapesse che, prima o poi, molti di noi si sarebbero ritrovati nella situazione in cui siamo noi ora.
La nave è vicinissima, riesco a leggere sulla fiancata “ REPUBBLICA ITALIANA”, ma il  ponte è troppo in alto, stanno calando le scialuppe, ma ormai il nostro barcone oscilla paurosamente, stringo la mano di mio fratello ed ecco che si rovescia, finisco sott'acqua, ma con poche bracciate rieccomi a galla, dalla nave buttano dei salvagenti, ne afferro uno e me l'infilo, la scialuppa è quasi in acqua, la raggiungo velocemente e sento che due braccia forti mi tirano a bordo.. sono salva ! Ma dov'è Shomari? Lo chiamo con tutto il fiato che mi resta e poi lo vedo: sta raggiungendo ora la scialuppa, in un attimo anche lui è a bordo...lo abbraccio, entrambe piangiamo e urliamo di gioia: l'incubo è finito !
Questa notte ho rivissuto  tutta la mia vita, sempre  passata in allarme e apprensione e improvvisamente realizzo quello che ho sempre avuto e che ora non ho: “ FINALMENTE NON HO PIU' PAURA “  .

Maria Rita Merlo - Poesia, musica, ricordi

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò...
questi versi fanno parte della poesia “Traversando la Maremma Toscana”, l'autore, Giosuè Carducci, li rivolge alla sua terra, che rivede dopo tanto tempo, mentre riflette sul suo carattere fiero e ribelle, ma soprattutto sui suoi sogni giovanili che non ha realizzato; ma perché oggi  mi risuonano in mente come un ritornello ?
E' un nebbioso pomeriggio invernale, la poca luce si sta lentamente affievolendo,
sono sprofondata in poltrona davanti alla finestra, ma vedo solo ombre grigie; la televisione mi annoia, ho acceso la radio che sta trasmettendo una bella selezione di canzoni dei cantautori italiani : Guccini, Dalla, De Gregori, Battisti, De Andrè, Baglioni, Vecchioni, Branduardi... oh, come mi piacciono !
Sono vecchia, sono stanca, sono malata, sono sola, che sia giunto il momento di fare un bilancio della mia vita ?
Quand'ero una bambina sognavo di fare la ballerina, ma sono sempre stata un po' cicciottella, non bella e neppure particolarmente aggraziata: ho dovuto rinunciare, peraltro senza soffrirci troppo, però ho sempre avuto orecchio per la musica e, col tempo e prendendo qualche lezione, ho imparato a ballare: walzer, tango, mazurka, foxtrot, samba, cha-cha-cha, niente di che, per divertimento !
Quando nel luglio del 1969 il primo uomo uomo è sbarcato sulla Luna, mi sono appassionata ai viaggi spaziali e avrei voluto fare l'astronauta: inutile dire che era un obiettivo destinato a fallire, prima ancora di cominciare!
Poi mi sono presa una cottarella giovanile per un mio lontano cugino, di una decina d'anni più grande di me, che si era appena diplomato ragioniere, e quindi ho deciso che anch'io avrei studiato ragioneria; a dire il vero ero portata per le materie scientifiche, non tanto per la matematica, quanto per geografia e scienze; ho un bel ricordo degli anni della scuola, non ho mai faticato a imparare, senza sgobbare in maniera eccessiva sono arrivata al diploma col massimo dei voti; mi sarebbe piaciuto andare all'Università, avrei fatto Giurisprudenza, ma ho subito trovato un buon lavoro e, visto anche che in casa non si nuotava nell'oro, ho cominciato a lavorare il Banca.
Sì, il lavoro mi piaceva, soprattutto all'inizio, l'ambiente anche e , passo dopo passo, sgobbando come sempre le donne devono fare per meritarselo, ho fatto anche carriera; però, ripensandoci ora: Dov'ero io quando la mia mamma moriva da sola il Ospedale?
Dov'ero io quando mia sorella cresceva da sola due figli? Dov'ero io quando mio nipote si perdeva dietro alle cattive compagnie? 
Nonostante la mia vita fosse frenetica, ho persino trovato il tempo di sposarmi, ma  non ho avuto figli, sicuramente perché il Buon Dio  non mi ha ritenuto meritevole di diventare madre ! Con mio marito ho viaggiato molto, ho conosciuto luoghi, popoli e culture di ogni continente, ma mi sono mai soffermata ad approfondire ciò che avevo visto?
Dato che sono in vena di riflessioni serie, nella mia vita, quando mi sono sentita veramente felice ?
Riandando molto indietro negli anni, mi ricordo di quando pregavo Gesù Bambino di mandarmi una sorellina e di quanto sono stata felice quando finalmente mi ha accontentata, ormai avevo nove anni e cominciavo a disperare; ricordo anche  di aver urlato di gioia quando, dopo essermi seriamente impegnata nell'insegnamento, la mia sorellina ha cominciato a camminare, staccando le sue manine dal bordo del box a cui era aggrappata e venendo verso di me che la stavo chiamando.
Com'ero orgogliosa quando, parecchi anni dopo, sono diventata zia: prima di uno, poi due, tre e quattro nipoti, due maschi, figli di mia sorella e due femmine, figlie della sorella di mio marito; a tutti voglie bene come se fossero figli miei !
Che felicità quando ho potuto riabbracciare il primo dei miei nipoti,al  termine di un lungo periodo di riabilitazione in una comunità, nella quale l'avevo convinto a entrare per riprendersi in mano la sua vita disastrata!
Più recentemente ho pianto di gioia nel vedere la più grande delle mie nipoti vestita da sposa: il giorno del suo matrimonio è stato uno dei più belli della mia vita!
Sono rimasta incantata a bocca aperta quando, dopo una serata passata intorno al fuoco in un parco naturalistico in Madagascar, ho alzato gli occhi al cielo  e ho scoperto che non si vedevano solo le stelle, ma anche tutto il pulviscolo, splendente come non l'avevo mai visto!
Che spettacolo vedere sorgere il sole a bordo di una mongolfiera che attraversa il bush australiano, mentre a terra saltano i canguri o vederlo tramontare in Namibia, nei pressi di uno stagno nel quale si stanno abbeverando gli elefanti !
E che spettacolo nuotare in mezzo a pesci multicolori grandi e piccoli, di specie e forme mai né viste né immaginate, nello scenario della Grande Barriera Corallina Australiana !
Ecco, ora alla radio stanno trasmettendo “ Quello che non ho “ di Fabrizio De Andrè, una canzone che conosco molto bene, un vero e proprio manifesto contro il consumismo; mentre ascolto le parole di quella che è, a tutti gli effetti, una splendida poesia, la lista di “quello che non ho è quel che non mi manca” mi permette di mettere a fuoco ciò che veramente conta: sono tante le cose che avrei voluto, che non ho e non avrò mai...ma all'improvviso capisco perché prima non riuscivo a togliermi dalla testa i versi del Carducci: le ambizioni, le corse, gli affanni per la carriera, il denaro, il successo  mi hanno portato soprattutto ansie e preoccupazioni, ma l'esistenza non è questione di affari, è invece ricerca di felicità, che le cose materiali promettono, ma non mantengono; è solo nel dare e nel ricevere amore che si pesa la felicità della vita e io la felicità vera l'ho trovata negli affetti famigliari, nelle piccole soddisfazioni di ogni giorno, nei doni e nello spettacolo della natura. Che sciocca sono stata ! Temo che ormai sia troppo tardi per cambiare rotta e recuperare il tempo perduto !
Terminata “ Quello che non ho ” ora inizia un'altra delle mie canzoni preferite:
“ Samarcanda “ di Roberto Vecchioni, che, riprendendo un'antica leggenda, narra la disperata fuga a cavallo di un uomo che vuole sfuggire alla Morte, ma non sa che “La Nera Signora” lo aspetta proprio là dove lui sta andando.
Mentre sfumano le ultime note, sento dei rumori alla porta di casa, qualcuno sta armeggiando con la serratura, la porta si spalanca, una luce accecante mi costringe a chiudere gli occhi, trattengo il fiato : “ Ecco, è giunta la mia ora, la Nera Signora è venuta a prendermi” penso terrorizzata.
“ Accipicchia, cosa fai lì in poltrona al buio ?  Ma sei sicura di stare bene ? “
mi dice la persona che è entrata, però io quella voce la conosco ! Apro timidamente gli occhi e vedo... mio marito, che è appena tornato dal lavoro, tento di rispondergli qualcosa, ma non mi escono le parole, lui mi tocca la fronte:
“ Scotti, hai di sicuro presa l'influenza, bisognerà chiamare il medico “ ;
“ No aspetta, a quest'ora il medico non esce più, dammi una tachipirina e fammi una spremuta, vedrai che domani starò meglio”, un po' rassicurata, trovo finalmente il coraggio di parlare;
“ Da quanto tempo sei lì in tranche ? “
“ Siccome non mi sentivo tanto bene, invece di pranzare, ho bevuto un thé e poi mi sono messa in poltrona, devo essermi addormentata ! “
Ripensando a ciò che mi è accaduto nel pomeriggio, mi rendo conto che, se sentivo la musica, non ero addormentata, nella mia testa, ottenebrata dalla febbre, si sono mischiati sogni e realtà, quello che è certo è che mi sono presa un bello spavento!
Ora che ho ripreso possesso della mia facoltà di intendere e volere, ricordo che non sono poi così vecchia, ho da poco passato la sessantina e, fortunatamente, godo di buona salute, influenza a parte ( ma quella passa in fretta ! ) , quindi la Nera Signora spero che possa aspettare ancora un po' a farmi visita; mi ricordo anche che, da quando sono in pensione, ho cominciato ed occuparmi di più alle mie persone care, mi sono anche ritagliata degli spazi per coltivare ai miei Hobbies: studio le lingue straniere: inglese, francese e spagnolo, che apprendo con facilità e che mi tornano utili per viaggiare; faccio un po' di sport: palestra, piscina e qualche camminata di buon passo; mi dedico alla fotografia; su sollecitazione della Docente di Letteratura dell'Università della Terza Età, che frequento, ho cominciato a scrivere racconti, attività che mi da molte soddisfazioni, oltre a qualche  articolo per il “ Gazzettino dell'U.T.E.” ;  insieme a mio marito seguo la squadra di pallavolo femminile della mia Città, che milita in serie A  e sta collezionando un successo dietro l'altro !
Una cosa però è certa: quel pomeriggio, quando avevo l'influenza, passato in poltrona a riflettere, in bilico tra sogno e realtà, è stato un po' come una seduta dallo psicologo, mi ha aiutato a stabilire delle priorità, ad acquisire la convinzione che è più importante e ti da più soddisfazione apprezzare ciò che si ha, piuttosto che rincorrere ambizioni e sogni  difficilmente realizzabili o piangere su quello che non c'è.

mercoledì 2 maggio 2018

Giorgio Orizio - Il tarlo mai sincero

....Quel tarlo mai sincero che alcuni chiamano pensiero....

Racconto introspettivo

Come disse Massimo Bubola, grande amico e co-autore di Fabrizio de Andrè,   "....vorrei essere come Dostoevskij per curvare  le parole..."

Inutile parlare di ciò che si trova nell'oblio della mente, nessuno può capirti nel pieno delle tue illusorie emozioni. Lo spirito che brucia nel ventre e ti sale nella mente non si esaurisce mai, ogni esperienza è una nuova conoscenza ed una piacevole sofferenza. Anni ad aspettare la sorte, il fato, e la morte, parafrasando liriche più famose, spendendo tempo passato e presente a difendere la propria integrità morale e la propria dignità civile, spiegarsi al mondo senza trovare chi voglia veramente capirti o cercare di farlo, congelato da falsi moralismi e pregiudizi antichi, deriso per la scarsa autostima e per la sciatta presenza nel palcoscenico sociale. Mentre il ticchettio del pensiero risuona costante ed incessante, quasi con cadenza ritmica ammaliante che blocca ogni tentativo di evasione, anni di ricerca e inutile attesa, anni di progetti e fallimenti continui per uscire dalla mediocrità e da quel alone di normalità, che formalizza la nostra vena artistica, introspettiva, filosofica ed idealista. Anni a spiegare ogni singola "devianza" per paura dell'esclusione dal circolo vizioso della modernità. Io anarchico, libertario ed individualista, misantropo per necessità e misogeno per costrizione avversa. Odio questa omologazione forzata che ogni giorno va contrastata, professo e sogno dignitosa libertà per ogni singola individualità. Questi continui compromessi morali ed oggettivi logorano l'animo, mentre lo scenario desiderabile si allontana sempre più verso una società distorta ed incivile, spinta da perversione verso il materiale e l'illusorio senso di onnipotenza. Ascolto il frinire continuo del tarlo e mi eclisso per un momento da questo presente, lontano dal mio volere e dal mio sentire, lotta continua di un randagio costretto alla convivenza sociale forzata da regole futili e inique, volute per opprimere e sopprimere chi crede nel eguale libertà.
Dalla comune alla solitudine, può essere il titolo esplicativo della mia attuale realtà quotidiana, voglia di fuga ed ambizione di cambiare la società pur con la debolezza di chi la battaglia è costretto a condurla in autonomia. Niente può mutare con le mani di un singolo uomo, forse non è il sostantivo idoneo, vile o forse vigliacco, meglio mi si addice. Ma pur sempre incapace di donare al mondo uno stimolo di cambiamento positivo ed equamente condiviso. La parola equità nella storia dell'uomo moderno non trova riscontro, una parola complessa da spiegare e difficile da realizzare, senza l'unità e la solidarietà degli eguali. Eguali a chi e per chi, ci si potrebbe chiedere, perchè professare uguaglianza in un contesto sociale altamente variegato e totalmente iniquo? Perchè con l'arma della conoscenza e dell'esperienza non si può combattere l'ignoranza, perchè l'educazione, la partecipazione e la consapevolezza che sono strumenti sociali altamente coesivi ed aggregativi, come  nei gruppi sociali   non gerarchizzati, nulla possono contro il potente. Tutto per tutti è il pensiero principe della nostra incessante idealità, fuori dai giochi e dagli schemi preconfezionati, lontani da informazione contorta e strumentale, mentre quel tarlo frinisce più forte, continua nella sua bramosia di potere, consuma l'essenza e lede la sua struttura, sembra che non ci sia alcuna soluzione, eppure ci deve essere, in qualche anfratto nascosto, difficile da trovare, ma certamente reale, non può continuare con la sua voracità a logorare il mondo, presto ci porterà all'autodistruzione. Scenario apocalittico ed immaginario, pessimismo incalzante di un inutile uomo facente parte di una società evoluta, moderna e antidemocratica. Partendo da un sentiero impervio si può costruire una via di comunicazione, dando vita ad un contesto sociale aggregativo in un ambiente naturalmente eco-compatibile? Quello che non ho, è il tempo di confrontarmi con me stesso e dialogare per ore su un possibile cambiamento di rotta, su come estirpare il tarlo e mutarne la sorte.

Stefano Ficagna - Il resto della mia vita

La donna stava sdraiata sul lettino, il volto coperto dalla folta chioma corvina. Al di sotto di quella coltre di capelli fini gli occhi si muovevano metodicamente, osservando i pochi elementi presenti sul pavimento della stanza. Le sue scarpe da ginnastica, nuove fiammanti, appoggiate di fianco a lei. Un tavolino semovibile, sopra il quale erano posate alcune riviste. Una voluminosa scatola, appoggiata contro la parete di fondo.
“Lei mi deve aiutare” disse una voce femminile alle sue spalle.
La donna ebbe un sussulto, quasi avesse dimenticato di non essere sola lì dentro. Voltò appena il collo, fissando circospetta le mani appoggiate in grembo della figura che le aveva rivolto la parola. Le osservò per un lungo attimo, poi rivolse di nuovo lo sguardo a terra. Riprese il suo rituale, con lentezza. Le scarpe, il tavolino, la scatola, poi di nuovo daccapo.
“Non posso fare nulla se non mi parla. Io”. La voce venne interrotta da un trillo improvviso.
La donna guardò nuovamente alle sue spalle, esitante. Vide una mano premere il timer appoggiato sulla libreria, poi si voltò di scatto.
“Credo che sia ora” mormorò mettendosi seduta. Cominciò ad infilarsi le scarpe, lentamente. Ci mise un po’ ad allacciare le stringhe, un piccolo tremito alle mani le rendeva più complicata del previsto l’operazione.
“Questa è già la terza seduta, e quasi non mi ha rivolto la parola” disse la voce. “Se non farà progressi al prossimo appuntamento, sarò costretta ad interrompere la terapia”.
La donna non rispose. Prese il giubbotto, mettendoselo sotto al braccio. Teneva le spalle incassate, il capo chino: con un pallone da rugby al posto di quel capo sarebbe stato facile immaginarsela pronta a correre verso la meta. Aveva già una mano sulla maniglia quando la voce le rivolse di nuovo la parola.
“Io voglio farla stare meglio. Tutti vogliamo farla stare meglio”. Lo disse dolcemente, quasi un sussurro.
La donna alzò lo sguardo. Aprì la bocca, fissando il collo della sua interlocutrice, poi la serrò improvvisamente. Spalancò la porta, la richiuse in tutta fretta, quindi si lanciò giù dalle scale facendo due gradini alla volta. Solo una volta giunta al pianterreno riprese fiato, appoggiando le mani sulle ginocchia e chiudendo gli occhi.
Il collo della figura che si trovava nella stanza con lei le era sembrato insolitamente muscoloso.

L’aria all’esterno era fredda per una giornata di primavera inoltrata. Un lieve venticello sferzava la strada, timido rimasuglio di quello che aveva spazzato le nuvole temporalesche del mattino. Mentre percorreva il marciapiede la donna manteneva la testa bassa, sprofondata nel collo alto del giubbotto, indugiando con gli occhi su particolari che la gente comune preferiva omettere dal proprio campo visivo e perdendosi in bizzarre fantasticherie. Chi avrà lanciato quel mozzicone di sigaretta vicino alla grata di scolo? A che gusto sarà quella cicca spiaccicata sul bordo del marciapiede, ed in che lingua avrà inveito chi ha  avuto la sfortuna di calpestarla? Quale razza di cane avrà prodotto la considerevole massa di escrementi depositata vicino all’ingresso del fruttivendolo (lei puntava su un alano)? Mentre osservava i particolari e le varie sfumature del selciato evitava però accuratamente di fissare le pozzanghere, forse temendo che il riflesso di ciò che stava al di sopra della linea del proprio petto potesse nuocerle. Quasi che il cielo potesse rappresentare un funesto presagio di sventura, anche ora che le nuvole grigie avevano abbandonato la volta celeste.
Camminava fianco a fianco con una disordinata massa di pedoni, cercando di seguire l’ipnotico movimento dei loro piedi. Gli stop improvvisi agli incroci, gli scarti laterali di chi arrivava a destinazione, il ritmo diseguale e nervoso di chi si muoveva di fretta contrapposto al passo indolente di gambe più rilassate. Una danza improvvisata da una moltitudine di scarpe diverse, coreografia mutevole che alternava vorticosamente i protagonisti: il ticchettio veloce di tacchi vertiginosi e scarlatti, inconsapevolmente flirtanti con la suola piatta di larghe scarpe da skateboard, eleganti calzature lucide che evitavano con sfregio le punte consumate di anfibi neri come la notte, una galassia di fibbie, fiocchetti, stringhe multicolori e tristi lacci dai colori sobri. La donna si perse in contemplazione di quello spettacolo, un’abitudine radicatasi ormai da molti giorni, tanto che si accorse solo all’ultimo del vicolo buio presso cui doveva svoltare. Il suo passo si fece esitante mentre lo percorreva. Un lieve tremore, simile a quello delle mani mentre allacciava le stringhe, le attraversò tutto il corpo. Ferma di fronte ad un paio di gradini grigi estrasse con movimenti lenti e metodici il mazzo di chiavi, ma quando ormai aveva avvicinato la prescelta alla serratura il nervosismo la tradì, mandandole a rovinare per terra. Piegandosi a raccoglierle si irrigidì alla vista di un’ombra in avvicinamento, bloccandosi completamente quando questa si fermò di fronte a lei. Una mano apparve, raccogliendo il mazzo al posto suo, e glielo porse con un gesto gentile che strideva con la cura discutibile delle unghie.
La donna si ritrasse, emettendo una sorta di guaito. Le attraversò la mente come un lampo il pensiero che un alano non avrebbe mai reagito a quella maniera, allontanandosi ed uggiolando. Per un breve attimo avrebbe voluto essere un alano.
“Non intendevo spaventarla” disse l’ombra, mettendo di fronte ai suoi occhi un distintivo appannato. “Ho bisogno di farle alcune domande”.
“E’ successo di nuovo” aggiunse dopo qualche secondo, ed in quel momento la donna vide tutto nero.

La prima cosa che vide riprendendosi fu il soffitto. Era bianco, senza caratteristiche peculiari. Ad un buon osservatore non sarebbero sfuggite le strisce lasciate dal passaggio del rullo, durante l’imbiancatura, ma in pochi si sarebbero fissati su un particolare così insignificante. Anche lei vi fece caso solo per poco, abbandonando quella inaspettata elevazione dello sguardo per voltarsi verso il rincuorante pavimento di mattonelle beige. Chiuse per un momento gli occhi, spostando la sua concentrazione sulle piccole esplosioni di luce fra le palpebre, in attesa di riprendersi da un forte capogiro.
Erano settimane che non fissava qualcosa che stesse al di sopra del tavolo, neppure quando era da sola. Ed era quasi sempre sola. Da quando era successo…
La consapevolezza della presenza di un estraneo in casa le bloccò ogni pensiero. L’ombra doveva essere lì da qualche parte, non poteva aver raggiunto il divano da sola.
“Vedo che si è ripresa” disse una voce alle sue spalle, confermando i sospetti.
Una tazza colma di un liquido fumante venne appoggiata di fronte a lei, porta dalla stessa mano che le aveva mostrato il distintivo. “Mi sono permesso di prepararle una tisana” disse l’ombra. Le sue scarpe nere entrarono nel campo visivo della donna, alzandosi lievemente quando il corpo della figura si adagiò mollemente nella poltrona.
“La aiuterà a riprendersi” aggiunse. “Ha avuto un mancamento, forse un calo di pressione”.
Lei fissò la tazza per qualche secondo, non sapendo come reagire. La prese fra le mani con movimenti lenti e circospetti, appoggiandovi le labbra e sorseggiando il liquido bollente senza lasciar trasparire alcuna reazione. Niente paura, niente dolore, niente di niente.
La figura di fronte a lei si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. “So che è difficile per lei, ma deve aiutarci. Questa notte è successo ancora”.
Con uno sforzo atroce la donna evitò di lasciarsi prendere dai brividi. Tenne la tazza fra le mani in maniera rigida, ma nessun tremito la scosse a quella notizia.
“Aveva ventidue anni. L’hanno ritrovata in un campo ai margini della città, era scomparsa da un paio di giorni”. La voce snocciolò quelle informazioni con lentezza, mantenendo il tono basso.
Lei prese un altro sorso di tisana. “Mi spiace, non ricordo nulla”.
“Ogni particolare è importante” disse la voce. Appoggiò le mani sulle sue, quasi volesse aiutarla a sorreggere il peso esiguo della tazza. “Le scarpe che indossava. Un indumento insolito. Un’inflessione nella voce”.
“Ho tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo” disse lei, senza riuscire ad impedire alla sua voce di tremare. Ora era più difficile controllarsi, i ricordi cominciavano a fluire nella sua mente.
“Deve esserci qualcosa che può dirci. E’ importante”. Vide la mano poggiarsi sotto al suo mento.
“Dobbiamo trovarlo. Non possiamo permettere che continui ad uccidere”. La mano cominciò a fare forza, con delicatezza, mentre a lei passavano per la mente i rumori il dolore il respiro bloccato il cuore che batteva i passi che si allontanavano e la preghiera continua Diofachenontornidiofachenontornidio
“Non potevo guardare, io”. Lasciò che la mano le portasse gli occhi al livello del viso di lui, poi li sgranò contemplandogli il volto.
“Cerchi di ricordare, anche se è doloroso. Comprendo quello che ha subito, ma le altre non hanno più voce per raccontarci ciò che è successo”. C’era qualcosa nella sua voce, come una sofferenza profonda. Eppure lei vide sul suo volto un ampio sorriso, reso più inquietante dalla barba non rasata da almeno una settimana. Si passò la lingua fra le labbra con fare lascivo mentre aspettava in silenzio un suo cenno.
La tazza le cadde dalle mani, frantumandosi sul pavimento. Approfittò del rumore per divincolarsi, gettando la testa fra le ginocchia. “Se ne vada, la prego” disse fra i singhiozzi, cercando di ingoiare le lacrime senza riuscirvi.
La figura di fronte a lei si alzò con un sospiro. Sentì i suoi passi allontanarsi, la porta di casa aprirsi, poi al sua voce la raggiunse nuovamente.
“Spero davvero di non dover tornare. Che non ci siano altre donne costrette a vivere la sua stessa situazione, ma con minor fortuna”. Si dileguò, chiudendo l’uscio con delicatezza.
Lei rimase per qualche minuto a dondolarsi sul divano, le mani seppellite fra i capelli. Ad ogni secondo che passava le sue dita si infilavano con maggiore forza nel cuoio capelluto, raschiando in profondità. Ad ogni ferita che le unghie le infliggevano i suoi denti rispondevano con uno stridio inquietante, contorcendo il volto in una maschera d’odio. Cominciò a salmodiare una parola, tenendo le mandibole serrate, una litania incoerente che si fece spazio piano piano, arrivando infine a farsi spazio nel silenzio ed incuneandocisi con la sua parossistica ripetizione. “Fortuna”, diceva prendendo velocità, “fortuna fortuna fortunafortunafortunaFORTUNAFORTUNA”
“F O R T U N AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA”

Da quando era successo erano cambiate tante cose. Vedeva pochissima gente ad esempio. Aveva consultato un paio di psicologi, anche se sarebbe più giusto dire che era stata costretta a farlo, e visti i risultati presto se ne sarebbe aggiunto un terzo alla lista. Si era messa in aspettativa dal lavoro, e lei amava il suo lavoro. L’aveva amato almeno, ora non sapeva più che pensare.
Non sapeva più che pensare nemmeno dell’amore. Ogni tanto vedeva delle foto di sé sorridente, felice fra le braccia del suo uomo, poi tornava a fissare il pavimento.
Il suo mondo si era ridotto allo spazio che la divideva dal successivo passo. Non accendeva la tv, non ascoltava la radio. Temeva di sentire qualche notizia di cronaca nera, ma quelle la raggiungevano comunque, in un modo o nell’altro.
Più di tutto odiava andare a fare la spesa. Era complicato trovare ciò che le serviva guardando solo gli scaffali più bassi, evitare le altre persone fra quelle strette corsie, e spesso finiva per comprare articoli a caso pur di scappare in fretta dal supermercato. Quando l’ansia saliva oltre il livello di guardia fuggiva, solo per accorgersi che il giorno dopo avrebbe dovuto sottoporsi allo stesso stillicidio.
Anche quel giorno si avventurò oltre le porte automatiche, attraversando il tornello d’entrata, gettandosi nervosamente fra le corsie, dribblando piedi, carrelli e cestini, cercando in fretta e furia un po’ di pane salumi formaggio maionese patatine e che voglia improvvisa di fette d’ananas dove sono le fette d’ananas sciroppate il mondo sarà sicuramente un posto migliore se potrò mangiare delle fette
Inciampò nelle gambe di un bambino. Perse l’equilibrio, guardandosi cadere come al rallentatore. Le sue mani si muovevano nell’aria, delineando strane figure, cercando un appiglio inesistente. I suoni le arrivavano distorti, confusi dalla pressione costante del sangue nelle orecchie. Qualcuno veniva chiamato alla cassa numero. Una coppia doveva prendere del. Il bambino balbettava. Ora chiamava la mamma. Ora piangeva. Ora la chiamava con più forza. Riversa a terra, mentre batteva con moderata forza la nuca, lo sentì piangere. Ma non aveva una smorfia di dolore sul volto. Sorrideva.
Si accorse terrorizzata che aveva un sorriso composto da denti bianchissimi. Un’ombra di barba gli scuriva il mento e le guance. Aveva occhi feroci, occhi da predatore, occhi che promettevano dolore angoscia e vedrai che ti piacerà un sacco ora stai zitta smettila di agitarti presto sarà tutto finito sì non sentirai più niente
Le si accalcavano da tutte le parti facce sconosciute, persone accorse a consolare il piccolo, vedere cos’era successo, la madre che chiedeva come stai tesoro, il commesso le chiedeva tutto bene signorina, un ragazzo che rideva e la coppia che commentava sembra una drogata e tutti avevano le stesse stimmate uomini donne bambini tutti con quel sorriso quell’ombra di barba e gli occhi feroci e ommioddio hanno tutti la stessa faccia
HANNO TUTTI LA STESSA FACCIA.
Lei li osserva con la bocca aperta, muta, incapace di esprimere l’orrore che la attanaglia. Una mano le si avvicina, e lei vede il bagliore di un coltello. Anche se sa benissimo che non c’è un coltello. Si porta una mano al petto, verso la cicatrice visibile di una ferita molto più profonda di quanto la carne non possa testimoniare, chiude gli occhi e solo allora comincia ad urlare.
E’ un grido terribile, dolorosamente umano. E’ gravido di un dolore che non può essere espresso con le parole, perché come si può esprimere la vergogna di doverti raccontare mamma ciò che mi ha fatto quell’uomo di doverti spiegare amore che volevo solo divertirmi con delle amiche e non me la sono cercata e non mi è andata bene perché non posso più guardare in faccia nessuno senza vederlo e vorrei gridare che gravida dovevo esserlo di una vita e non di questo dolore e vorrei essere morta anch’io come le altre per non dover soffrire ogni giorno a questa maniera e rivorrei la mia a volte triste spesso noiosa meravigliosa vecchia vita dio quanto rivorrei la mia vecchia vita dio quanto rivorrei la mia vecchia vita perché nessuno merita di vivere così
NESSUNO.
Quando la sua voce si esaurisce è calato un silenzio anomalo. Solo la musica diffusa lo scalfisce. C’è una canzone triste nell’aria, ricorda di averla sentita molto tempo prima. Nel videoclip un uomo corre per la città, indicando alla gente il cielo, avvertendo le persone di una catastrofe in arrivo. Una tempesta tremenda porta via tutti, tranne lui. Alla fine vaga solo per le strade, cercando invano altri superstiti.
Sente un’analogia con la sua situazione, ma non riesce a capirla appieno. Forse non c’è nemmeno.
Ma nessuno merita di vivere così. Nessuno merita di morire così.
Ha recuperato il fiato, ma tace. Resta in silenzio ancora per un momento, nell’oscurità, si gode un’oasi di pace prima di affrontare il mondo. Ora sa che lui non può più impedirle di vivere. Che ha ancora abbastanza forza per reagire.
Sa che è lei che può impedirgli di fare nuovamente del male. Di farle continuamente del male.
Apre gli occhi. Sa cosa deve dire. Sa che lo dirà.