La donna stava sdraiata sul lettino, il volto coperto dalla folta chioma corvina. Al di sotto di quella coltre di capelli fini gli occhi si muovevano metodicamente, osservando i pochi elementi presenti sul pavimento della stanza. Le sue scarpe da ginnastica, nuove fiammanti, appoggiate di fianco a lei. Un tavolino semovibile, sopra il quale erano posate alcune riviste. Una voluminosa scatola, appoggiata contro la parete di fondo.
“Lei mi deve aiutare” disse una voce femminile alle sue spalle.
La donna ebbe un sussulto, quasi avesse dimenticato di non essere sola lì dentro. Voltò appena il collo, fissando circospetta le mani appoggiate in grembo della figura che le aveva rivolto la parola. Le osservò per un lungo attimo, poi rivolse di nuovo lo sguardo a terra. Riprese il suo rituale, con lentezza. Le scarpe, il tavolino, la scatola, poi di nuovo daccapo.
“Non posso fare nulla se non mi parla. Io”. La voce venne interrotta da un trillo improvviso.
La donna guardò nuovamente alle sue spalle, esitante. Vide una mano premere il timer appoggiato sulla libreria, poi si voltò di scatto.
“Credo che sia ora” mormorò mettendosi seduta. Cominciò ad infilarsi le scarpe, lentamente. Ci mise un po’ ad allacciare le stringhe, un piccolo tremito alle mani le rendeva più complicata del previsto l’operazione.
“Questa è già la terza seduta, e quasi non mi ha rivolto la parola” disse la voce. “Se non farà progressi al prossimo appuntamento, sarò costretta ad interrompere la terapia”.
La donna non rispose. Prese il giubbotto, mettendoselo sotto al braccio. Teneva le spalle incassate, il capo chino: con un pallone da rugby al posto di quel capo sarebbe stato facile immaginarsela pronta a correre verso la meta. Aveva già una mano sulla maniglia quando la voce le rivolse di nuovo la parola.
“Io voglio farla stare meglio. Tutti vogliamo farla stare meglio”. Lo disse dolcemente, quasi un sussurro.
La donna alzò lo sguardo. Aprì la bocca, fissando il collo della sua interlocutrice, poi la serrò improvvisamente. Spalancò la porta, la richiuse in tutta fretta, quindi si lanciò giù dalle scale facendo due gradini alla volta. Solo una volta giunta al pianterreno riprese fiato, appoggiando le mani sulle ginocchia e chiudendo gli occhi.
Il collo della figura che si trovava nella stanza con lei le era sembrato insolitamente muscoloso.
L’aria all’esterno era fredda per una giornata di primavera inoltrata. Un lieve venticello sferzava la strada, timido rimasuglio di quello che aveva spazzato le nuvole temporalesche del mattino. Mentre percorreva il marciapiede la donna manteneva la testa bassa, sprofondata nel collo alto del giubbotto, indugiando con gli occhi su particolari che la gente comune preferiva omettere dal proprio campo visivo e perdendosi in bizzarre fantasticherie. Chi avrà lanciato quel mozzicone di sigaretta vicino alla grata di scolo? A che gusto sarà quella cicca spiaccicata sul bordo del marciapiede, ed in che lingua avrà inveito chi ha avuto la sfortuna di calpestarla? Quale razza di cane avrà prodotto la considerevole massa di escrementi depositata vicino all’ingresso del fruttivendolo (lei puntava su un alano)? Mentre osservava i particolari e le varie sfumature del selciato evitava però accuratamente di fissare le pozzanghere, forse temendo che il riflesso di ciò che stava al di sopra della linea del proprio petto potesse nuocerle. Quasi che il cielo potesse rappresentare un funesto presagio di sventura, anche ora che le nuvole grigie avevano abbandonato la volta celeste.
Camminava fianco a fianco con una disordinata massa di pedoni, cercando di seguire l’ipnotico movimento dei loro piedi. Gli stop improvvisi agli incroci, gli scarti laterali di chi arrivava a destinazione, il ritmo diseguale e nervoso di chi si muoveva di fretta contrapposto al passo indolente di gambe più rilassate. Una danza improvvisata da una moltitudine di scarpe diverse, coreografia mutevole che alternava vorticosamente i protagonisti: il ticchettio veloce di tacchi vertiginosi e scarlatti, inconsapevolmente flirtanti con la suola piatta di larghe scarpe da skateboard, eleganti calzature lucide che evitavano con sfregio le punte consumate di anfibi neri come la notte, una galassia di fibbie, fiocchetti, stringhe multicolori e tristi lacci dai colori sobri. La donna si perse in contemplazione di quello spettacolo, un’abitudine radicatasi ormai da molti giorni, tanto che si accorse solo all’ultimo del vicolo buio presso cui doveva svoltare. Il suo passo si fece esitante mentre lo percorreva. Un lieve tremore, simile a quello delle mani mentre allacciava le stringhe, le attraversò tutto il corpo. Ferma di fronte ad un paio di gradini grigi estrasse con movimenti lenti e metodici il mazzo di chiavi, ma quando ormai aveva avvicinato la prescelta alla serratura il nervosismo la tradì, mandandole a rovinare per terra. Piegandosi a raccoglierle si irrigidì alla vista di un’ombra in avvicinamento, bloccandosi completamente quando questa si fermò di fronte a lei. Una mano apparve, raccogliendo il mazzo al posto suo, e glielo porse con un gesto gentile che strideva con la cura discutibile delle unghie.
La donna si ritrasse, emettendo una sorta di guaito. Le attraversò la mente come un lampo il pensiero che un alano non avrebbe mai reagito a quella maniera, allontanandosi ed uggiolando. Per un breve attimo avrebbe voluto essere un alano.
“Non intendevo spaventarla” disse l’ombra, mettendo di fronte ai suoi occhi un distintivo appannato. “Ho bisogno di farle alcune domande”.
“E’ successo di nuovo” aggiunse dopo qualche secondo, ed in quel momento la donna vide tutto nero.
La prima cosa che vide riprendendosi fu il soffitto. Era bianco, senza caratteristiche peculiari. Ad un buon osservatore non sarebbero sfuggite le strisce lasciate dal passaggio del rullo, durante l’imbiancatura, ma in pochi si sarebbero fissati su un particolare così insignificante. Anche lei vi fece caso solo per poco, abbandonando quella inaspettata elevazione dello sguardo per voltarsi verso il rincuorante pavimento di mattonelle beige. Chiuse per un momento gli occhi, spostando la sua concentrazione sulle piccole esplosioni di luce fra le palpebre, in attesa di riprendersi da un forte capogiro.
Erano settimane che non fissava qualcosa che stesse al di sopra del tavolo, neppure quando era da sola. Ed era quasi sempre sola. Da quando era successo…
La consapevolezza della presenza di un estraneo in casa le bloccò ogni pensiero. L’ombra doveva essere lì da qualche parte, non poteva aver raggiunto il divano da sola.
“Vedo che si è ripresa” disse una voce alle sue spalle, confermando i sospetti.
Una tazza colma di un liquido fumante venne appoggiata di fronte a lei, porta dalla stessa mano che le aveva mostrato il distintivo. “Mi sono permesso di prepararle una tisana” disse l’ombra. Le sue scarpe nere entrarono nel campo visivo della donna, alzandosi lievemente quando il corpo della figura si adagiò mollemente nella poltrona.
“La aiuterà a riprendersi” aggiunse. “Ha avuto un mancamento, forse un calo di pressione”.
Lei fissò la tazza per qualche secondo, non sapendo come reagire. La prese fra le mani con movimenti lenti e circospetti, appoggiandovi le labbra e sorseggiando il liquido bollente senza lasciar trasparire alcuna reazione. Niente paura, niente dolore, niente di niente.
La figura di fronte a lei si sporse in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. “So che è difficile per lei, ma deve aiutarci. Questa notte è successo ancora”.
Con uno sforzo atroce la donna evitò di lasciarsi prendere dai brividi. Tenne la tazza fra le mani in maniera rigida, ma nessun tremito la scosse a quella notizia.
“Aveva ventidue anni. L’hanno ritrovata in un campo ai margini della città, era scomparsa da un paio di giorni”. La voce snocciolò quelle informazioni con lentezza, mantenendo il tono basso.
Lei prese un altro sorso di tisana. “Mi spiace, non ricordo nulla”.
“Ogni particolare è importante” disse la voce. Appoggiò le mani sulle sue, quasi volesse aiutarla a sorreggere il peso esiguo della tazza. “Le scarpe che indossava. Un indumento insolito. Un’inflessione nella voce”.
“Ho tenuto gli occhi chiusi tutto il tempo” disse lei, senza riuscire ad impedire alla sua voce di tremare. Ora era più difficile controllarsi, i ricordi cominciavano a fluire nella sua mente.
“Deve esserci qualcosa che può dirci. E’ importante”. Vide la mano poggiarsi sotto al suo mento.
“Dobbiamo trovarlo. Non possiamo permettere che continui ad uccidere”. La mano cominciò a fare forza, con delicatezza, mentre a lei passavano per la mente i rumori il dolore il respiro bloccato il cuore che batteva i passi che si allontanavano e la preghiera continua Diofachenontornidiofachenontornidio
“Non potevo guardare, io”. Lasciò che la mano le portasse gli occhi al livello del viso di lui, poi li sgranò contemplandogli il volto.
“Cerchi di ricordare, anche se è doloroso. Comprendo quello che ha subito, ma le altre non hanno più voce per raccontarci ciò che è successo”. C’era qualcosa nella sua voce, come una sofferenza profonda. Eppure lei vide sul suo volto un ampio sorriso, reso più inquietante dalla barba non rasata da almeno una settimana. Si passò la lingua fra le labbra con fare lascivo mentre aspettava in silenzio un suo cenno.
La tazza le cadde dalle mani, frantumandosi sul pavimento. Approfittò del rumore per divincolarsi, gettando la testa fra le ginocchia. “Se ne vada, la prego” disse fra i singhiozzi, cercando di ingoiare le lacrime senza riuscirvi.
La figura di fronte a lei si alzò con un sospiro. Sentì i suoi passi allontanarsi, la porta di casa aprirsi, poi al sua voce la raggiunse nuovamente.
“Spero davvero di non dover tornare. Che non ci siano altre donne costrette a vivere la sua stessa situazione, ma con minor fortuna”. Si dileguò, chiudendo l’uscio con delicatezza.
Lei rimase per qualche minuto a dondolarsi sul divano, le mani seppellite fra i capelli. Ad ogni secondo che passava le sue dita si infilavano con maggiore forza nel cuoio capelluto, raschiando in profondità. Ad ogni ferita che le unghie le infliggevano i suoi denti rispondevano con uno stridio inquietante, contorcendo il volto in una maschera d’odio. Cominciò a salmodiare una parola, tenendo le mandibole serrate, una litania incoerente che si fece spazio piano piano, arrivando infine a farsi spazio nel silenzio ed incuneandocisi con la sua parossistica ripetizione. “Fortuna”, diceva prendendo velocità, “fortuna fortuna fortunafortunafortunaFORTUNAFORTUNA”
“F O R T U N AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA”
Da quando era successo erano cambiate tante cose. Vedeva pochissima gente ad esempio. Aveva consultato un paio di psicologi, anche se sarebbe più giusto dire che era stata costretta a farlo, e visti i risultati presto se ne sarebbe aggiunto un terzo alla lista. Si era messa in aspettativa dal lavoro, e lei amava il suo lavoro. L’aveva amato almeno, ora non sapeva più che pensare.
Non sapeva più che pensare nemmeno dell’amore. Ogni tanto vedeva delle foto di sé sorridente, felice fra le braccia del suo uomo, poi tornava a fissare il pavimento.
Il suo mondo si era ridotto allo spazio che la divideva dal successivo passo. Non accendeva la tv, non ascoltava la radio. Temeva di sentire qualche notizia di cronaca nera, ma quelle la raggiungevano comunque, in un modo o nell’altro.
Più di tutto odiava andare a fare la spesa. Era complicato trovare ciò che le serviva guardando solo gli scaffali più bassi, evitare le altre persone fra quelle strette corsie, e spesso finiva per comprare articoli a caso pur di scappare in fretta dal supermercato. Quando l’ansia saliva oltre il livello di guardia fuggiva, solo per accorgersi che il giorno dopo avrebbe dovuto sottoporsi allo stesso stillicidio.
Anche quel giorno si avventurò oltre le porte automatiche, attraversando il tornello d’entrata, gettandosi nervosamente fra le corsie, dribblando piedi, carrelli e cestini, cercando in fretta e furia un po’ di pane salumi formaggio maionese patatine e che voglia improvvisa di fette d’ananas dove sono le fette d’ananas sciroppate il mondo sarà sicuramente un posto migliore se potrò mangiare delle fette
Inciampò nelle gambe di un bambino. Perse l’equilibrio, guardandosi cadere come al rallentatore. Le sue mani si muovevano nell’aria, delineando strane figure, cercando un appiglio inesistente. I suoni le arrivavano distorti, confusi dalla pressione costante del sangue nelle orecchie. Qualcuno veniva chiamato alla cassa numero. Una coppia doveva prendere del. Il bambino balbettava. Ora chiamava la mamma. Ora piangeva. Ora la chiamava con più forza. Riversa a terra, mentre batteva con moderata forza la nuca, lo sentì piangere. Ma non aveva una smorfia di dolore sul volto. Sorrideva.
Si accorse terrorizzata che aveva un sorriso composto da denti bianchissimi. Un’ombra di barba gli scuriva il mento e le guance. Aveva occhi feroci, occhi da predatore, occhi che promettevano dolore angoscia e vedrai che ti piacerà un sacco ora stai zitta smettila di agitarti presto sarà tutto finito sì non sentirai più niente
Le si accalcavano da tutte le parti facce sconosciute, persone accorse a consolare il piccolo, vedere cos’era successo, la madre che chiedeva come stai tesoro, il commesso le chiedeva tutto bene signorina, un ragazzo che rideva e la coppia che commentava sembra una drogata e tutti avevano le stesse stimmate uomini donne bambini tutti con quel sorriso quell’ombra di barba e gli occhi feroci e ommioddio hanno tutti la stessa faccia
HANNO TUTTI LA STESSA FACCIA.
Lei li osserva con la bocca aperta, muta, incapace di esprimere l’orrore che la attanaglia. Una mano le si avvicina, e lei vede il bagliore di un coltello. Anche se sa benissimo che non c’è un coltello. Si porta una mano al petto, verso la cicatrice visibile di una ferita molto più profonda di quanto la carne non possa testimoniare, chiude gli occhi e solo allora comincia ad urlare.
E’ un grido terribile, dolorosamente umano. E’ gravido di un dolore che non può essere espresso con le parole, perché come si può esprimere la vergogna di doverti raccontare mamma ciò che mi ha fatto quell’uomo di doverti spiegare amore che volevo solo divertirmi con delle amiche e non me la sono cercata e non mi è andata bene perché non posso più guardare in faccia nessuno senza vederlo e vorrei gridare che gravida dovevo esserlo di una vita e non di questo dolore e vorrei essere morta anch’io come le altre per non dover soffrire ogni giorno a questa maniera e rivorrei la mia a volte triste spesso noiosa meravigliosa vecchia vita dio quanto rivorrei la mia vecchia vita dio quanto rivorrei la mia vecchia vita perché nessuno merita di vivere così
NESSUNO.
Quando la sua voce si esaurisce è calato un silenzio anomalo. Solo la musica diffusa lo scalfisce. C’è una canzone triste nell’aria, ricorda di averla sentita molto tempo prima. Nel videoclip un uomo corre per la città, indicando alla gente il cielo, avvertendo le persone di una catastrofe in arrivo. Una tempesta tremenda porta via tutti, tranne lui. Alla fine vaga solo per le strade, cercando invano altri superstiti.
Sente un’analogia con la sua situazione, ma non riesce a capirla appieno. Forse non c’è nemmeno.
Ma nessuno merita di vivere così. Nessuno merita di morire così.
Ha recuperato il fiato, ma tace. Resta in silenzio ancora per un momento, nell’oscurità, si gode un’oasi di pace prima di affrontare il mondo. Ora sa che lui non può più impedirle di vivere. Che ha ancora abbastanza forza per reagire.
Sa che è lei che può impedirgli di fare nuovamente del male. Di farle continuamente del male.
Apre gli occhi. Sa cosa deve dire. Sa che lo dirà.
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