venerdì 29 giugno 2018

Loretta Stingone - Respiro

Mi siedo a guardare l’orizzonte
dietro l’ombra di nuvola stanca arrivo fino a te

Nel crepuscolo ancora vivo
sento un fremito

Sono io

L’anima inquieta protesa tocca l’infinito
forse il mio cuore si vuole raccontare

In un fiume lontano gioco tra le rapide
rincorro l’onda e il respiro di un tempo che non ho
gioia e poi la quiete

In un lampo di vita passi tu
immagine mia riflessa
cuore indomito

Come l’acqua
ti sento
scorri lentamente dentro me
ma scivola la mia mano
che ora chiusa
non ha te

Sara De Pieri - Jack Senzacuore

Jack lo chiamavano Senzacuore perché lo aveva perso in un pomeriggio caldo, quando non aveva ancora tutti i peli al loro posto, Jack lo chiamavano Senzacuore perché quando ti guardava ti chiedevi se ci fosse vita dietro quegli occhi neri, Jack lo chiamavano Senzacuore perché a lui piaceva farsi chiamare così e solo un'idiota lo avrebbe contraddetto.
Un giorno Jack si era perso per una scommessa e aveva finito per accettare un incarico che gli avrebbe rovinato la vita, ma in quel momento lui non lo sapeva ancora e poi cosa c'era tanto da rovinare?
Era seduto al bancone del bar e un tizio, uno che conosceva più o meno da vent'anni e più o meno da qualche minuto, gli disse: “senti Jack facciamo così, se mi porto nel retro Giulia tu fai una cosa per me, se ci riesci tu puoi chiedermi quello che vuoi”.
A Jack non fregava un cazzo di nulla, si stava annoiando da una vita e perse la scommessa solo per vedere dove Tizio volesse andare a parare.
“Allora Jack, ci sono due bambocci al porto, sono venuti qui per vedere com'è la vita vera e pensavo di mostrargliela, tu che dici?”
L'alcool aveva sempre un effetto un po' strano sul nostro cowboy e mentre Tizio gli spiegava nei dettagli il piano del rapimento, lui si mise a ragionare su cosa fosse la vita vera, su cosa fosse la vita in generale e soprattutto se ci fosse qualcosa di vero in tutto quel pandemonio.
Meglio la sbronza cattiva dico io, ci saremmo risparmiati tutto sto casino.
Il giovedì alle dieci il mare era piatto, le reti erano da sistemare e mentre azzannavo il mio solito panino con le aringhe vidi Jack che se ne stava sul pontile con un vestito troppo largo per essere suo e troppo blu per aver visto il nostro sole per più di due ore, “Mi hanno detto che cercavate una guida" allungò una stretta di mano secca e decisa "qui intorno non ne esistono altre, a giornata prendo 50 ma sono compresi gli spostamenti con il mio mezzo”. Per quelli là erano quattro spicci e prezzi più bassi sarebbero stati sospetti, uno dei due bambocci, quello più delicato e con i capelli da femmina, sorrise all'altro, disse che gli sembrava un po' troppo ma cacciò fuori senza esitare i 50.
Dalla barca uscì una donna alta, con poche curve e un fascino nervoso, una di quelle che vorresti salvare dal mondo ma che finiscono per spolparti l'anima. “Mi sono unita all'ultimo, spero non sia un problema, soffocavo in albergo e ho sempre odiato le spiagge affollate. Piacere Aurora” spense la sigaretta a terra e porse la mano a Jack. Se Jack fosse stato uno di quegli uomini trasparenti, uno di quelli che la moglie li becca la sera anche se hanno solo guardato una donna al mattino, se fosse stato un uomo qualunque, di quelli che non sanno mentire se tornano con l'alito di birra, il piano sarebbe finito lì. Senzacuore però non mostrava più sentimenti del masso che dominava sul paese, e se so che quell'aggiunta imprevista gli aveva morso le budella è solo perché so come è andata a finire.
Jack non sapeva che cazzo fare, lui doveva solo occuparsi del trasporto e recitare una piccola parte mentre Tizio e Caio prelevavano i due bambocci dalla macchina. Una persona in più complicava le manovre.
Per prima cosa quella sembrava una che non regge la vista di un ragno, figurati stare in un deposito sotterraneo, era capace che iniziava a fare scenate isteriche ledendo i nervi di Tizio e le orecchie di Senzacuore.
Poi chi era? I suoi potevano sborsare qualcosa? E se c'aveva il ciclo? E quei tizi non sembravano proprio affidabili, era il caso di chiuderli insieme?
“Chiamo i proprietari della chiesa, che di sti tempi non è che la lasciano sempre aperta”
Tizio rispose al terzo squillo, “Che cazzo c'è Jack?” “ Stiamo partendo, c'è na tipa in più!” “ come una tipa in più? E chi diavolo è? ma che aspetto ha? Sembra una con la grana?” Jack si voltò a guardare Aurora -una che indossa un vestito bianco lungo per una gita tra la terra rossa sicuro c'ha la grana, quella pelle fine poi, non avrà manco mai lavato un piatto in vita sua- “c'ha la grana sicuro” “eh vabbeh, meglio, ci arrangiamo noi, tu non ci pensare”.
Arrivati a un chilometro e mezzo dalla chiesa la macchina si arrestò improvvisamente, Jack fece finta di scendere a controllare, Tizio e Caio lo colpirono, poi si occuparono dei bambocci e della tipa. Jack si svegliò in macchina “vaffanculo, c'ho mal di testa ora”, “eh dai, scusa mi sono fatto prendere la mano” Caio rispose con un sorriso da pugni, il dente in meno suggeriva che lo aveva usato troppo spesso.
Al deposito Jack si sedette comodo nella zona meno umida, ripassando la sua parte mentre bambocci e Aurora erano ancora fuori gioco, Tizio e Caio non li avevano legati, la porta aveva una finestrella per il cibo e si sarebbero arrangiati così.
Al risveglio i bambocci andarono in panico, iniziarono ad urlare, se la presero con Jack e lo strapazzarono un po’, Jack avrebbe potuto spaccar loro la testa contro il muro, ma poi tutto quel casino non avrebbe avuto senso, quindi si rimise seduto ad aspettare il risveglio di Aurora.
Quando Aurora si riprese reagì in maniera strana, si guardò attorno confusa, mormorò qualche parolaccia e poi rimase a guardare il pavimento con espressione annoiata per quelle che sembrarono ore. Ogni tanto i bambocci le chiedevano se stesse bene, o urlavano a Tizio e Caio di liberarli, che c’era una donna lì! ma era evidente che ad Aurora non fregasse nulla di tutto quello che stava succedendo e che erano loro ad essere terrorizzati.
Al calare del sole Tizio e Caio calarono una cassetta di plastica con dentro 4 panini, Aurora rimase lì senza neppure fare cenno di alzarsi, i bambocci le chiesero se per caso non avesse fame e si presero anche il suo panino.
Jack si alzò, lo strappò di mano a capellidafemmina e lo porse ad Aurora, “non ho fame”, "non è per te è che quei due non se lo meritano mica”, Aurora diede un morso e Jack le si sedette accanto. “Ma tutta sta situazione non ti manda in palla?" “Di cosa stai parlando?" "Dello scantinato, del rapimento, dell’essere qui con tre coglioni” “Ah, quello, meglio dei bambini urlanti in spiaggia comunque”
Jack non si interessava ad un altro essere umano dal giorno in cui era diventato Senzacuore eppure Aurora non gli sembrava esattamente un essere umano, più un problema su due gambe o una grossa nuvola nera, “ma che cazzo c’hai?”
Aurora iniziò a parlare tranquillamente, come se non ci fosse fretta o pericolo, raccontò del buco nello stomaco che aveva da così tanto da non ricordarsi neppure bene quando era iniziato, e parlò della corazza che le stringeva il petto, di tutti quegli stronzi che parlavano e si muovevano e ridevano e gridavano come se non fosse tutto estremamente insignificante, parlò della sua vacanza al mare che era un po’ come portarsi dietro un masso e sperare che si sciolga al sole, parlò di un sacco di relazioni finite e del fatto che non capisse neppure molto bene cosa volesse dire la parola amore, “alla fine questo scantinato è la cosa migliore che potesse capitarmi, qui non devo fingere nulla e se finisce male almeno non avrò dovuto impegnarmi troppo”.
Jack era un po’ stordito da quel casino di informazioni, la tipa gli sembrava un po’ stordita e decisamente troppo incasinata, ma dopo anni gli venne voglia di raccontare la storia di quel giorno in cui aveva perso il cuore, e da lì il vuoto, le cazzate che aveva fatto senza rendersene conto. 
I due bambocci continuavano a frignare mentre la notte proseguiva e quasi Tizio e Caio credettero di sentir ridere nello scantinato “manco un giorno giù e stanno già fuori, che dici vado a colpirli di nuovo?” “ma che cazzo te ne frega, siamo in mezzo al nulla e i parenti stanno già cercando la grana, non fare stronzate”.
Al mattino Jack era stanchissimo e non sapeva che pesci pigliare, da una parte voleva levarsi dai casini il prima possibile dall'altra sentiva già la noia di tutti i giorni che gli alitava sul collo.
Aurora gli era entrata in testa e aveva bisogno di capire bene cosa fare delle carte che aveva in mano.
L'idea di lasciarla lì con i bambocci non gli piaceva affatto e stava già pensando ad una soluzione per tirarla fuori dall'impiccio, in tarda mattinata Tizio e Caio lo avrebbero liberato, ora doveva solo decidere se trascinare Aurora con sé, parlare con Tizio e Caio o combinare un finimondo.
Aurora sembrava dormire, ma aveva un sonno così leggero che le palpebre le si chiudevano a malapena, un  raggio insistente proveniente da una finestrella in alto la convinse definitivamente a tirarsi su, si mise a fissare il vuoto e continuò a non toccare il cibo a fianco a lei che presto sarebbe diventato pranzo per formiche e insetti vari.
"Quella mi crepa qui se la lascio fare" pensò Jack.
Le si avvicinò, i bambocci stavano ancora dormendo per tutte le energie che avevano speso frignando la sera prima, "senti, ho da dirti una cosa", le spiegò la storia del rapimento per filo e per segno.
Alla fine del riassunto Aurora lo guardò innervosita " dovevi proprio dirmelo? Potevo stare qui, lasciare passare le ore e magari i casini che mi affollano la mente o che ne so provare a vedere se da qualche parte dentro di me esiste un minimo di istinto di sopravvivenza... ora invece mi sento responsabile anche per quei due, appena uscita da qui dovrò tirare fuori anche loro e poi mi toccherà tornare in spiaggia, in mezzo ai bambini..." " Senti fa' quello che vuoi" "va beh, qual è il piano?"
Quando Tizio e Caio, passato un po' il post sbronza, aprirono la porta per fare uscire Jack si guardarono attorno, videro i bambocci ancora distesi ma nessuna traccia della bambola. "Dov'è la Gattamorta, Jack?". "Non lo so, mi sono svegliato e non l'ho vista".
Caio si guardò attorno poi fece qualche passo all'interno dello scantinato, sentì un dolore forte alla testa, poi vide nero mentre il suo corpo rotolava giù dalle scale. Tizio si beccò un pugno in faccia, quello che si meritava da una vita e poi parecchi altri. Aurora e Jack presero le chiavi a Tizio e si diressero verso la macchina, Aurora prese il posto alla guida, alla vista delle prime case si fermò e abbandonò Jack per la strada, "ti conviene sparire in fretta" e accelerò verso il paese. "Ma guarda sta stronza!" Jack guardò la macchina allontanarsi, poi sorridendo si incamminò verso la rimessa delle barche.
Qualche giorno dopo, mentre mia moglie si lamentava in cucina perché mi ero fatto fregare la barca, Aurora era con i due bambocci al telegiornale, sembrava una dea fragile ma i suoi occhi puntavano dritti la telecamera, parlò della fame, della sete, di come si era liberata da sola e di come aveva liberato gli altri, parlò di tutto meno che di Jack.
Jack era diventato il fantasma nella nostra storia, Aurora non lo nominava neppure, mentre i due sbraitavano che era complice e andava catturato. L'intervistatore fece la solita ultima domanda da domande finite, "la sua vicenda è stata drammatica, vuole aggiungere qualcos'altro?" "Corri più veloce della noia Senzacuore!"
Jack lo chiamavano Senzacuore perché lo aveva regalato in una notte umida, quando le rughe gli segnavano già il volto e aveva una fame della miseria, Jack lo chiamavano Senzacuore perché quando guardava il mare dalla nave sembrava non stesse guardando nulla, Jack lo chiamavano Senzacuore perché nessuno riusciva a scoprire il suo vero nome.

Stefano Mascella - Resistenza!

«Resistenza o Rivoluzione?»
Erano anni che non sentivo quelle due parole, mai mi sarei aspettato che le potesse pronunciare mia figlia. Si chiama Adelina e tra poco compirà 18 anni.
Adelina è un nome da vecchia, così ci ha sempre rimproverato lei per averglielo messo. Ma nella famiglia di Fiorenza, la madre, resiste la tradizione di alternare questi due nomi femminili tra le generazioni. Io avrei optato per una rivoluzione, ma Fiorenza neanche a parlarne. Così Adelina, sin dalla prima età della ragione, ha sempre preferito farsi chiamare “Deli”.
La guardo un po’ fiero e un po’ preoccupato. Finché la resistenza e la rivoluzione le facciamo noi, magari solo a parole, va tutto bene, ma dai figli non la si gradisce.
«In che senso?» Le lancio uno sguardo dubbioso. Lei capisce al volo e si mette a ridere.
«Ma no, papà, tranquillo. Dicevo per la tesina della maturità.»
Ecco, adesso le parole resistenza e rivoluzione tornano a piacermi. La cosa mi garba ma mi mette anche un po’ di tristezza.
Adelina quest’anno farà la maturità, l’ultima in cui ci sarà da portare una tesina. Dall’anno successivo le cose saranno diverse e invece della tesina si considererà la famigerata alternanza scuola-lavoro. Segno dei tempi che cambiano.
«Deli, forse è un po’ presto per pensarci no? Sei appena a inizio anno.»
«Beh no. Devo concordare con i professori l’argomento e va deciso entro fine mese..»
Resistenza o Rivoluzione allora? Quand’ero ragazzo io, i due concetti erano terra fertile per le battaglie politiche. E per le manganellate della polizia.
«Non saranno tematiche un po’ antiquate?» le dico dubbioso.
«Anche il liceo classico è antiquato?» E ride di nuovo.
«Beh, no…» e rimpiango di aver usato quel termine.
In fin dei conti nessun concetto è antiquato, basta saperlo rileggere con gli occhi della Storia.
«Sai Deli,» riprendo «è solo che gli esseri umani non imparano mai.» Ma mi accorgo che sto per dire una cosa che non è quella che lei voleva. «Ma sì, dai. Sono due argomenti interessanti e puoi agganciarci tante materie.»
«Solo che non volevo essere banale. Non è che siano due tematiche troppo inflazionate?»
«Ma no. Basta non limitarsi ai primi argomenti che ti vengono in mente.» Penso alle Rivoluzioni più famose della Storia, quelle che si studiano a fine liceo. Lasciando perdere le Rivoluzioni americane e francesi, che sono nel programma del quarto anno, quelle dell’ottocento e del novecento sono parecchie. Cerco di pensare a qualcosa di non troppo trito e ritrito e mi viene in mente la Resistenza degli indiani nord-americani.
«Sai cos’è un potlatch?» Le chiedo.
«Aspetta un attimo…»
Le arriva un messaggio sullo smartphone, oggi i ragazzi usano Telegram, io ancora Whatsapp. La vedo digitare velocissima coi pollici. La rivoluzione digitale, penso.
Faccio l’avvocato, ho un piccolo studio. La mia passione per i diritti delle persone si è trasformata in un corso di studi in Giurisprudenza. Volevo fare il giudice. Ma poi il concorso per la magistratura non è andato e allora, di ripiego, mi sono messo a fare l’avvocato spinto dall’idealismo di difendere i più deboli.
«Dicevi?» mi fa lei.
«Un potlatch. Sai cos’è?»
«No.»
«È un antico rito degli indiani d’America.»
«Tipo stregoneria o cose cosi?»
«No. Beh sì, anche. Ma non solo stregoneria. Era una specie di festa popolare.»
«E c’entra qualcosa con la Resistenza e la Rivoluzione?»
Ci penso un po’ su.
«In un certo senso sì. Non volevi essere banale, vero Deli?» Le sorrido.
«Dimmi, allora.»
«Dunque, il potlatch è una cerimonia che si svolge presso alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico. Si tratta di un rito che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone: La cosa importante è che in un potlatch vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati di prestigio. Un po’ come se tu spaccassi il tuo i-phone…» Sono già pentito dell’esempio, Adelina mi aveva già chiesto di comprarle il nuovo modello ma io avevo opposto “resistenza”.
«È una cosa stupida» mi fa.
A me scappa un sospiro di sollievo ma cerco di non darlo a vedere.
«È quello che a noi occidentali sembra. E forse lo è.»
«Ma a che serve distruggere una cosa di valore? E che c’entra con la Rivoluzione.»
«Serve a ostentare ricchezza. Se tu spacchi il tuo i-phone è perché sei ricca. Vuoi impressionare i tuoi amici.» E mi pento di nuovo.
«Non lo farei mai! Mi prenderebbero per pazza!»
«Giusto» e ringrazio il cielo per il suo buon senso. «Oggi è come dici tu. Ma quel rito è, in qualche modo, simile a tanti riti presenti in altre culture. Pensa per esempio all’ostentazione dei pranzi di nozze italiani. Almeno fino a pochi anni fa, più si era in condizioni economiche difficili, più si voleva esagerare con lo sfarzo. Con lo spreco.»
«Ma lo si fa ancora.» aggiunge lei. «Hai presente quel programma televisivo, “Quattro Matrimoni in Italia”?»
«No.»
«Vabbè non importa. Ma non capisco cosa c’entri la Resistenza, né tantomeno la Rivoluzione.»
«Beh Deli, devi sapere che i pothlach sono stati dichiarati illegali in Canada e negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo principalmente a causa della pressione dei missionari e dei governativi che la consideravano "un'abitudine più che inutile", sostenendo che fosse dispendiosa, improduttiva e contraria all’etica del lavoro e ai valori delle società americane e canadesi. Nonostante il divieto, la pratica del potlatch ha continuato a esistere illegalmente per anni. Molti Nativi Indiani d’America hanno mandato petizioni al governo perché rimuovesse la legge che però non è mai stata abolita, anche se nel XX secolo l'opposizione al potlatch si è notevolmente affievolita.»
«Quindi in un certo senso hanno opposto una Resistenza?»
«Già.»
«Papà, d’accordo che è stata fatta una legge stupida, però in fondo distruggere le proprie cose è una sciocchezza.»
«A noi sembra così. Ma nella loro cultura, serve a stipulare alleanze o a rinforzare le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi. In quei riti non è solo importante la distruzione dei beni ma anche e soprattutto lo scambio di doni. Attraverso il potlatch si fa gara a distruggere beni di valore per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso si fosse perso. Infatti, al contrario dei sistemi economici mercantilistici come il nostro, nel potlatch l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita. È questo che il governo osteggiava. Benché il dono sia un tipo di scambio ampiamente praticato in tutto il pianeta (per esempio noi paghiamo da bere agli amici, o pensa anche ai regali di Natale), il potlatch è l'esempio maggiormente conosciuto di questo fenomeno.»
«Capisco… Era una pratica che dava fastidio al sistema capitalistico nascente. Soprattutto è evidente che donare è molto meno redditizio che vendere…»
È intelligente Adelina. Ha colto il punto principale.
«Brava Deli. È proprio così. Certo, non puoi fare una tesina solo sul pothlatch, ma citarlo e rivelarne tutte le implicazioni, culturali, sociali e economiche ti farà fare bella figura.»
Adelina rimane in silenzio. La vedo di nuovo armeggiare sul telefono, sembra distratta. Invece non lo è.
«Eppure papà, sarebbe bello vivere in una civiltà basata sul dono invece che sul capitalismo. Perché quando si fa un dono, sincero, ci si sente felici.» Mi guarda con occhi interrogativi, ci tiene a sapere come la penso. Spesso i figli testano i genitori.
«Sì sarebbe bello. Meno pratico ma bello.»
«Certo. Non tutti i doni ci piacerebbero o ci sarebbero utili ma forse il dono non è tanto ricevere l’oggetto in sé quanto ricevere il pensiero dell’altro. E la sua felicità.» Non avrei saputo esprimermi con parole migliori delle sue.
«Beh sai, ci sono civiltà che hanno provato a basare la loro economia sul dono. Per esempio a scuola ci insegnano che quando ancora non esisteva il denaro il sistema di scambio utilizzato era quello del baratto. Ma forse non era sempre così. Mi piace pensare che il baratto fosse una pratica meno importante del dono. E potrebbe pure essere, no?»
«Sì forse. Anche se a pensarci bene pure basarsi solo sul dono potrebbe essere asfissiante. Perché poi i doni vanno ricambiati, in un certo senso si crea un obbligo. Forse bisognerebbe continuare a usare il denaro ma donare di più. Anche riciclando. Per esempio, nonna Adelina mi ha regalato una cornice di vetro che non si può guardare. Te la posso dare a te?» E ride.
«Certo! Si capisce quando una cosa viene fatta col cuore…» E rido anch’io. «Allora, per la tua tesina?»
«Ok, mi hai convinto. Resistenza. E citerò il potlatch.»
Fare l’avvocato civilista mi ha fatto scoprire molte meschinità umane. Le cause civili sono terribili, quelle in cui si scatena il peggio dei nostri istinti. Ne ho viste di tutti i colori, da agricoltori che si citavano per una differenza minima di confini, da coniugi che si facevano la guerra per un mobile, da fratelli che finivano per odiarsi per un orologio lasciato in eredità all’uno piuttosto che all’altro. Tutto, o quasi tutto, per la proprietà. Quando ho raggiunto il limite della tollerabilità, ho pensato che stavo sprecando la mia vita. Così mi sono dirottato, gradualmente, verso un ramo del diritto che tutela davvero i più deboli: i minori. Questa è l’unica Rivoluzione che sono stato orgoglioso di aver fatto nel mio privato.
«Sai, le culture tradizionali, specie quelle locali, sono sempre insidiate da quelle dominanti. E non è detto che delle civiltà minori tutto sia lecito. Per esempio» e qui mi sono rifatto alla mia esperienza giuridica «quando a farne le spese sono i bambini. Però schiacciare queste culture ad armi impari è una bella vigliaccata, no?»
«Gli esseri umani sono così» mi fa. E io noto una certa forma di rassegnazione nelle sue parole che alla sua età io non avevo. Forse è solo consapevolezza. «Sai cosa ti dico, papà? Che avere la pancia piena è una bella cosa, ma svuota un po’ la testa.»
La guardo con tenerezza e orgoglio, sono sicuro che la sua non è vuota per nulla.
«Sai, spesso rifletto su tutte le cose che abbiano. Sinceramente sono troppe. Magari per i nonni o anche per voi accumulare era importante. Eravate impegnati a pensare a tutto quello che non avevate. Ed effettivamente vi mancavano tante cose. Ma a un certo punto uno dovrebbe guardarsi allo specchio e capire che riempiendosi le tasche non ci si sente meglio. Anzi, le tasche talvolta diventano voragini che inghiottono tutto e bisogna riempirle sempre di più, sempre di più…»
Certe volte noi adulti siamo sfiduciati sui giovani, ma credo che ci sbagliamo.
«Io invece voglio avere di meno ed essere di più. Non so, potrebbe essere questa la nostra nuova Rivoluzione. Una rivoluzione finalmente pacifica.»
«Sei in gamba Adelina. Ok, la tua idea di Rivoluzione mi piace. Adesso prova a immaginare una tua forma di Resistenza e ad applicarla.»
Aspetto una sua risposta ma lei se ne resta in silenzio.
«Qualunque cosa ti venga in mente Adelina, qualunque cosa che non ti va, devi resisterle.»
Niente, ancora silenzio.
«Beh non ti viene in mente nulla?»
«Oh sì. Sto applicando la mia Resistenza già da tanti anni.»
«E quale sarebbe?»
«Non risponderti quando mi chiami Adelina.»
È una Resistenza piccola, d’accordo. Ma come genitore mi sento più tranquillo.
«Ti voglio bene, Deli.»
«Anche io, papà.»

martedì 26 giugno 2018

Fabrizio​ Burlone - Francesco Rivara, marinaio

Francesco Rivara aveva una faccia di quelle che non si lasciano guardare comodamente, neanche un po’. Non che mordesse, santo cielo, però metteva soggezione. E allora la gente tendeva a girargli al largo, anche più del necessario. Un peccato, perché era una faccia interessante dopo tutto: la crapa pelata, il naso importante, due occhi scuri piccoli piccoli sormontati da sopracciglia appena accennate, un numero infinito di rughe che gli calzavano a pennello. A saper leggere una faccia come qualcuno sostiene di saper leggere una mano, lì c'è n'era per settimane.

Doveva essere sulla sessantina, lustro più, lustro meno, solido ed asciutto come il legno degli ulivi che crescono  da queste parti, a Camogli. Lo vedevo sempre seduto allo stesso caffè, quello appena fuori dal budello, all’inizio della passeggiata. Dentro se era brutto, ma se il tempo era buono, anche solo per i pinguini, lui stava fuori. Non so cosa facesse quando non era lì: so che quando passavo, e passavo piuttosto spesso visto che avevo il laboratorio proprio lì dietro,  lui c'era. Mezzo bicchiere di bianco sul tavolo, e gli occhi a guardare il mare. Com'è e come non è, incominciammo a scambiarci qualche cenno di saluto. Senza impegno, come si fa tra persone civili. E poi una sera, una di quelle sere così belle che non si può tornare a casa presto, una di quelle sere che c’è fuori tutto il mondo e non trovi un posto per sederti neanche a pagarlo oro, mi toccò di domandare ospitalità proprio al suo tavolo. Un sorriso aperto e un cenno della mano accolsero mia la richiesta quasi prima ancora che fosse formulata.
Chiacchierammo per un po' delle solite cose di cui si discorre tra estranei: tempo, partite, le ultime notizie dei giornali... Non particolarmente interessante, ma ogni cosa ha un suo tempo. "Vede quelle luci di navigazione laggiù, dottore? Appena oltre la fila delle lampare?" domando' saltando di palo in frasca all'ora che il locale si stava finalmente svuotando. "Oggi le chiamano carrette del mare, ma è su quelle che ho passato la maggior parte della mia vita..."

Francesco Rivara era nato in uno dei tanti  paesi della pianura che sta alle spalle dell'Appennino, uno di quelli dove il mare non lo vedi nemmeno eppure ne avvertivi la presenza in ogni cosa. Lui, però, a dodici anni il mare l'aveva già visto parecchie volte: i suoi ce lo portavano d'estate, per le vacanze. Giusto qualche giorno, ma aveva persino imparato a nuotare. Come per tanti altri, la faccenda avrebbe potuto finire qui, vacanze e nuotatina, non fosse stato che i suoi erano devoti di San Giorgio lo Stilita. Quello che con il drago non ci aveva avuto niente a che fare, ma aveva passato sessant’anni seduto su di una colonna in contemplazione dei misteri della fede e delle onde che si frangevano sulla scogliera dabbasso.
Per una volta, avevano deciso di portarsi dietro il ragazzo, al santuario. La tentazione di arrampicarsi sulla colonna era stata tanto irresistibile quanto l’azione si era rivelata irrealizzabile: recinzione a parte, il posto era pieno zeppo di fedeli che andavano e che venivano, di gente che pregava, di devoti e di peccatori in cerca di grazie e assoluzioni. Per non dire dei gruppi e delle comitive salite fin lassù  solo per godersi il panorama.
Ma nel giardino c'erano anche degli alberi, nessuno dei quali pareva recintato od assediato. Quando uno dei preti lo scorse, appollaiato su di un ramo come un colombaccio, i suoi lo stavano cercando da quasi un'ora.

"Cosa avevo visto da lassù?”  mi chiese. “Se a questo punto si aspetta un qualche tipo di rivelazione, dottore, mi tocca deluderla. Avevo giusto visto il mare. Solo che, per la prima volta,  lo avevo visto tutto insieme.”

Tornato in pianura, Rivara aveva ripreso la sua vita. Scarsamente dotato per gli studi, suo padre era riuscito a piazzarlo nell'officina del paese, dove tra auto moto e trattori aveva trovato una specie di vocazione. Un giorno poi, ma "un giorno" e' appena un modo di dire, aveva raccolto le sue cose e si e si era diretto verso il mare. Era partito da Genova: mozzo, aiuto motorista, motorista, il suo talento meccanico gli aveva aperto un sacco di strade nelle profondità delle navi. Macchinista, capomacchina, viveva in un mondo buio e sudato dove il fuoco si trasformava in propulsione, dove gli alberi erano fatti di metallo, e di metallo erano anche il cielo, l'orizzonte ed ogni altra cosa. Dove il mare era appena un lampo azzurro intravisto mentre si apriva un boccaporto o si scendeva una scaletta. “Non che ci spendessi molto tempo a pensarci, sa dottore? Avevo troppo da fare. E poi, tutto sommato, era anche una bella vita. Pagare, pagavano bene. E io, in sala macchine, ero qualcuno: ero il "signor" Rivara. Anche il capitano mi chiamava signor Rivara: signor Rivara, abbiamo bisogno di questo, signor Rivara abbiamo bisogno di quello, signor Rivara, come faremmo senza di lei..." Si fermò, inseguendo qualche pensiero. "Sì era una bella vita, dopo tutto. Fino a quando.." si interruppe di nuovo..
"Fino a quando..." gli appoggiai..
"Mi perdoni, sa dottore..  E’ che a volte mi perdo.. Beh, per un motivo od un altro di navi ne ho cambiate parecchie, la gente andava e veniva. I porti, e chi se li ricorda tutti? Però, la sala macchine... quella era casa mia, e quelli che ci lavoravano dentro erano la mia famiglia. Non so quando, come o dove cambiò. Forse non cambiò neppure, era sempre stato così solo che io non lo vedevo.  Si trasportava di tutto. Merci, lecite o meno, mezzi, manufatti, impianti, rifiuti, armi, disperati. Di tutto. E più il lavoro era difficile o sporco, più soldi giravano. E i compagni  diventavano dei rivali,  gli amici estranei, stare in mare giusto un dovere e tornare a terra anche meno. Mi sentivo straniero in acque straniere, e passavo sempre più tempo da solo, sul ponte, a guardare l’orizzonte. Sembra orribile, vero dottore? Ma è solo perché la sto mettendo giù così. Mi capisca dottore: c'erano tante belle giornate, più di quante non riesca ricordarmi, e ho visto cose e conosciuto persone che mi porto ancora dentro. Tutto sommato potrei dire che sono stato un uomo fortunato”
"Buon per lei.." incoraggiai, più che altro per evitare una nuova pausa.
“Però mi sentivo vuoto, vuoto come una di quelle conchiglie che si trovano sulla spiaggia e uno la raccoglie e cerca di immaginarsi chi ci abitava dentro. Ma ormai non c’è più, è solo una conchiglia vuota. Delle navi non me ne fregava più nulla,  di tutti quei “Signor Rivara” nemmeno. E allora mollai tutto e tornai a casa.  Sa, dottore, in effetti non sapevo bene cosa fare. Sono anche andato a San Giorgio, ma era tutto così diverso... La colonna c'era ancora, ed anche qualche albero, ma non mi sono nemmeno arrampicato, lo sapevo già che non avrei visto niente.”
“E allora?” domandai.
“E allora mi sono fermato qui, a pensare.  Non sono molto sveglio, dottore. Però sono fortunato, ricorda? E ho imparato a guardare. Sa quanta gente passa davanti a questo bar? Tanta, anzi: tantissima. Ricchi, poveri, giovani, vecchi, di tutte le razze, di tutti i colori. Li guardi in faccia, se ha tempo, li guardi negli occhi. Sa cosa troverà in quelli che hanno appena visto il mare per la prima volta?
Dovetti ammettere la mia mancanza. “No, a dire il vero”.
“Meraviglia, dottore. Pura meraviglia. Perché il mare, vede, nella nostra testa non ci sta proprio. Quel che si pensa di sapere non conta niente. Il mare, finché non l'hai visto da te, non sai. Tutta quell'acqua, tutta insieme, che non si vede da dove viene e dove finisce, che non si capisce perché si muove e non si ferma mai…. Si rimane a bocca aperta, che se qualcuno non te la chiude mandi giù anche i moscerini. A ripensarci oggi, dottore, dev’essere stato questo quello che avevo visto veramente dalla pianta tanti anni fa: un mondo nuovo.  Perché a quell'età tutto il mondo doveva essere nuovo. Nuovo, meraviglioso ed inspiegabile; e aspettava solo me…  Poi... poi, come le ho detto, mi sono ritrovato a fare altro e non ci ho pensato più. Fino a che non ho visto sulla faccia della gente che guarda il mare che tutto quanto è ancora là. Solo che io non lo vedo più. Sa, dottore, se mi sento vuoto non è perché sono vuoto, ma perché lo sono le cose con cui mi sono riempito la vita. Ora sto imparando a lasciarmele indietro tutte, una per una, e non mi mancheranno neanche un po’. Sono i sogni di qualcun altro, non i miei. Con i soldi che avevo messo da parte ho comperato una barca, se passa al porto la può vedere, si chiama “Lo Stilita”. E adesso sono qui che aspetto la marea..”
“La marea?”
“La marea, il vento, il momento giusto, quel che è, insomma. Ma un giorno o l’altro, ci può scommettere, Lei passerà di qui e io non ci sarò più.”
Avrei dovuto stare zitto, invece mi feci scappare un “Già, un giorno o l’altro”. Fortunatamente la mia invidia non colse il bersaglio, e di questo sono felice.
“Al momento giusto. O quando mi garberà a me, se c’è troppo da aspettare. La mia vita è ancora tutta là fuori, ora lo so. Devo solo andare a viverla.” Rispose tranquillamente Francesco Rivara.
Questa volta solo il vento continuò il discorso. Il racconto era evidentemente finito e per ognuno di noi era tempo di tornare ai propri pensieri. Nel buio, il sartiame di una barca lontana batteva lugubremente contro qualche cosa, l’albero probabilmente, e mi metteva i brividi. Mi alzai per congedarmi e, chissà perché, mi sembrò il caso di fare una precisazione.
“Una cosa, ancora.”
“Dica, dica pure…”
“Io non sono un “dottore”. Non lo sono mai stato, e neanche ci sono mai andato vicino.”
“Ah, non importa, dottore. Se è per questo, io non ho mai fatto il marinaio.”

Clara Tacchi - Quello che conta

(racconto breve in ricordo di un uomo perbene)

Era una gelida giornata di dicembre.
Sembra l’inizio di un  commovente racconto di Dickens, lo so, ma la storia che sto per raccontare non se ne discosta poi tanto.
Era una gelida giornata di dicembre, dicevo, quando mio padre salì su un treno per Milano, diretto all’abitazione di un uomo, un poveruomo, che da tempo gli doveva dei soldi.
A questo gesto era stato costretto da mia madre, e solo a distanza di molti anni, troppi, riesco a comprendere le sue ragioni, e a perdonarla. Allora lo vissi solamente come una costrizione, una violenza nei confronti di mio padre.
 Anche lui, agli occhi delle persone o meglio della cosiddetta “buona società”, poteva apparire come un poveruomo, un perdente. Unico figlio di una famiglia benestante, aveva ereditato da suo padre una piccola fabbrica che lavorava il ferro, come tanti in quegli anni, nella cittadina in cui vivevamo.
Ma tutto era andato storto. Dopo alcuni anni la fabbrica era fallita, in seguito ad alcune scelte avventate dovute, credo, al carattere ingenuo e ottimista di mio padre, che non aveva certo l’indole dell’imprenditore senza scrupoli.
Ricordo ancora, con pena, un giorno di quel triste periodo, in cui tutto sembrava andare in rovina, nella nostra famiglia. Lui era seduto di fronte a me a tavola, ed eravamo soli. Non so dove fossero mia madre e le mie sorelle. Non c’erano, anche perché in quel momento non era facile stare insieme. Senza neppure guardarmi, senza alzare gli occhi dal piatto disse con amarezza: “Quando morirò, la gente dirà: E’ morto un cretino”. Inutili, o forse no, le mie parole di protesta, le mie assicurazioni che no, non era vero, che per noi figlie lui era sempre stato un uomo da ammirare, un padre meraviglioso sempre pronto ad ascoltarci, a consolarci per le nostre piccole o grandi delusioni.
Il suo fallimento aveva ovviamente trascinato la famiglia in una situazione difficile, che non eravamo preparati ad affrontare. Si viveva solo con lo stipendio da insegnante di mia madre, ma quei soldi non bastavano per vivere, e per pagare tutti i debiti che lui aveva contratto e che voleva ripagare.
Partì dunque per Milano, quel giorno, con l’animo prostrato dai sensi di colpa verso la sua famiglia ma anche verso quell’uomo a cui avrebbe chiesto dei soldi, e che sapeva trovarsi in grande difficoltà. La sua situazione era, con ogni probabilità, ancora pù grave della nostra.
Tornò tardi, con un treno della sera. Tra le mani teneva una scatola di fazzoletti da uomo, bianchi.  Mia madre lo apostrofò subito – era ancora sulla soglia –chiedendogli ragione dei soldi che avrebbe dovuto riscuotere.
Ricordo ancora la sua espressione, avvilita e stanca, quando le rispose, quasi balbettando, che no, quei soldi non li aveva. Era entrato nella casa di quell’uomo, in quel gelido pomeriggio di dicembre, e aveva visto lo squallore, la miseria: nelle stanze semibuie i mobili non c’erano più, se li era portati via un ufficiale giudiziario, e quell’uomo non aveva più nulla, neanche i soldi per comprarsi da mangiare.
Mio padre non aveva avuto il coraggio di chiedergli nulla e l’altro, forse illudendosi di saldare in qualche modo il suo debito, gli aveva dato quella scatola di fazzoletti, che vendeva come rappresentante prima del suo crollo.
Non voglio ricordare la lite violenta che ne scaturì, con mia madre che urlava contro di lui una sequela di insulti e di parole di disprezzo. Preferisco dimenticare, perché fa ancora troppo male.
Una cosa, però, la ricordo con chiarezza, come se fosse accaduta ieri. Mentre con le mie sorelle assistevo a quella scena, in preda ad una rabbia impotente, ad un tratto sentii affiorare nella mia mente i primi versi di una poesia di Camillo Sbarbaro, versi che avevo sempre amato:
“PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI MIO PADRE / SE ANCHE FOSSI A ME UN ESTRANEO / PER  TE  STESSO  EGUALMENTE  TI  AMEREI”.
Così era allora e così è anche adesso, a distanza di 34 anni dalla sua morte.


Per alcune persone della mia famiglia, scrivere ha spesso rappresentato un modo per superare momenti difficili. A loro dedico questo racconto, e la mia gratitudine per aver sempre condiviso con me questa esperienza 

Vilma Buttolo - Ernesto

Come ogni sera avevamo parcheggiato la nostra Panda lungo quel murales a disegni geometrici, “spartiacque tra due mondi, simili ma non uguali” così dice Lorella. A lei piace tanto. Che ci troverà di speciale non so. E’ solo un muro ai bordi di una vecchia piazza e una via, un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra. Forse lei pensa al nuovo che avanza, la scuola Holden, la mongolfiera contro il resistere della via, cuore del Balon.
Eravamo scesi dall’auto e ci eravamo avviati verso casa. Io avevo già camminato tanto e desideravo mettermi tranquillo, disteso  sopra al divano.  Lorella però non sembrava  convinta che la giornata fosse finita e continuava a temporeggiare. Prima si era  fermata davanti alla vetrina del rigattiere. No, non quello vicino al ristorante cinese, da cui escono alcuni profumini, quello con la proprietaria simpatica che tutte le volte mi fa un sacco di complimenti. No. L’altro. Quello vicino al portone di casa nostra. Viviamo lì. Noi due da soli da quasi cinque anni.
- Che peccato Ernesto che non ti piacciano le bambole. Queste due – aveva detto indicando la vetrina – sono davvero uno splendore!
Lorella è così. Ama le cose vecchie, un po’, come dire “vintage”, se vogliamo anche  un po’ strane. A volte la gente per strada si gira a guardarla. Io all’inizio, folle di lei, pensavo: “ perché  è bella”. In realtà mi sono accorto, con il tempo, che non sono sguardi di apprezzamento. Sorridono o scuotono la testa come per dire: “ Quella lì non è tutta a posto”. A me però non interessa. Nei suoi abiti fuori tempo, con i suoi cappelli strani mi piace. Adesso come allora quando l’ho vista per la prima volta. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo piaciuti subito. Il suo primo abbraccio non lo scorderò mai.
Davanti a quella vetrina non so quale susseguirsi di pensieri aveva fatto ma di botto aveva esclamato :
- Oddio ho finito le sigarette!
Non è che sia un salutista, figuriamoci con tutte le schifezze che mangio, però questa storia delle sigarette mi ha un po’ stufato. Ecco quando fuma in casa è uno di quei pochissimi momenti che mi fa arrabbiare.  Devo allontanarmi, magari anche trovare un posticino in cui rifugiarmi.  Però sopporto. Che altro potrei fare.
In quel preciso istante, alla parola “sigarette” avevo capito che avrei dovuto attendere ancora un po’ prima di rientrare e soprattutto avrei dovuto seguirla su, su per quella via un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra.
- Ernesto dobbiamo andare dal tabaccaio. Dai tesoro, facciamo in un attimo.
Non ho potuto neppure accennare un disappunto che con passo da alpino Lorella si è  avviata lungo la via che porta al tabaccaio. Mentre io cercavo di starle dietro, o quanto meno a fianco, sentivo il rumore dei suoi stivali sui ciottoli scivolosi. Dicono sia una stradina caratteristica per i suoi negozi d’antiquariato, per i suoi locali artistici e accoglienti, per le foto appese ai balconi come lenzuola, per il via vai di compratori e venditori della seconda domenica del mese. Chi ci passa ogni tanto ne vede solo le bellezze. A me invece,  non è mai piaciuta. Tra un ciottolo e l’altro si rischia di inciampare.  Farsi male è un attimo. E’ per questo che Lorella cammina sempre  dove il terreno è meno dissestato, lì al centro, sui lastroni più grandi. Il primo pezzo di via Borgo Dora era fatto, dovevamo solo  attraversare la piazza. Libera dalle bancarelle sembrava anche più grande. L’insegna del tabaccaio era là, luminosa in mezzo a tutte quelle altre luci di lampioni e finestre dell’ora di cena. In quel momento della giornata schiamazzi e folla sono altrove. Anche se qualche bar è ancora popolato di suoni, questi  sembrano attutiti dal buio. C’è un silenzio strano, che sai non appartenere a quel luogo ma che proprio per questo incanta. E anche quella sera avevo rallentato per godermi quel mondo diverso da quello incontrato nelle mie passeggiate diurne. La voce di Lorella però, mi aveva spronato ad accelerare.
- Dai Ernesto veloce, che è ancora aperto. Così non devo lottare con quello stupido distributore automatico.
Dovevamo allungare il passo perché Lorella diffida di qualunque  tecnologia.  Già la parola automatico la inquieta, per non parlare di virtuale. E’ una donna di altri tempi a cui piace scrivere con carta e penna, confrontarsi per qualunque cosa con un altro umano piuttosto che con un video, un display. E quella sera con un distributore automatico.
Quasi all’angolo con la piazza dietro di noi un colpo di tosse, un raschiar di gola seguito da un rumore chiaro e distinto di qualcosa di umido che cade a terra. Un uomo nero, alto e grosso procedeva nel nostro senso e prima di superarci aveva deciso di liberare i suoi bronchi. A quel comportamento, sicuramente poco piacevole, Lorella aveva avuto una reazione di disgusto un po’ eccessiva. Di scatto si era scostata al centro della strada con un balzo improvviso ed era finita in una buca cadendo miseramente a terra. L’uomo invece aveva proseguito per la sua strada non rendendosi conto di nulla.
- Porca vacca Ernesto! Mi sono rotta anche il collant! – aveva esclamato a bassa voce. Lorella non alza mai i toni.  In tutti questi anni di vita insieme, credo  di non averla mai vista arrabbiata.
Nessuno dei ragazzi appollaiati sulle sedie del dehor di fronte si era preoccupato di venirla ad aiutare. Non so se perché mi avevano visto o perché in realtà erano ragazzi”insensibili” come dice spesso Lorella parlando dei giovani maschi. Invece erano accorsi tre uomini stranieri, quelli che quando parlano aspirano continuamente le lettere. “Per non lasciale libere di andare” sostiene Lorella.
- Signora si è fatta male? Se vuole possiamo portarla in ospedale? – Le ha domandato uno, in un italiano chiarissimo, mentre l’aiutava a sollevarsi. Un altro le ha raccolto il  cappello che le era caduto e glielo ha restituito insieme ad un sorriso sghembo. Solo il terzo stava fermo lì a guardarmi  con un certo timore. Figuriamoci! Io sono così tranquillo.
- No grazie, non mi sono fatta nulla – aveva poi detto incerta Lorella. Aveva sorriso e, cercando il mio sguardo, con il buco nei collant aveva proseguito a passo svelto verso quella luce azzurrognola all’angolo della piazza.
La tabaccheria, nel frattempo aveva già chiuso e nonostante dentro ci fosse ancora il proprietario, Lorella non era riuscita a farsi aprire.
- Usi il distributore automatico – le aveva gridato l’uomo che era all’interno.
- Accidenti Ernesto dovrò usare questo – mi aveva detto indicando il distributore  di fronte a noi e subito dopo immergendosi nella sua grande borsa  per tirarne fuori la  banconota giusta. L’avevo vista sudare nella ricerca delle sigarette preferite e poi della fessura in cui inserire il denaro. Sembrava una bambina. Ogni tanto si girava indietro, verso i locali dove ci fermavamo per un caffè o un aperitivo. Chiusi. Dietro di noi solo un uomo in attesa del suo turno.
- Posso aiutarla?  - Le aveva detto ad un certo punto. A guardarlo bene mi era sembrato anche lui un po’ stranino con quei capelli grigio topo, così spettinati. E anche i suoi vestiti consumati non gli donavano un bell’aspetto. Ma Lorella lo aveva guardato, senza timori e poi sorridendogli gli aveva dato la banconota da 5 euro. Anche lui aveva sorriso, prendendo il denaro. Ad ogni passaggio del distributore automatico si erano scambiati sguardi e sorrisi. Fino all’arrivo del pacchetto di sigarette che, nella fretta, avevano raccolto entrambi trovandosi così mano nella mano. A quel punto il fastidio provato fino in quel momento era arrivato al limite. Intruffolandomi tra loro, ero finalmente riuscito ad attirare l’attenzione su di me.
Solo allora Lorella mi aveva preso in braccio e lo sconosciuto mi aveva squadrato, capendo subito chi fossi.
- Questo sì che è un cane che mi piacerebbe avere! Un bel bassotto a pelo duro.
Che tipo questo qui. Speriamo rimanga.

venerdì 22 giugno 2018

Francesca Protti - Quello che non ho... sono le prove!

“Quello che non ho sono le prove!”
Ci sarebbe stato bene un pugno sul tavolo, o un …merda!, ma non erano cose per l’Ispettore. Troppo posato, troppo composto, troppo rispettoso delle regole, soprattutto di quelle che si dava da solo.
“Vado a fare un giro. Sai mai che l’aria fresca mi faccia venire qualche idea…”

Un caso come tanti. Una persona anziana, una badante straniera, un compatriota poco raccomandabile disposto a tutto pur di racimolare qualche euro. Una delle numerose storie che riempivano le pagine di cronaca e appesantivano il lavoro delle forze dell’ordine. Eppure il trasporto di quella giovane slava gli era sembrato genuino, il pianto sincero. Più del solito, almeno.
Non c’erano segni di scasso. L’assassino, quindi era stato fatto entrare. O aveva le chiavi, che la badante poteva aver sottratto a signora.
La ragazza, però, giurava che le cose non erano andate così. Gli aveva persino mostrato dove signora teneva i soldi della pensione appena ritirata. C’erano tutti. Controlli!, aveva gridato. Il giorno in cui signora era morta, figlia di signora le aveva tenuto compagnia per qualche ora. No sempre faceva così. Lo ripeteva in continuazione. Figlia di signora, figlia di signora, figlia di signora, figlia di signora… E che era andata a trovarla. Come se una figlia non andasse a trovare la madre. Non era detto che chi affidava i genitori a badanti straniere lo faceva per lavarsene semplicemente le mani. Magari era vero il contrario. Avevano solo bisogno di un aiuto proprio perché agli autori dei loro giorni ci tenevano.
L’ispettore aveva fatto cercare l’erede, anche solo per darle la notizia. Era in vacanza e avrebbe ripreso il lavoro di lì a due giorni. Se era via, non poteva aver fatto visita alla madre. Chi ti assicura che fosse davvero via? Era meglio far controllare. Al momento, però, tutto era contro la badante.
Se anche la pensione risultava intatta, potevano aver rubato altro. Il luogo del delitto gli ricordava la casa di una sua prozia, piena di cianfrusaglie buone solo a far polvere e disordine. In quel marasma chissà cosa poteva mancare, forse in casa c’erano altri soldi di cui nessuno sapeva. Ricordava, su di un tavolinetto, una scatola di latta arrugginita, il cui contenuto era sparpagliato tutto intorno.
La ragazza, rassettando casa, poteva aver scoperto un piccolo tesoro e averne parlato a qualche amica incontrata nelle ore di libertà. Una collana di perle? Magari con orecchini e bracciale coordinati. Un dono d’anniversario? O i gioielli per le nozze che si tramandavano di madre in figlia.
Se aveva una figlia,  perché erano in casa della defunta? Forse non si era mai sposata. La madre non se ne era voluta separare e la badante aveva finito con il trovarli. Poi la voce poteva essersi sparsa e qualche mascalzone aveva convinto la ragazza a lasciarlo entrare in casa per prendere un po’ di quel denaro. Signora di sicuro non si sarebbe accorta di nulla. Signora era troppo vecchia per indossarle. Loro, invece, erano giovani. Potevano rivenderle e farci dei bei soldi.
Il caso si presentava già risolto. Qualcosa nell’animo dell’ispettore, però, non era soddisfatto di quella risposta. Le mani curate e il viso pulito di quella giovane donna l’accusavano di fare di ogni erba un fascio. Non sono tutte ladre e approfittatrici. Così almeno gli piaceva pensare.
“Accidenti!”
Tirò un calcio a un sasso lungo la strada che andò a sbattere contro un paraurti. Il suono metallico gli diede una scossa. Decise di concedersi 48 ore di navigazione a vista; se non fosse approdato a nulla, avrebbe archiviato il caso, consegnando alla giustizia la colpevole al momento più probabile. Non gli andava, però, non gli andava per niente quel modo di lavorare approssimativo.
“Uffa!”

Scelse di tornare nell’appartamento e considerare meglio quella scatola di latta. Perché lasciarla lì, se si era sottratto il suo contenuto più prezioso? Perché non rimettere tutto a posto evitando di destare sospetti? Perché i ladri sono esseri umani. E gli esseri umani spesso non ragionano, soprattutto quando vanno di fretta. “Questi non sono ladri di professione, che calcolano ogni minimo dettaglio. Ogni minima eventualità. Questi fanno del carpe diem il proprio motto…” Gli pareva improbabile che dei ladruncoli conoscessero Orazio, ma tant’era.
L’odore di vecchio e canfora si mischiava a quello dei preparati chimici dei tecnici della scientifica, urtando il suo olfatto molto sensibile. Aprì le finestre e si mise al tavolino su cui ancora c’era la scatola. Tenne il giaccone per proteggersi dal freddo. Un ricciolo rosso tiziano, vecchie lettere, qualche foto, un certificato di nascita e altre carte ricoprivano il piano del tavolo, mentre dentro la scatola rimanevano vecchie bolle dell’affitto, un ventaglio e un paio di occhiali da uomo. Nulla gli assicurava che quella latta avesse custodito qualcosa di maggior valore. Era molto più probabile, invece, che l’anziana donnina avesse trascorso qualche ora in balia dei ricordi, dimenticandosi, poi, di riporre di nuovo tutto nella scatola. Oppure un tramestio, dei passi nella stanza potevano averla attirata in camera da letto e l’intruso poteva aver messo troppo impegno nel soffocarne le grida.
Il ragionamento filava, ma l’ostinazione con cui la badante aveva parlato della visita di figlia di signora non lo lasciava tranquillo. Qualcosa sfuggiva al quadro generale. Tutto era troppo semplice, dov’era la fregatura? La cercò nei mucchi di foglie secche lungo il fiume, ma senza successo. Il cercapersone vibrò, era il commissariato. La figlia della defunta era stata rintracciata e stava arrivando. Era meglio se tornava in ufficio.

La donna non doveva essere tanto più giovane di lui, eppure gli ricordava sua madre. Quel tailleur a longuette dal taglio fuori moda, per non parlare del colore. Il cappellino con la veletta strappata, le scarpe con il tacco a rocchetto, quegli strani guanti.
“Che rapporti c’erano tra sua madre e la badante?”
“Semplicemente mia madre non voleva più star sola e io non potevo tornare a vivere con lei. Katia è stata la soluzione migliore, si occupava della casa e della spesa, vegliava sua mia madre.”
“Capisco. Ciò che vorrei sapere, però, è se sua madre si fidava della ragazza o se, invece, la temeva. Le aveva fatto qualche confidenza in merito?”
“Mia madre ed io non ci siamo mai scambiate segreti. Percepivo però che la faceva sentire tranquilla. E questo bastava.”
“Quando ha visto per l’ultima volta sua madre?”
“Domenica, dopo la messa. Ero passata a sincerarmi che Katia, quel giorno in libera uscita, avesse lasciato tutto in ordine, che mia madre non necessitasse di nulla.”
Strano, non pronunciava mai la parola mamma.
“La ragazza, però, sostiene che lei è stata a casa di sua madre il giorno che …” preferì non finire la frase.
“Si sbaglia.”
L’ispettore non se ne stupì. La soluzione era lì davanti a lui, per quanto scontata fosse. Fu solo per curiosità che interrogò ancora la donna.
“Sa dirmi chi è Anita?” Il certificato di nascita ritrovato nella latta riportava quel nome e una data del 1973.
“Mia sorella, credo.”
L’ispettore non riuscì a trattenere la sorpresa.
“Non sono certa che fosse anche figlia di mio padre.”
Tra i documenti ingialliti c’erano anche gli atti relativi a un’adozione, decisioni di famiglia che esulavano dal caso.
“Non ho avuto scelta, capisce?” La donna parlava con lo sguardo rivolto al vuoto.

La polvere del tempo le aggrediva le mani, sentiva la pelle seccarsi. Non se ne curò e continuò a svuotare quella vetusta scatola di latta, le notizie che rivelava avevano un effetto magnetico.
Si guardò i polpastrelli ormai neri. Poi se stessa allo specchio, trovandosi vecchia e stanca.
C’era una sola cosa da fare.
Sua madre dormiva. Si sedette ai suoi piedi, un cuscino di piume tra le braccia. La guardò a lungo, poi prese la sua decisione.
Si alzò e lasciò cadere il guanciale, sistemandolo bene.

“Perché ha dovuto darla via? Perché mi ha privato di tale fortuna? Quando ho trovato la scatola, l’altro giorno, il suo contenuto mi ha aperto gli occhi. E ho ricordato. Gli estranei che vennero in casa a prenderla, a liberarla da quella prigionia prim’ancora che l’aggredisse. Una ricca signora voleva tanto una bambina e accettò subito di adottarla. Ricordo che abitavano davanti a noi, dall’altra parte della strada, la vedevo giocare con i suoi fratellastri – ora so che non erano uniti da alcun legame di sangue – crescere nell’agio e nell’amore. Essere felice, capisce. Era felice. All’epoca non sapevo chi fosse, ho compreso in pieno solo adesso. Lei probabilmente non saprà nulla. Le avranno taciuto la verità. Era poco più che neonata quando venne portata via. Io invece no. Io ero grande. Perché io non avevo avuto altrettanta fortuna? Perché non aveva dato anche me in adozione. Non mi voleva, non mi ha mai voluta. Lo sentivo. Si crede che solo le madri sentano certe cose, ma il cordone ombelicale è a doppio senso. Anche le figlie sentono cose non percepibili dai sensi. Non mi voleva eppure mi ha tenuto e condannato a una vita di stenti e rinunce. Forse per farmi pagare qualche colpa. Non mia, però. Appena tutto ciò mi si è fatto chiaro, ho dovuto punirla per quello che mi aveva fatto. Il cuscino era lì, ai suoi piedi. È stato facile.”
Tacque. Gli occhi sempre fissi su volti che solo lei vedeva.
L’Ispettore si protese lentamente verso di lei.
“Come ha detto?”
“Io non ho parlato.” Ribatté la donna guardandolo dritto in faccia. Ma non era la stessa persona. In quel corpo c’erano due anime che lo shock della presa di coscienza aveva irrimediabilmente separato. I ricordi, nella loro crudele chiarezza, avevano scatenato la reazione più estrema. La badante aveva ragione, la figlia giocava un ruolo centrale, era lei l’assassina. Lui, però, aveva le mani legate, non c’era alcuna prova a sostegno di quella tesi. La donna non avrebbe mai ripetuto tutto quanto in presenza di testimoni, una parte di lei nemmeno sapeva ciò che l’altra aveva fatto.
Non aveva dubbi che la verità fosse quella. Il suo animo si era rasserenato, come quando tutti i pezzi del puzzle si trovano al loro posto. La frustrazione per l’impossibilità di assicurare alla giustizia la vera colpevole, però, gli seccò la gola.
Se anche avesse persuaso il GIP, questi avrebbe preteso delle prove. “Non le fabbrichiamo, Ispettore, le cerchiamo e le troviamo. Se non saltano fuori, vuol dire che non ci sono. E le nostre teorie, per quanto belle e convincenti, rimangono ciò che sono. Teorie. E con le teorie in tribunale non si va!”
Non c’era modo di provare nulla. Era la parola della badante contro figlia di signora. E alla prima non avrebbe creduto nessuno. L’Ispettore sì perché gliel’aveva confessato figlia di signora. Ma figlia di signora non avrebbe mai ripetuto quello che gli aveva detto per il semplice fatto che una parte di lei non ne era consapevole.
Non aveva la benché minima prova.
Bisognava che la badante avesse un alibi. Così la storia si sarebbe un po’ aggiustata. Letaqqen ha’olam. Aggiustare il Mondo, ovvero renderlo più giusto.
L’aveva letto in un libro. Gli era piaciuta e l’aveva eletta a proprio motto. Era il suo mestiere, quello. Aggiustare il mondo era quello che faceva. Anche quando le prove non le aveva. Almeno ci provava.

giovedì 14 giugno 2018

Alessandra Biella - L'equilibrista

Di professione faccio l’equilibrista. Non si direbbe è vero, e non lo direbbero neanche le persone che mi vedono tutti i santi giorni al tavolino del bar, il solito bar, a sorseggiare, a seconda delle stagioni, cappuccino, caffè, crema al caffè, insomma qualcosa a base di caffè. Che adoro. E' la mia dose giornaliera di felicità.
E’ vero, molti mi dicono che non ho il fisico per questo mestiere. Manco di muscoli, di agilità e, soprattutto, di senso dell'equilibrio che, in linea teorica, dovrebbe essere fondamentale. Ma a me non sembra. Credetemi si può fare comunque anche senza tutte queste belle qualità.
Il mio mestiere mi dà grandi soddisfazioni, il più delle volte. Tutto il resto è spirito di sacrificio, abnegazione e ancora sacrificio. Che tristezza, penseranno in molti. Ma non è così, ve lo assicuro.
Nel mio mestiere, dicevo, è importante l'allenamento, duro e costante, infatti io mi alleno tutti i giorni, perché si va in scena tutti i giorni, tutti, e più volte al giorno. C'è lo spettacolo mattutino, il pomeridiano, la pausa caffè che, almeno quella, non manca mai e lo spettacolo serale. Niente sabati o domeniche, che si deve lavorare di più e niente feste comandate, che si lavora il doppio. Eh ma son soddisfazioni poi. Gli applausi, i ringraziamenti, gli incoraggiamenti, qualche volta un paio di fischi, ma è gente invidiosa, non capisce, d'altra parte si tratta di un pubblico così vario, uomini, donne, bambini, da zero a novantanove anni, come per la tombola. E comunque non si può piacere a tutti.
Giorni fa parlando con alcuni colleghi ventilavo l'ipotesi di cambiare mestiere, restando sempre nel settore, per carità, ma vorrei provare che so io, a fare l'illusionista per esempio, per far sparire di tanto in tanto, che ne so, la mia persona? O magari, perché no, provare quel lavoro così carino e affascinante, quello che fa quell'artista tanto bravo, ma sì, quello che prima è vestito in un modo e un secondo dopo è già vestito in un altro, quello con quei capelli strani tutti in su per intenderci, che dal parrucchiere, almeno lui, fortunato, riesce ad andarci. Che bello che deve essere, che comodità... Altre volte invece sogno semplicemente di avere un doppio, un gemello, qualcuno insomma che ogni tanto prenda il mio posto. E la facciamo finita, almeno per un po'.
Ma questi, appunto, sono solo sogni da lasciare lì, belli tranquilli a sonnecchiare in un cassetto, quello della biancheria, che sarà il caso metta in lavatrice altrimenti domani mattina siamo tutti senza mutande. Sì, perché in realtà, lo ammetto, ho anche un secondo lavoro, mi serve per arrotondare, perché essere un'equilibrista, con l'apostrofo, obiettivamente non basta.
Di secondo lavoro faccio l'ingegnere, e qui si potrebbe aprire una discussione. Faccio lo ingegnere, la ingegnere, la ingegneressa? No perché mi dicono che è importante saperlo, così lo segnano e se lo ricordano quando devono darmi lo stipendio.
Comunque anche questo secondo lavoro, mi dà grandi soddisfazioni. Un bell'ufficio, senza piante perché sono allergica, la foto della mia unica figlia sulla scrivania, (non so ma chiedere di stare a casa per avere un altro figlio mi sembrava indelicato) anche quella di mio marito, che una volta è venuto a prendermi e non l'ha trovata e mi ha tenuto il broncio per un giorno intero.
Adesso, per esempio, mi sto occupando di un progetto interessante, molto interessante. Ci ho lavorato parecchio, procrastinando a volte alcuni spettacoli serali, di solito si tratta del numero dei piatti, quelli da lavare, ma alla fine il risultato mi ha ripagata. Di parole certo. Ne hanno spese così tante che, se fossero stati soldi, magari l'impianto di condizionamento della macchina l'avrei potuto far riparare, ma non importa, che un po' di caldo, in estate, mi mantiene tonica e d'inverno, il condizionatore non serve. Anche i gesti poi, non sono mancati, pollici in su, simboli di vittoria, pacche sul sedere, oh pardon, volevo dire sulle spalle. Che cari, i miei colleghi, ma non lo fanno con cattiveria, no, no, è per spirito di corpo, dicono. Ovviamente, il mio.
Intanto la pausa caffè è finita, il mio doppio non si è visto, sarà il caso di alzarsi e rientrare al lavoro. La mia dose di felicità per oggi può bastare.

Willy Piccini - Le situazioni differenti

(Carenze: quel che non avevo. Amicizia e affetto: quello che avevo)

Sì, in effetti accadde in un tempo così lontano che potrei cominciare con…
C’era una volta un bambino povero, ma quasi non se ne accorgeva perché a quell’epoca erano poveri tutti quelli che conosceva.
Se devo dire la verità quel bambino ero io. I miei vestiti erano quelli dismessi da un mio cugino più grande. L’unica veramente mia, la più preziosa, era una camicetta senza maniche con impressi Orazio e Clarabella, 2 dei simpatici amici di Topolino. Un regalo della mamma di cui ero orgogliosissimo!
Giocattoli ne avevo pochini, un cagnolino rosso di celluloide e un pesciolino dello stesso colore, ma avevamo i boschi intorno al nostro paesino e non mancavano i rami. Un ramo diritto diventava una bella spada, ma poteva anche essere un fucile; se ne trovavamo uno incurvato, con un po’ di spago, era pronto il nostro arco. Allora era facile per noi diventare antichi romani, Cavalieri della Tavola Rotonda, compagni di Robin Hood. Accanto alla scuola crescevano delle foglioline che si attaccavano ai vestiti e così, con 5 foglioline appiccicate al petto a formare una stellina, uno diventava sceriffo e spadroneggiava sugli altri cowboy.
Il nostro paese, durante la bella stagione era occupato quasi interamente da donne e bambini perché gli uomini lavoravano in Lussemburgo e rientravano soltanto a inverno inoltrato quando, in quel luogo lontano, veniva a mancare il lavoro che riprendeva a primavera. Durante gran parte dell’anno tutti i lavori venivano svolti dalle donne, anche i più umili. Si recavano nei campi e con le loro affilate falci tagliavano l’erba che caricavano sull’ampia gerla che portavano sulle spalle, andando poi a depositarle negli stavoli dove si conservava il foraggio per alimentare il bestiame.
Quando morì la mia povera nonna, furono 4 donne, coraggiose e forti com’erano tutte le nostre donne, a caricare il suo corpo su una specie di portantina per salire la malagevole erta che conduceva al nostro piccolo cimitero di San Daniele.
A fine settembre, uno dei miei passatempi preferiti era contare il più alto numero di rondini che componevano gli stormi che, ci dicevano, se ne andavano a svernare nel lontano e misterioso Egitto. Le contavamo assieme alla mia cuginetta e vincevo sempre io: 14 a 7, 22 a 7, un giorno addirittura 30 a 7. Se devo essere sincero non era difficile vincere, lei sapeva contare soltanto fino a 7!
Al giovedì arrivava in paese l’uomo che vendeva il pesce, preceduto dal suono della sua trombetta. Per noi era uno dei momenti più attesi, al pomeriggio recuperavamo gli ossi di seppia scartati che, vista la loro forma, immaginavamo veloci motoscafi. C’era un fiumiciattolo che, attraversato il manto stradale, sbucando dall’altra parte veniva utilizzato da mamme e nonne come lavatoio: una tettoia ricopriva dei piani inclinati adoperati dalle donne per fare il bucato. Noi gettavamo il nostro osso galleggiante da una parte e ci proiettavamo a vederlo sbucare dall’altra, correndo poi tra le gambe delle massaie che ci rimproveravano bonariamente, fino al termine del lavatoio per vedere il primo arrivato, immaginando come sarebbe stato bello seguirlo fino al mare.
Ecco, il mare io non l’avevo mai visto, e come regalo per il mio sesto compleanno feci capire ai miei genitori che avrei tanto desiderato fare una bella gita fino alla grande città, il capoluogo, dove si raccontava ci fosse uno splendido castello bianco affacciato proprio sul mare. A malincuore mi fecero capire che non potevamo permetterci un viaggio così costoso. Una piccola gita però, come regalo per quella giornata di festa, l’avremmo fatta, perché così, come usava dire la mamma, “non ti cadrà il cuoricino” per il dispiacere.
Nel giorno tanto atteso, il mattino non fu molto diverso dagli altri. Non mi aspettavo grandi regali e in effetti non ricevetti cose eccezionali. Una camicetta nuova perché la mia preferita stava diventando inspiegabilmente piccola, oppure ero io che stavo diventando grande, non so, e un pellerossa che suonava il tamburo, regalo della nonna. Poco prima di mezzogiorno vennero tutti i miei amici, ma soltanto per mangiare una fetta della squisita torta fatta dalla mamma. Regali non ne portarono, né me li aspettavo: eravamo tutti poveri! Non mancarono però di tirarmi le orecchie, 6 volte ciascuno, quanti erano gli anni che compivo, una strana usanza di quei tempi. Alcuni lo fecero talmente forte che alla sera mi sarei sentito come Dumbo, con gli orecchioni. Subito dopo però, con mamma e papà salimmo a bordo di una curiosa corriera blu che aveva sul retro una scaletta per arrampicarsi sul tetto a sistemare i bagagli dei viaggiatori che andavano più lontano. Noi percorremmo soltanto una quindicina di chilometri, tanti ne occorrevano per arrivare a Tolmezzo, dove c’era addirittura il cinema. Ovviamente noi non ci andammo: costava troppo, eravamo arrivati fin là soltanto per visitare le baracche della fiera settimanale, quello non costava niente. Ma all’improvviso eccolo lì il mare, proprio quello che non avevo mai visto: era raffigurato in un bellissimo quadro che costava diecimila lire, quasi due settimane di lavoro del mio papà. Il prezzo era così alto perché era un’ottima riproduzione di un famoso quadro di Van… non ricordo cosa, almeno così aveva detto l’uomo della baracca dei quadri. Quanto mi sarebbe piaciuto appenderlo alla parete bianca accanto al mio letto, nascosto da una tenda, in cucina. Era il mio angolino personale e mi ritenevo molto fortunato per questo. I 2 gemellini, più piccoli, dormivano con mamma e papà, quando c’era, in 4 sul materasso riempito da foglie di pannocchia, regalo di matrimonio.
La nostra casa era molto modesta, oltre alla cucina dov’era stato sistemato il mio lettino, un piccolo corridoio, una ancor più piccola dispensa, e la camera dotata di vaso da notte, brocca e catino. L’idea di bagno, come s’intende oggi, mi era del tutto sconosciuta. Salendo una scala di legno esterna si arrivava al piano superiore nel ballatoio che in paese chiamavamo “linde” e, a metà scala, c’era il nostro misero gabinetto: un tavolaccio con un buco coperto da un coperchio di legno. Sempre al primo piano, oltre al solaio, era stata ricavata un’altra stanzetta, ma d’inverno vi si gelava e d’estate la mamma, per fare un po’ quadrare il magro bilancio familiare, consentendo l’uso in comune della cucina, la affittava ai cittadini che arrivavano dai 2 capoluoghi di regione. Noi li chiamavamo pomposamente “villeggianti”, ma non erano molto più signori di noi, come ci sembrava: con notevoli sacrifici portavano i loro bambini malaticci, che in città abitavano in quartieri malsani, a respirare un po’ d’aria buona. Più che villeggianti, quasi fratelli in povertà.
Quella giornata di compleanno si concluse a sera quando tornammo a casa, purtroppo a mani vuote. Il prezzo del quadro che tanto mi era piaciuto era un ostacolo insormontabile e la mia parete avrebbe continuato a rimanere spoglia. E non fu nemmeno l’unico dispiacere. Oltre al mal d’orecchi procuratomi dagli strattoni di quei monellacci che mi ero scelto come amici, un dentino cominciò a farmi male e a dondolare. La soluzione proposta da papà era di fare una specie di lazo, come quello di Pecos Bill, l’eroe che avevo visto sui fumetti dal barbiere del paese. Con un filo marrone papà avvolse questo lazo improvvisato al mio dentino e tirò fino a quando il dentino si staccò. Mi fece un po’ male e persi un po’ di sangue, ma per consolarmi la mamma disse che se lo avessi lasciato sotto al letto, di notte sarebbe arrivato un topolino e avrebbe sostituito il mio dentino con dei soldini. Ascoltai il suo consiglio, decidendo però, che quella notte non avrei dormito.
La pendola aveva appena battuto le 2 quando udii un rumore sospetto e, veloce, accesi la luce. Accanto al mio letto c’era un piccolo topolino.
“Mamma mia che paura” balbettò.
“Non temere” lo rincuorai “nessuno ha paura di me.”
“Non ci sono abituato, nessuno mi aveva mai visto.” ribattè lui.
“Non temere, te l’ho detto, come ti chiami?” dissi io.
“QZRPTB, il topolino dei denti”
“Ma è un nome impronunciabile, ti va bene se ti chiamo Denty?”
“Va bene, se per te è più semplice.”
“Da dove vieni, Denty?”
“Da Dentinia, il paese dei topolini, non molto lontano da Topolinia, la città di Topolino”
“Ma guarda un po’, anche la città di Orazio e Clarabella! Quelli della camicetta. E cosa fate laggiù?”
“Portiamo i soldini ai bambini e in cambio ci prendiamo i loro denti. Ci servono per costruire le nostre casette, dentino su dentino li usiamo come i blocchi di ghiaccio che gli esquimesi usano per costruire i loro igloo, riesci a immaginarlo?”
“Sì, sì, li ho visti gli igloo sui giornaletti, so come sono fatti. Ma tu, Denty, quanti anni hai?”
“Ormai 50, dovrei sposarmi perché a quest’età noi ci sposiamo e poi a cent’anni andiamo in pensione e ci godiamo i nostri nipotini.”
“E chi non si sposa?”
“Quelli, a cent’anni, un po’ a piedi e un po’ in treno, vanno a Rovaniemi, in Lapponia, il paese di Babbo Natale, per dare una mano nel magazzino giocattoli e vivono fino a 200 anni. Dev’essere molto bello.”
“Quante belle cose mi racconti, Denty, ma… mi hai portato i soldini?”
“Vuoi sapere una cosa? Sei il primo bambino, in tanti anni di carriera, che mi ha visto e voglio farti un regalo speciale.”
“Speciale?”
“Speciale speciale! Ordina e sarai esaudito”
“Sai, Denty, alla fiera ho visto un quadro che raffigurava il mare, di Van… Van… Van Wood credo.”
“Van Wood? Ma è un cantante, la conosci quella canzone – ho giocato tre numeri al lotto, 25, 60, 38? - Non credo sia lui.”
“Sì, lo conosco, non dev’essere lui. Forse Van Looy?”
“Quello è un giovane ciclista! Forse intendi dire Van Gogh.”
“Esatto! Proprio Van Gogh, lo conosci?”
“Lo conosco sì, un giorno mi fece una marachella proprio grossa, anziché un dentino, mi lasciò sotto al letto il suo orecchio! Ohi che spavento! Però l’ho perdonato, era un grande pittore. Quanto costa questo quadro?”
“Diecimila lire!”
“Oh SNXGML! (voi direste oh mamma) Diecimila sono tantissime. Dammi il tempo di tornare a Dentinia, vedrò cosa posso fare” e corse a infilarsi in un buco che non avevo mai notato.
Era quasi l’alba quando ritornò, trafelato. Tra i denti aveva, ripiegata, una banconota che a quei tempi sembrava enorme: la rossa banconota da diecimila lire.
“Oh Denty, ce l’hai fatta, come potrò mai ringraziarti?” quasi gridai, felice.
“Tu sei stato buono con me” disse il topolino “avresti potuto spaventarti e farmi del male, ma non l’hai fatto, anzi, ho trovato un nuovo amico e chi trova un amico trova un tesoro, non dimenticarlo mai, io non lo dimenticherò. Ora devo proprio andarmene. Ah sì, il dentino, mi stavo dimenticando di lui.”
In quel momento, era l’alba ho detto, entrò in cucina la mamma reggendo tutte le tazze del servizio buono: era quasi ora di colazione.
“Aiuto, un topo” gridò e, per lo spavento, lasciò cadere a terra tutte le tazze. Logicamente non se ne salvò nemmeno una. Non posso dimenticare la sua espressione quando si mise a piangere per il dispiacere. Io allora le dissi
“Mamma non piangere, te le ricompro tutte io le tazze, guarda cosa mi ha portato il topolino dei denti.”
Lei rimase senza parole e mi abbracciò. Niente quadro, il mare l’avrei visto un’altra volta, l’importante era che la mamma sorridesse di nuovo. Con le diecimila lire comprammo un servizio nuovo e con il piccolo avanzo lei volle acquistare una trappola per topi. Ogni sera metteva un pezzetto di formaggio sul meccanismo che avrebbe potuto catturare Denty e ogni notte io disinnescavo la trappola facendo sparire il formaggio. Ogni mattina la mamma diceva
“Ce l’ha fatta ancora una volta, quel topo è proprio un furbastro.”
“Eh sì, è proprio un furbastro” ripetevo io.
Non lo rividi mai più. Sicuramente per ogni dentino lasciato trovai una banconota da 100 lire.
Molto tempo è passato, la mamma purtroppo non c’è più e Denty, superati i cent’anni, è in pensione. Forse se ne sta con i nipotini, forse è rimasto scapolo. Io lo immagino a Rovaniemi, nel magazzino di Babbo Natale, non mi sembrava tipo da sposarsi.

venerdì 8 giugno 2018

Bruno Bianco - Il valore delle cose

Esco di casa che sono quasi le nove ed ancora chiaro. Mi è sempre piaciuta 1’ estate con il clima caldo, le giornate lunghe e la voglia di fare festa tutti i giorni; sarà per questo motivo che è una vita che sto nella Pro Loco e ci starò ancora per tanti anni. Stasera farò valere le mie ragioni perché non ho fatto niente di sbagliato; tanto lo so che è solo perché Mario e i suoi amici vogliono prendere il mio posto e per farlo passano le giornate a inventarsi i motivi più stupidi. Ho deciso di non prendere la macchina e di andare a piedi; così ho il tempo di raccogliere le idee e ripetermi ancora una volta le parole che ho intenzione di dire. Davanti alla bacheca dei manifesti funebri mi fermo come ogni volta che ci passo davanti, ma stavolta quello che leggo mi coglie impreparato: “Professoressa Anna Conforti di anni 86”. In un momento la bobina dei ricordi si svolge veloce all’indietro e mi ritrovo di nuovo nell’aula del Liceo Scientifico Ugo Foscolo, IV B.
La professoressa Anna Conforti era famosa in tutta la scuola per il modo piuttosto “creativo” di tenere le sue lezioni. Sul latino per carità non le si poteva dire niente; ricordava senza mai un errore le declinazioni, la consecutio temporum, i verbi irregolari e aveva una sensibilità spiccata nelle traduzioni anche più complicate. Dove invece dava il meglio della sua inventiva era nella letteratura italiana. Raccontava i Promessi Sposi come se si trovasse sotto al casco dalla parrucchiera e le storie dei vari Renzo, Lucia e Don Rodrigo diventavano vive e divertenti come i più gustosi pettegolezzi paesani. Spiegava le poesie di Leopardi come se il grande poeta fosse il figlio timido di un suo vicino di casa che le raccontava personalmente le difficolta quotidiane che il ragazzo incontrava nelle relazioni interpersonali con i suoi coetanei.
Per non parlare dei nomi dei vari poeti e scrittori; non ne imbroccava uno che ti faceva venire il dubbio se lo facesse apposta o se fosse proprio un suo limite cerebrale; Manzoni lo chiamava Carlo, Leopardi prendeva il nome di Franco, Carducci era Michele e persino il sommo Dante diventava Enrico Alighieri. Una volta eravamo tutti riuniti per l’inaugurazione della nuova palestra con presente il Provveditore in persona e la professoressa Conforti aveva fatto il discorso a nome di tutti i professori: “Sono orgogliosa di parlare in rappresentanza di tutto il corpo docente del nostro amato Liceo Scientifico Ezio Foscolo..”. A parte quelli del primo anno che forse dovevano ancora ambientarsi, tutti gli studenti più grandi erano scoppiati a ridere con la nostra preside che era diventata più bianca delle pareti dei nuovi spogliatoi e le autorità che pensavano quanto erano stati ignoranti fino ad allora nella convinzione che Foscolo si chiamasse Ugo invece di Ezio. “Secondo me la professoressa Conforti la laurea l’ha comprata” diceva ogni tanto qualcuno dopo averne sentita una delle sue, ma io lo sapevo che non era vero. I nonni della professoressa erano originari del mio paesino e i miei genitori mi raccontavano che da ragazza passava sovente l’estate lì; già allora era considerata un tipo stravagante, magari anche un po’ svampitella, ma comunque tutti dicevano che era una studiosa e una testa fine e aveva anche fatto una bella festa per celebrare la sua laurea con 110 e lode.
Però quella mattina 1’ aveva davvero sparata grossa. Stava spiegando che il sommo poeta Enrico (?) Alighieri era andato in esilio perché un suo nemico gli aveva fatto fare un regalo di valore da parte di un persona conosciuta da tutti come disonesta e delinquente; poi aveva dato la notizia a tutta la città  e il povero Enrico (?) anche se incolpevole aveva preferito l’esilio piuttosto che doversi discolpare da un’accusa infamante. Dall’ultimo banco Giovanni, noto per essere uno degli allievi più disattenti della classe, si era svegliato dal torpore che lo prendeva sempre quando spiegava la professoressa Conforti e si era messo a parlottare ridacchiando con i vicini di banco.
-Ma è successo alla Piovra! E’ capitato la stessa cosa proprio nella puntata della Piovra di ieri sera!-
La notizia che la professoressa Conforti per spiegare l’esilio Dante aveva inventato una storia presa dalla serie televisiva più famosa del momento era arrivata fino ai banchi delle prime file; il chiacchiericcio e le risate avevano superato abbondantemente il livello di guardia e anche la professoressa si era accorta di quanto stava capitando.
-Non siamo mica al mercato! Giovanni, cosa racconti di interessante da far divertire così tanto i tuoi compagni?-
-Niente professoressa, ma è davvero strano che a Dante sia capitato proprio quello che è successo ieri nella puntata della Piovra; un mafioso ha fatto un grosso versamento sul conto di un magistrato e poi l’ha fatto scoprire dai giornali per screditarlo.-
La professoressa Conforti era diventata tutta rossa e credo fosse la prima volta in carriera che qualcuno le faceva notare così apertamente le sue stravaganze didattiche; poi aveva bevuto un bel sorso dalla bottiglietta che teneva sulla scrivania, si era riassettata i capelli con le mani e in un minuto aveva ripreso tutta la sua dignità accademica.
-Sapete cos’ha poi fatto il magistrato della Piovra dopo lo scandalo? Si è dimesso! Poteva difendersi, urlare la sua innocenza, sbandierare la sua onestà; invece ha preferito andarsene, proprio come tanti anni prima aveva fatto Enrico Alighieri. E sapete perché lo hanno fatto? Perché se hai un incarico pubblico, se hai chiesto agli altri di mettere anche solo qualche grammo della loro vita quotidiana nelle tue mani, allora non basta essere onesti ma bisogna anche sembrarlo. Come cantava Luigi (?) Venditti, né io né voi sappiamo se l’Alighieri era un uomo libero, un fallito o un servo di partito, però ha deciso di seguire le parole del grande drammaturgo Mario (?) Brecht: “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati”.
La porta della vecchia scuola elementare dove adesso c’è la sede della Pro Loco fa sparire dai miei occhi l’immagine dell’aula del liceo e mi riporta alla quotidianità del presente e alla riunione straordinaria del consiglio direttivo di questa sera. Avevo preparato un appassionato discorso su come è stato il mio modo di fare il presidente in tutti questi anni, sul fatto che la premiata macelleria Franco  Rovato e figli è famosa in tutto il circondario per l’eccellenza della sua carne, che tutte le forniture alla Pro Loco per i vari eventi gastronomici sono sempre state di ottima qualità e a un prezzo equo, che 1’ unico motivo per cui mi sono servito dalla macelleria Rovato per la festa dei diciott’anni di mio figlio e perché non esiste una macelleria migliore nella zona, che la carne è stata pagata con regolare scontrino alla consegna stessa e in ultimo che tutti sanno bene che le maldicenze sono state messe in giro ad arte dai soliti nomi che sanno solo parlare senza mai dare un contributo se non quello di puntare alla presidenza della Pro Loco.
Questo era quanto volevo dire, ma adesso so bene che userò parole diverse perché mi sono ricordato di alcuni aspetti importanti che negli anni avevo dimenticato. Che la vita deve essere un giusto equilibrio tra quello che hai e quello che ti manca. Che se hai chiesto agli altri di mettere anche solo qualche grammo della loro vita quotidiana nelle tue mani, allora non basta essere onesti, ma bisogna anche sembrarlo. Che non l’ha prescritto il medico di fare il presidente della Pro Loco o qualunque incarico pubblico più o meno importante; ma se decidi di farlo allora devi accettare qualche limitazione e la carne per la festa di tuo figlio devi prenderla da un macellaio diverso da quello che fornisce la Pro Loco anche se magari meno bravo. Citando Bertolt Brecht, anzi Mario Brecht come direbbe la grande professoressa Anna Conforti, invece di spiegare le mie ragioni mi siederò dalla parte del torto e lascerò che altri prendano il ruolo di presidente; così in futuro non avrò più nessun problema a prendere la pregiata carne della macelleria Franco Rovato e figli.
Perché se vuoi riflettere sui tuoi atteggiamenti, se vuoi cercare le spiegazioni ai tuoi comportamenti, se vuoi capire l’importanza di quello che hai e soprattutto se vuoi dare il giusto valore a quello che non hai, quando entri in una stanza devi sederti dalla parte del torto. E il motivo sta tutto nel fatto che dalla parte della ragione, chissà mai per quale oscuro motivo, è sempre tutto occupato.
E’ sempre tutto pieno.

mercoledì 6 giugno 2018

Rolando Perri - Per colpa di orexina

In una fattoria del territorio carrarese, distante alcuni chilometri dal centro abitato della città e situata in un’area collinare da cui era visibile lo spettacolo naturale, affascinante e foriero di fecondità economica, formato dalle cave di marmo bianco, la vita sembrava scorrere nella normalità e, forse, nel tran tran quotidiano di una noia incontrovertibile.
Una famigliola costituita dai genitori, Lapo e Lucrezia, e da due figli, Ceccardo ed Eleonora.
Il primogenito, su cui si puntava molto per fare il salto di qualità e occupare un gradino più elevato nella gerarchia della società di allora, era nato cinque anni prima della sorella, che finiva per essere la favorita e la più coccolata da tutti.
Il tipico nucleo familiare ridotto nel numero, senza eccessive pretese di effetti speciali, della provincia italiana al tempo del boom economico nel periodo cruciale degli Anni Sessanta inoltrati, quando il nostro Paese cercava di cambiare marcia e di pianificare la vita individuale e comunitaria, centrata sul progresso e sul benessere dopo la fase buia della Seconda Guerra Mondiale.
I coniugi De Silvestri – poca cultura come è facile dedurre dal contesto storico appena accennato e molta fatica, tanto lavoro testimoniato dalle mani callose e dai volti solcati da rughe profonde – continuavano la tradizione agro-silvo-pastorale dei loro avi, caratteristica di quella località.
Un’attività remunerativa che presupponeva, però, impegno costante, sacrifici a non finire e parecchie privazioni, dettate dalla stessa tipicità del lavoro da inanellare in gran parte delle ore della giornata e in tutte le stagioni dell’anno.
La scintilla che aveva fatto scoccare l’amore autentico, spontaneo e disinteressato, rispetto a possibili altri parametri di scelta, fra Lapo e Lucrezia era da ricercare nel tempo, risaliva alla loro infanzia, per concretizzarsi allorquando entrambi erano giovani con un’età pressoché uguale.
Erano convolati a nozze poco più che ventenni con l’idea precisa di tirare su una famiglia, non numerosa come solitamente avveniva in quel torno temporale, che avrebbe dovuto proseguire sulla scia lavorativa tracciata dai nonni e dai bisnonni.
Dopo il matrimonio, la prole tanto agognata da ambedue a coronamento delle loro aspirazioni sentimentali tardava a venire. Erano trascorsi alcuni anni, ma il primo figlio non voleva proprio arrivare. Né era ipotizzabile il ricorso ad alcuna cura facilitatrice della fertilità, probabilmente carente, considerate le conoscenze dei diretti interessati altresì la riservatezza e la barriera mentale, che impedivano loro di rivolgersi ad altra persona, seppure il medico di famiglia.
Non restava altro che guardare più in alto lassù a Qualcuno che intercedesse o perorasse la loro causa.
Le implorazioni, evidentemente, avevano avuto un effetto positivo, si erano trasformate in speranze materializzate con la nascita del primo figlio dopo tanta, sfibrante e impaziente attesa. I due giovani erano persone devote e manifestavano la loro religiosità con atti fattuali di generosità verso gli altri e a favore della parrocchia frequentata compatibilmente con le loro occupazioni.
Essi avevano una particolare predilezione per il Patrono di Carrara, San Ceccardo, di conseguenza, il nome dato al neonato non poteva essere che quello, rompendo così con una pratica consolidata, la quale, quasi sempre, si basava sull’attribuire ai discendenti i nomi degli ascendenti diretti.
Invero, Ceccardo era un nome non comune, diffuso da quelle parti e, talvolta, oggetto di commenti poco lusinghieri soprattutto tra i ragazzi con lo scopo di scherzarvi sopra e, ancor peggio, di dileggiare il compagno di giochi che lo aveva ricevuto alla fonte battesimale.
Cosa che avveniva puntualmente, quando il ragazzone, anche a motivo dell’altezza e della robustezza del suo corpo, talmente precoce nella crescita in confronto all’età di sei e più anni, frequentava la Scuola Elementare, prima, e le classi della Media, dopo, pur non avendo concluso il ciclo di studi di quest’ultimo segmento scolastico.
A tutto questo bisognava aggiungere alcuni episodi singolari che avevano visto protagonista Ceccardo nel corso della sua vita scolastica e nel gruppo dei pari bazzicati.
Era successo con una certa frequenza che, durante le interrogazioni vicino alla cattedra, così concepite e usuali nella scuola di quel tempo, egli invece di rispondere alle domande della maestra su alcuni fatti storici, di botto, si trovasse per terra senza proferire parola alcuna, suscitando persino l’ilarità dei suoi compagni. Tale particolare atteggiamento si reiterava anche in situazioni simili, quantunque l’argomento trattato fosse diverso, oppure Ceccardo venisse chiamato ad abbozzare qualche esercitazione di geometria alla lavagna.
E, ancora, nel corso di un litigio violento in palestra con un suo coetaneo, in raffronto al quale egli avrebbe dovuto ottenere la meglio in quanto lo sovrastava fisicamente, inopinatamente, crollava giù, lasciandosi sopraffare dall’altro.
La cosa si ripeteva, sorprendentemente, durante la disputa di una partita di calcio fra compagini opposte nel momento in cui il ragazzo si rendeva artefice di un’azione  veloce ed efficace tanto da segnare un gol agli avversari e, all’atto iniziale di euforia di sé e degli altri suoi colleghi di squadra, si accasciava al suolo quasi fosse stato tramortito da qualcuno o da qualcosa.
C’era il sospetto, da parte di non pochi, che Ceccardo lo facesse apposta per essere al centro dell’attenzione. E i suoi pari, in virtù del loro modo di pensare e di vedere, gli avevano appioppato il nomignolo, non certamente edificante, di Cardo, con un richiamo specifico alla pianta molto nota per le sue qualità medicamentose.
La maestra si era lamentata continuamente con i genitori, i quali si sentivano impotenti dinnanzi ai fatti accaduti, anzi, avvertivano vergogna e si scusavano per quelle azioni compiute dal figlio. Essi erano stati convinti dalla stessa docente che la scuola non era adatta a lui e che avrebbero fatto meglio tenerlo a casa, per impegnarlo nelle varie manutenzioni della  fattoria, ovvero avviarlo ad apprendere un mestiere in una segheria della zona marmifera, anche per la sua predisposizione a un lavoro eminentemente manuale.
Completata a stento la Scuola Primaria e ormai grandicello, Ceccardo si accingeva a frequentare il primo anno di Scuola Media, tuttavia, già nei mesi iniziali si profilava il definitivo abbandono degli studi per i quali, sulla scorta di quanto asserivano finanche quei professori, non aveva alcuna inclinazione.
Egli veniva bollato, dunque, col marchio di alunno disadattato nella migliore delle ipotesi.
Quest’ultima breve parentesi scolastica aveva dato, però, l’opportunità al ragazzo di intrattenere con una sua coetanea una fiorente amicizia che, sfortunatamente per lui, si era  vanificata e interrotta già sul nascere. Qualcosa di identico  a quanto registrato in precedenza si era verificato, infatti,  nell’attimo in cui egli stringeva la mano all’amica per rivelarle i suoi sentimenti: Ceccardo si trovava in un battibaleno disteso giù sulla strada senza poter controllare i suoi gesti.
La ragazza irritata e, nel contempo, spaventata scappava via con l’intenzione di non volerlo più incontrare.
A ben vedere, tutto quello che aveva connotato la condotta di Ceccardo, nei frangenti descritti,  appariva talmente balzano da meritare un approfondimento, invece, con grande superficialità i suoi genitori e  i docenti avevano archiviato il caso.
Un dettaglio non trascurabile, per nulla preso in considerazione, afferiva difatti alla condizione psico-fisica del ragazzo dopo quelle estemporanee e repentine cadute: sembrava dimenarsi in un crogiolo di torpore molto contiguo al sonno che, peraltro, si affacciava a intermittenza sporadicamente nelle ore diurne.
I coniugi De Silvestri, a quel punto, recepivano appieno il suggerimento della vecchia maestra di Ceccardo: incominciava per lui l’apprendistato in una segheria specializzata nella riduzione e nella lucidatura delle bancate di marmo bianco.
Egli si rendeva autore, stranamente, di veri e propri furtarelli di esigue quantità di marmo che restavano dopo la lavorazione di quei blocchi più grandi. Quelle piccole porzioni marmoree venivano portate da lui in un magazzino abbandonato e fuori uso della sua fattoria, che si era premunito di chiudere ermeticamente.
Cosa facesse con quel marmo bianco rimaneva un mistero tutto intero da svelare.
La sorella Eleonora si era accorta del viavai del fratello nel tempo libero in quel locale, si era avvicinata di soppiatto per scrutare all’interno, ma con scarsi risultati, né aveva riferito qualcosa ai suoi genitori.
Lapo  De Silvestri una mattina lavorativa si era trovato in prossimità di quel magazzino e aveva notato la chiusura della porta di cui era all’oscuro. Forzava la serratura, entrava e si trovava al cospetto di una vera e propria collezione di volti di donne scolpiti su minuscoli pezzi di marmo con a fianco gli attrezzi del mestiere, tanti scalpelli.
Una visione suggestiva, meravigliosa e impareggiabile.
L’autore non poteva che essere Ceccardo.
Sì, quel ragazzo era affetto da narcolessia, un disturbo del sonno che gli provocava ipersonnia, dovuto alla carenza di orexina, un ormone che il suo ipotalamo non voleva produrre.
In più, egli – di fronte a situazioni altamente emotive, come quelle rappresentate – perdeva istantaneamente il tono muscolare sino ad addormentarsi quasi del tutto.
Ebbene, un fatto stupefacente si era generato nel suo caso: Ceccardo, rielaborando le immagini o, meglio, le allucinazioni ipnagogiche di quando si addormentava, era riuscito con volontà estrema e con altrettanta intelligenza creativa a convogliare il tutto nelle piccole opere d’arte prodotte, veri e propri capolavori in miniatura.
Una sorta di antidoto a una situazione temporaneamente invalidante.
Una terapia d’urto cercata e attuata dentro di sé senza alcun trattamento medico.
Per il resto della vita, egli sarà un eccellente e affermato scultore.

martedì 5 giugno 2018

Piergiuseppe Gaido - Assenza

Acqua che scorre
in mancanza di dimora protetta,
superficie senza sentiero,
rimpianto di tracce smarrite.
In un luogo dove il tempo sono io stesso,
stringo desideri tra le dita.
Gli occhi riflettono lo specchio,
mentre cadono lacrime
e muoiono in un secchio.
E' difficile toccare un addio,
il mio andare illimitato diventa mare,
il profumo di questa storia senza radici,
si confonde con quello delle viole in giardino.
Sogno spesso la tua voce
e quell'assenza che non è mai stata.
Forse è per questo che la porterò con me.
Per sempre .

venerdì 1 giugno 2018

Andrea Talamoni - Nell’aprile della mia sola primavera

E se non ho pace
attraverso questi campi
infiniti di vento,
strappati dalle mie mani
come ore di un passato
in cui non sono stato attento.
Quello che non ho
è un pensiero vicino,
quello che non sento
si aggrappa agli occhi
di una memoria spenta.
E così bendata la mia solitudine
inciampa sulle tue certezze,
sono solo, e privo di coraggio
come un bambino nell’aprile
della sua sola primavera.
Quello che non ho,
è una camicia bianca,
che mi difenda da questa
pace d’argento.