giovedì 7 giugno 2012

Tommaso Airoldi - Verdi rimedi

Verdi rimedi

Rovescio la barca della purezza
entrando di getto nei tuoi sogni
dono alle labbra un'innata ebrezza
morbida scheggia nei tuoi bisogni

Mentre perforo le strenue difese
e in te cerco una verde montagna
vagando in auto senza pretese
a Marcallo mi imbatto in viale Padania

Che arduo trovare la giusta poesia
un luogo appartato che possa ispirare
un verso non basta, che malinconia
meglio un diamante comprato in Tanzania.

Stefania Dondi - L'attrazione di fuoco


L'attrazione di fuoco

Risuona nella notte profonda una fiamma perpetua.
È l’anima della ciminiera, visibile da cotanta distanza
come dal fiume nella quale si specchia fiera.

Polvere nera. Sulle finestre
sul mobile antico della nonna
nei polmoni che si dilatano fino allo spasmo.

Rumore e indignazione sembrano spegnerla, smorzarne la fiamma
ma quando la nebbia dai prati silenziosamente sale
le strade si animano a festa e nulla sembra essere cambiato.

Polvere bianca. Dove il denaro canta
la musica tace e una voce compiacente
ricorda il regalo ai bambini della scuola.

mercoledì 30 maggio 2012

Isabella Carlone - Metal detector


Metal detector


Prima di farmi scappare via per sempre,
dammi ancora un ultimo bacio
davanti al metal detector.

Creiamo invidia in quegli aridi che sanno portare un bagaglio,
ma non  il cuore in mano.
I loro sguardi accusatori da Medusa verranno respinti dal nostro scudo d'indifferenza.
Non ci sarà alcuna interferenza che scalfirà il nostro
 primo,
unico
e
ultimo
addio;
nessuno potrà rovinarlo, perché ce lo
MERITIAMO.

Prima di farmi varcare il confine per sempre,
dammi ancora un ultimo bacio
davanti al metal detector.

Così sarei sicura di oltrepassare la porta a prova di terrorista,
con un muscolo
PULSANTE
e non con un
freddo
oggetto di metallo
incastonato
nel mediastino. 
Eviterei l'imbarazzo di suonare.

Le promesse da marinaio cosa diventano all'aeroporto?
Da aviatore?
Il risultato è sempre lo stesso:
un vuoto interiore che provo a colmare col calore dei primi raggi solari,
ma sono già ustionata dalla tua assenza.
Meglio non infierire, per evitare la lungodegenza.

Non mi rimane che dormire
e
SPERARE
che tu voglia tornare a danzare
nella mia dimensione onirica,
per poi baciarmi
davanti al metal detector.

A differenza della realtà,
non m'imbarcherei e prolungherei quest'istante.
Peccato che non abbia il sonno pesante.

Giuseppe Montaquila - Bacio


Bacio

Schiocco di labbra
che lentamente si sfiorano,
e si scambian festose
 gli intensi sapori
dell’umana passione
sulle note sublimi
di questo suono labiale
che proviene dal cuore.
Quante parole, quanti progetti,
 quante intese
racchiusi in quest’unico gesto
di chi, innamorato,
fissa lo sguardo negli occhi,
scruta l’anima
in cerca di risposte
ai dubbi affannosi
che l’Amor produce
ad ogni palpito.

venerdì 25 maggio 2012

Yuri Astolfi - Miracolo raffinato


Miracolo raffinato


C'è una cattedrale d'acciaio
incastrata tra i campi allagati
che l'abbracciano di specchi,
dove ogni giorno avviene un miracolo chimicosociale:
tonnellate di grezzo capitalismo
mutano in raffinata democrazia statale.
Liquido vitale quanto il sangue
per chi solo sulla sua auto
gusta la virile libertà.
Trapassato sogno americano.
L'atto è compiuto ed ancora si compirà.
Non importa per l'ambiente stuprato
o per la polvere nera dentro ad ogni fiato,
chi fa profitti chi incassa gli interessi
non nutre la sua famiglia all'ombra delle ciminiere,
e dai camini può anche piovere veleno
ciò che importa sono le tasche piene
e starne ben lontano.

Yuri Astolfi - R...esiste


R...esiste

Esiste una non vita che eppure appare attiva
ed accostata allo stile sobrio inculcato alla massa,
mai lontano dallo schermo d'ogni salotto.
Esistono non vite occasionali per i frutti acerbi
che per decenni marciranno nello spirito,
inseguendo la logica dignità alla quale sono stati educati.
Esiste un futuro rubato al pensionato
che solo a settant'anni ha diritto e si riposa,
ed un futuro dannato per chi invece ancora deve mettersi alla prova.
Esistono mammoni,cervelli fugaci ed occupati giornalieri
ad armi impari ma sempre contrapposti
ai papponi,ai furbetti rapaci e agli eletti leccaculo.
Esistono contratti che non guardano lontano
e conseguenti le banche attente
fan le orecchie,più che mai,da mercante.
Esistono decine di modelli d'assunzione
ben lungi da servire al dipendente,
ma bene attenti alle esigenze del padrone.
Non esiste l'appetitoso piatto delle certezze,
che dopo breve e gustoso assaggio
è stato tolto con scherno alla generazione entrante.
Esiste la paura,ma non nell'universo
di chi è stato amputato dell'avvenire:
in questi non ha più ragione d'essere.
La paura,ora,deve appartenere solo a chi permette questo.


Alessandro Ubaldi - Una goccia di speranza in un oceano di disperazione


Il cielo era completamente coperto di nubi, un tuono squarciò quel manto scuro e insieme alla sua eco si espanse una luce accecante, presto quelle nubi minacciose lasceranno al loro seguito una pioggia battente.
Cadono le prime gocce, eccomi, parto per il mio viaggio annuale, senza una meta precisa, posso vedere, curiosare ed osservare; quanti bei ricordi porterò con me!
Sono limpida, emozionata dalla mia trasparenza, elegante, scintillante, dai mille volti, dalle tante trasformazioni. Scivolo sui vetri, mi addormento dentro un fiore, cado sui sassi, scendo a valle, disseto prati, dove mandrie di animali verranno a pascolare e uomini a raccogliere bacche.
Quante volte, a furia di evaporare e di ripiovere, sono nevicata in cima a un monte, al disgelo sono penetrata nella fessura di una roccia e a volte sfociata in mare aperto, ogni volta la meta è diversa e una leggera brezza o una tormenta implacabile possono alterare il mio tragitto.
Ma fra tanta euforia, dove sono finita? Intravedo delle case, dei viottoli alberati, attorno campi coltivati e … sento in lontananza schiamazzi, risa di bambini che si rincorrono, si rotolano, giocano con un aquilone che volteggia inseguendo l’arcobaleno, tutt’intorno sembra tranquillo, pacato, sarà di certo una piccola isola felice.
Seguo i rumori, e le voci si fanno sempre più forti, infondono allegria, quei bambini hanno le guance rosse, non rammento che giorno fosse, provo a vedere dove mi trovo, sulla carta geografica questo paesello di campagna è contrassegnato con un insignificante pallino grigio, penso che forse non avrò niente di così interessante né di curioso da vedere.
Il caldo sole di primavera mi invita a tuffarmi nel laghetto, dove un susseguirsi di caprette vengono ad abbeverarsi, non resisto, la vista di quell’acqua mi attira, mi butto … ma ahimè! che brividi! sembra non esserci più vita, ci sono pesci morti che galleggiano, cosa sarà successo? Guardo intorno e vedo i larici coprirsi di teneri germogli dai quali spuntano fiori, è uno spettacolo perché la brina ha ricamato la ragnatela sospesa tra i rami.
Alice, Thomas, Federico, Ingrid raccolgono le margherite e ci fanno corone di fiori, che posano sul capo e si fingono fate e regine. Erano ancora capaci di sorridere al mondo, alla vita, forse perché ancora troppo ingenui, forse perché ignari di quel mostro dai sudici capelli color giallastro, sbiaditi e maleodoranti, che finisce qui la sua corsa.
Nel cuore della notte, proprio quando tutto è ovattato, avverto dei rumori, lentamente viene aperto il cancello divorato dalla ruggine, chiuso con una catena, anch’essa logorata dalle intemperie del tempo e che ad ogni capriccio del vento emette un rumore sordo che echeggia nell’aria.
Due carovane in fila indiana lo attraversano, vedo delle ombre vicino al laghetto che si agitano, che inabissano nelle viscere della terra liquidi neri e un odore acre pervade il paese e gli occhi pizzicano. Rimango perplessa, al mattino tutti si chiedono cos’era, ma senza una risposta, nell’aria rimane solo la nausea di quel gusto nauseabondo e dal sapore amaro.
Non tarda molto e l’estate arriva impetuosa, il sole è là fuori, alto nel cielo , imponente, ma sembra che i raggi non arrivino ad accarezzare le chiome; è abbagliante, soffocante.
Sconfinati campi di grano maturo colorano d’oro il paesaggio, ma al calar della sera non si vedono le lucciole, dove saranno? Questo è proprio uno strano paese!
E’ tardi e quei piccoli continuano a giocare, in circolo seduti con le gambe incrociate come gli indiani raccontano storie, hanno con loro i propri cuccioli. Alice porta con se la sua capretta, è nata da poco e vuole farla conoscere ai suoi amici, ma non è una solita capretta, è nata senza gli arti posteriori, fa difficoltà a muoversi, non può correre, camminare come le altre, ma Alice l’accarezza, gli sussurra parole incoraggianti, la carica sulle spalle e corre, anche gli altri bambini la prendono in braccio e ci giocano, povera bestiola!
Tra me e me, penso che la natura è capricciosa e imprevedibile, alterna sonno e veglia, follia e sofferenza, non conosce mezze misure e quando sembra aver trovato un equilibrio ti sorprende.
Ancora rumori, sono le quattro di notte, si apre di nuovo il cancello, un uomo bianco e tanti altri mostri con delle maschere al volto scaricano liquidi neri, inabissandoli nella terra.
Al mattino le voci si fanno più dure, denunciano il fatto, ma sono respinti come pezzenti.
Quando pian piano l’estate lascia il posto all’autunno, i colori sono forti, gli uccelli volano leggiadri nel cielo, l’odore ha il sapore forte del vino nuovo che riposa tranquillo, ma pian piano diventa amaro come il caffè, la piccola capretta di Alice muore, viene sepolta vicino al laghetto perché possa ancora sentire le voci dei piccoli che giocano.
Ancora una notte insonne, ancora una volta qualcuno apre quel cancello, ancora uomini bianchi come angeli versano liquido, fiumi impetuosi  che bagnano quella terra, facendo raggrinzire quei ciuffi d’erba incolta che piegandosi su se stessi, finiscono al suolo, poi le loro sagome si nascondono velocemente tra la foschia.
Ecco che l’urlo collettivo fa eco, ma svanisce come nell’occhio di un uragano.
Il tempo sembra volgere inesorabile, l’inverno si è presentato con prepotenza, è in bianco e nero, la luce del giorno è breve e le notti senza stelle.
Corre veloce la notizia che è nato il piccolo fratellino di Alice, Lorenzo, un nuovo amico di giochi, ma non ha il sapore della gioia, i volti scuri, adombrati, anche l’aquilone cade al suolo, il piccolo Lorenzo è nato con l’arto destro incompleto, bisogna intervenire subito, amputargli la gamba e sostituirla con una protesi. Inizia la corsa, ospedali, medici, cliniche specializzate, viaggi, sofferenze, i genitori hanno il dolore scolpito in quella faccia di cera, c’è tanta tristezza negli occhi della gente, sono mesi lunghissimi, difficili, tra speranze e delusione, ma ecco che finalmente Lorenzo ritorna a casa nel suo paese.
Povero piccolo, lo stesso destino della sua capretta!
Ora comincio a capire chi sono i tanti fantasmi che si muovono indisturbati per questo paese. Quegli angeli bianchi, infernali, come assassini, hanno preso la vita di questa gente. Io sono solo un misero frammento di questo patrimonio e mentre mi ritrovo qui a vegetare, osservo e penso che dentro quelle tute non c’è un cuore, ma solo una marionetta insensibile. Pensavo che i fantasmi non esistessero, invece sono proprio qui, tra noi, come un vecchio che viene da un mondo antico, che cammina indifferente sotto il suo cappello, con i lineamenti non ben definiti, che vende la nostra terra per denaro e la uccide senza ripensamenti.
In un istante sono passati anni si sono alternate stagioni, in un batter di ciglio passerà la mia vita e la mia anima tornerà dal niente, da dove sono venuta, ma porterò con me solo i tristi ricordi, solo i volti di questa gente tradita, non sarò più trasparente, ma opaca e mi dico: «non essere triste gocciolina, non sei giunta alla fine, potrai ritornare cristallo di ghiaccio sulla cima di una montagna e riprendere il tuo viaggio».
Un tuono rimbombò dando inizio alle danze, un bagliore quasi accecante penetrò debolmente e mi mostrò una scala di fasci di luce. Risalii con fatica fino a raggiungere il soffice manto delle nuvole, dall’alto  scorgevo quel cimitero senza croci. Non ho mai capito cosa fossero quelle piccole goccioline nere che, troppo pesanti per volare, se ne stavano laggiù, accatastate, inconsapevoli del loro destino.
Di nuovo respiro a pieni polmoni, cercando di gustarmi ogni piccola particella di quest’aria così vellutata, che sotto forma di scie di vento descrive un tragitto confuso. Scivolo via come la prima volta e precipito quasi danzando su una pagina di giornale un po’ sbiadita, che aspettava di essere gettata, perché del giorno precedente.
Notai subito un particolare che richiamò alla mente la mia avventura, in quello stralcio di giornale dominava, su tutte le scritte sbiadite, quella foto ancora così chiara di Lorenzo, dietro le sue spalle si vedevano quelle montagne minacciose, piene di liquami velenosi e si leggeva: “quando decine di camion scaricavano tonnellate di rifiuti ogni giorno, noi protestavamo ma nessuno ci ascoltava, nessuno controllava. Ora i Noe hanno sequestrato quella cava, ma  nessuno è intervenuto per la bonifica, siamo stati abbandonati”.
Il dramma di Lorenzo non è finito, tutti sono stati assolti, tranne lui, che per tutta la vita dovrà continuare a scontare la pena della sua malformazione.
E così pian piano anche l’immagine di Lorenzo svanisce, ma questo inchiostro che lentamente scivola dalle pagine, si espande; ma la sua immagine rimane presente, anche se in una diversa disposizione.
E’ più il male che porta una scura goccia che scivola al suolo da quei camion, che la purezza che ripristina una limpida goccia d’acqua.
Caro piccolo, vedo la tua innocenza, la voglia di afferrare l’inafferrabile, ti osservo quando zoppicando corri avanti e indietro. Al vento i tuoi riccioli neri svolazzano come libellule, sento la tua voce gioire, intravedo dentro i tuoi occhioni neri la gioia di vivere e l’amaro della vita.
Sarà proprio con questi occhi che ti vedrai crescere, farti grande, diventare alto, le tue braccia forti e invecchiare.
Guarderai in faccia il mondo, non odiarlo, irati contro le ingiustizie, sopporta con pazienza il dolore, ricordati di non frenare la voglia di cambiarlo.








Daniele Bevilacqua - Inside - La direzione per conoscersi dentro


Melissa Darche è deceduta nella nostra dimensione reale il 18 ottobre 2011.
Quella sera pioveva in modo torrenziale.
Il suo corpo è stato trovato senza alcun segno di vita in un modesto quartiere di Manhattan, precisamente in un bagno del “White rabbit’s ”. Nel bagno del locale sono stati ritrovati accanto alla salma, alcuni evidenti detriti che costituivano le pareti della toilette. La spiegazione più plausibile che la scientifica e la stampa giornalistica hanno depositato, è che la pioggia, filtrandosi dalle fughe di areazione sopra il complesso centrale dell’impianto di energia elettrica, abbia scatenato un violento cortocircuito che si è scaturito nella zona dei bagni del locale. La potente scarica ha fatto breccia sulle pareti delle toilette, frantumandone alcune.
Una di queste, proprio Melissa ne fece uso quella sera.


Buongiorno Elite, buongiorno!


Eccomi.
Ho sempre saputo che il tempo sia un’arma a doppio taglio. Alcuni sostengono che abbia la capacità di guarire profonde ferite o ricorrenti sensazioni significative. Tanti altri invece sono convinti che non sia altro che una sottile strada interiore che tutti noi dobbiamo percorrere lungo il sentiero chiamato “vita”. E perché no? c’è anche chi presta attenzione al tempo come un pesante calcolatore, che incide sulla nostra giovinezza e immaginazione.
Che incuti terrore o speranza, il tempo non è mai abbastanza per imparare a conoscersi dentro.
Un giorno ti svegli e divieni consapevole che il mondo la fuori appare in un “vestito vergine” , ti guardi indietro e pensi che la felicità l’hai sempre trovata negli sguardi degli altri, allora decidi di volere cambiare le cose, cercare di imparare a sorridere con pura maturità.
A volte sarebbe bello parlare attraverso il tempo, senza condannarlo. Gli stereotipi di sensualità e bellezza mutano in generazione in generazione, ma ieri come oggi la frase “ti amo” sono solo 2 parole, cinque lettere, che non servono a niente se non vi è qualcuno che le vuole sentire.
Fin dall’età adolescenziale ho fatto parte di questo “mondo” tossico, di cui sono pochi i valori per la quale oggi posso essere fiera, mi riferisco al piccolo cerchio dell’elite di Manhattan. Tutto ciò che porto addosso con vero clamore è il mio nome: Melissa Darche. Non riesco neanche a immaginare quante volte è stato attribuito alla mia identità, l’idea di poter fare ogni cosa che mi girava per la testa.  – “Ma tu sei Melissa Darche, puoi essere ciò che vuoi e fare tutto quello che ti piace nella tua vita” – ecco cosa mi è sempre stato ribadito fin dalla mia giovinezza. La verità e che dietro alla presenza di una bella ragazza bionda dalle gambe chilometriche, non  c’era che fragilità e impotenza. Il denaro e le mie avventure con uomini importanti hanno solo generato la falsa stabilità interiore che tento di esternare.
Ricordo ancora il primo evento che decretò la nascita di “Melissa Darche”al mondo del gossip. Divenni parte di questa realtà  per aver indossato una maglietta davvero scollata e molto bagnata sul pullman in una gita di ritorno, al liceo. A volte incolpo mio padre, William Darche, famoso impresario e costruttore immobiliare, che ha dato alla mia famiglia il grande peso del nostro cognome.
Certo essere la figlia dell’uomo che dagli anni 80 costruì su tutta la città il suo impero, ha dato sostanzialmente grandi seccature per tutto il percorso della mia esistenza.
Ad oggi mi ritrovo con 4 matrimoni alle spalle, uno in corso, ricordi sfocati di feste , brunch e tutti gli sbagli che ancora si riflettono sul mio presente,senza lasciarmi lo spazio per imparare da essi.
Il mio attuale marito, Bart Van Der Birth, deputato democratico di New York, fa parte di una dinastia colossalmente incedente nel mondo politico. Vivo con la mia attuale famiglia in un attico del Palace Hotel, dato che a mio marito non piacevano i colori delle pareti della casa in cui abitavo prima. Ebbi 2 figli dal mio primo marito: Charles e Samantha. Su entrambi feci pesare i miei insuccessi esistenziali, e ora come ora a parte importanti fondi fiduciari a loro nome, i miei figli non riconoscono nulla di concreto in loro madre.
Per quanto concerne la mia stabilità psichica, ho contratto dalla nascita di Samantha, ricorrenti stati di sonnambulismo e sogni che probabilmente rispondono al mio subconscio. Il dottore di famiglia mi diagnosticò 19 anni fa una sorta di ansia post-parto, che giustificava questi miei problemi notturni, ma ad oggi, a 41 anni, le mie notti sono ancora disturbate da altarini del passato.
Nel 1995 mi laureai in fisica, con un master di specializzazione nel 1998 per l’approfondimento del multi universo e le dimensioni tangenti. L’unica giustificazione ai miei studi universitari fu il fatto che persi la mia migliore amica Vanessa ai tempi delle medie. Lei aveva una passione smisurata per la fisica in generale e la curiosità di cosa ci poteva essere in corrispondenza della nostra dimensione. La cosa più sorprendente, è che nelle parole di Vanessa Bagley  non vi era nulla di ingenuo, come potevano sembrare per la mente di una tredicenne. Vidi la morte della mia amica con quel tipo giusto di occhi increduli a una scena violenta. Fu travolta da un tir davanti casa sua. Ma il fatto più curioso è che io vidi la scena nel sonno. Sono consapevole di non essere una veggente o di intraprendere la via del destino, non sono neanche sicura di credere davvero in Dio, ma quella notte sono certa di aver dato spiegazione alla scomparsa misteriosa della mia migliore amica. Il corpo non fu mai trovato, ma quello che razionalmente non può assomigliare alla realtà è per me la soluzione a ciò che è accaduto a Vanessa.

Ignoto 18 ottobre

Ogni  primo venerdì del mese, accompagno mio marito alla solita cena, organizzata con il sotto segretario Tayler e la propria moglie. Quella sera ci recammo al White Rabbit, un locale situato nella zona meno rinomata di Manhattan, fuori dall’Upper East side, luogo dove si teneva una beneficenza in occasione dei quartieri più poveri del paese, un ottimo pretesto, per rinvigorire l’immagine e la nuova campagna per le elezioni, offerto su un piatto d’argento, da non farsi scappare.
Dopo esserci seduti e aver ordinato la portata principale, umida dalla pioggia, e molto poco entusiasta, dalla solita conversazione burocratica, mi alzai con la scusa di andare ad asciugare la mia Luis Vuitton e di rifarmi il trucco, con l’intenzione di dirigermi in bagno.
Raggiunto il lungo atrio che sfociava a destra per la toilette, e a sinistra per l’uscita del locale, rammento di aver avuto un mancamento e di essere svenuta a terra. Nel sonno avvertii la sensazione di una presenza sinistra, che, mi si presentò davanti, con le sembianze di una strana  ragazzina vestita di viola. Il suo viso pareva sfocato. Una voce femminea accompagnò quell’immagine che appariva distorta, sussurrandomi  più volte:
– Seguimi.
Ed io con voce tremante ma allo stesso tempo incuriosita :
– Perché?
– Ti ho osservata a lungo – aggiunse.
L’ultima cosa che ricordo  è essermi svegliata su una panchina, la mattina seguente, davanti le vetrine del “Socialista”, un pub nella zona East di Manhattan. Con i capelli e gli indumenti ancora bagnati dalla pioggia della precedente sera, e una forte emicrania, forse dovuta al fatto di aver sbattuto la testa al momento dello svenimento. Raggiunsi immediatamente l’hotel, per riferire l’accaduto a mio marito , spiegando la mia strana scomparsa.
Arrivata all’hotel vidi la polizia e la stampa accerchiata a Bart, evidentemente aveva già denunciato la mia scomparsa a tutte le autorità.
– Amore, tesoro! Sono stato così in pensiero, sei scomparsa da ieri sera e non ho avuto più tue notizie – esclamò mio marito.
– Ho perso i sensi poco dopo essermi alzata dal tavolo, sono stata vittima di un sonnambulismo e non ricordo più nulla – gli dissi.
– Non immagini quanta paura ho avuto, ieri sera al locale c’è stato un cortocircuito molto violento che ha distrutto alcuni bagni della toilette e non sapevo più cosa pensare – aggiunse.
– O mio Dio! – esclamai – ci sono stati feriti? O delle vittime?
– No, nessuno si trovava in bagno al momento dell’accaduto, per fortuna, ma quando il direttore del White Rabbit ci ha avvisati dell’incidente, ho pensato subito al peggio, perché sapevo che ti stavi recando in bagno – mi disse mio marito Bart, con gli occhi lucidi e ancora quel tremore addosso.
Non sapevo più cosa pensare. Non dissi nulla a Bart a proposito del dialogo con quella ragazzina, ma avevo il presentimento che dopo aver perso i sensi, fu proprio quella strana presenza a guidarmi in un sonnambulismo.
Due giorni dopo decisi all’insaputa della mia famiglia,che il lunedì seguente mi sarei recata dalla signora Caller, la psicologa che ha seguito mio figlio Charles in un periodo difficile. Avevo timore di dover affrontare quello che mi stava accadendo con il mondo esterno, ma volevo avere un parere professionale.

Eva contro Eva

Quella domenica notte, ricordo di aver sognato me stessa nei panni di Bette Devis, ero a una premiazione di giovani emergenti nel campo teatrale, in torno a me vi erano tante ragazze con il proprio accompagnatore, e a pochi posti dalla mia sedia c’era Vanessa, o almeno la sua immagine cresciuta, e mentre il presidente fondatore della facoltà teatrale, iniziò il proprio discorso su perché premiare  una ragazza in particolare, per la sua devozione e brillantezza, fui pervasa da un senso di delusione , e la mia sensazione si concretizzò quando il presidente annunciò: – Ecco a voi la signorina Vanessa Baglye. Evidentemente lei rivestiva il ruolo di Eva. Vanessa si alzò sorridente e raggiunse il palco per la premiazione, ma quando rialzai lo sguardo per osservarla, mi apparse davanti agli occhi ancora quella ragazzina vestita di viola, ma il volto era coperto da una maschera di elefante. Mi svegliai di soprassalto, e davanti al divano su cui mi ero addormentata, trovai ancora quell’essere inquieto. Stavo ancora sognando? O ero caduta un altro stato di sonnambulismo? – Mi chiamo Dandy – affermò quella bizzarra ragazzina, avvicinandosi sempre di più. – Perché ti presenti nei miei sogni? Cosa cerchi? E perché indossi quella maschera da elefante? – Le domandai.
– Perché tu indossi quel vestito da umana? – rispose.
– Ma come puoi fare questo? Provieni da una remora ragione dimensionale? – chiesi io.
– Io posso viaggiare nel tempo perché sono morta in una dimensione tangente. – mi disse.
– Un momento, “Dandy” hai detto? Ma certo, Dandy era il nome del peluche preferito di Vanessa – pensai dentro di me – Perché mi hai salvato la vita?
– Te l’ho detto, ti ho osservata a lungo e mi è parso che tu abbia sprecato quasi la tua intera esistenza, dimenticandoti cosa vuoi davvero dentro di te, è giunto il momento di trovare una direzione verso la tua salvezza – affermò.
Il lunedì mattina mi svegliai nello sgabuzzino davanti a un vecchio scatolone di ricordi, tra le dita avevo delle fotografie scattate al tempo dei miei vent’anni, e sul pavimento c’era una foto mia insieme a Vanessa, ma il suo viso non si riusciva a focalizzare in modo chiaro, evidentemente l’usura aveva danneggiato la foto.





Il tocco di Eva

Come da stabilito quella mattina andai all’appuntamento con la dottoressa Caller, la seduta era fissata per le 11.00.
Raggiunto lo studio entrai senza pensare troppo a quello che stavo andando in contro.
– Buongiorno signora Caller! – esclamai.
– Buongiorno a lei Melissa, si accomodi – rispose.
– Allora, innanzitutto da dove vuole cominciare? – mi chiese.
– Ho ricorrenti stati di sonnambulismo e inizio a pensare di avere una specie di amica immaginaria, di nome Dandy, che in qualche modo è divenuta promotrice del mio destino – le dissi.
– Capisco, beh, le posso dire che le allucinazioni sono un effetto comune  per chi soffre di schizofrenia paranoide, le è mai stato diagnosticato questo? – domandò lei.
– Oddio no, non credo, anzi ne sono certa – risposi.
–  Mi parli ancora di questa amicizia surreale, ci sono stati altri collegamenti? – mi chiese.
– La scorsa notte ho sognato di essere Bette Devis penso in “Eva contro Eva” , io non ho mai voluto essere Bette Devis, fin da ragazzina ho sempre sognato di assomigliare a Grace Kelly, ma la cosa che nonostante tutto mi ha rammaricato di più è che non ero io Eva nel sogno. – dissi io.
– E chi era Eva? – domandò lei.
– Sono sicura di aver visto la mia defunta amica Vanessa per il ruolo di Eva. – risposi.
–  Penso che questo progressivo distacco dalla realtà potrebbe derivare dalla sua incapacità di affrontare quelle forze del mondo che lei percepisce come una minaccia, di che cosa ha più paura Melissa? – chiese.
– Mi terrorizza l’idea di restare sola – sospirai.
–  Lei pensa di essere sola o che morirà sola? – mi domandò.
– Sono solo certa che quando un essere vivente lascia la terra, si resti soli, me l’ho ha fatto presente Dandy – risposi io.
– Credi davvero nelle parole di un’allucinazione? – domandò.
– Signora Caller dopo tutto quello che ho passato, i drammi familiari e gli insuccessi persistenti, non so più a cosa credere, non so nemmeno se esiste una spiegazione razionale che lega la scomparsa della mia amica Vanessa a questa Dandy. – affermai con tono vigoroso.
Uscii dallo studio immediatamente, e ricordo che salutai la dottoressa con un secco”arrivederci”.
Nel pomeriggio andai da “Bendel” per acquistare un abito da indossare il giovedì 24 ottobre, in occasione del party “ Nessun Dorma” organizzato al Palace Hotel. Nel momento in cui fermai un taxi per tornare a casa dal negozio di abbigliamento, vidi ancora una volta Dandy e la sua bizzarra maschera all’interno della vettura. Sono convinta che in quell’episodio non avessimo avuto alcuna conversazione, ma lei stringeva tra le braccia un abito rosso. Arrivata all’hotel corsi subito nella mia suite, e raggiunsi la mia famiglia in soggiorno. Ero tanto agitata.
Arrivò la sera del 24 ottobre, io e mia figlia Samantha ci stavamo finendo di preparare per andare al party fissato per le 21.30. Mancavano ancora circa 20 minuti.
– Tesoro lo sai che sei bellissima? – le dissi.
– Si, lo so mamma, me lo hai già detto. – rispose con voce snervata.
– Vedo che alla fine hai deciso di indossare l’abito che ti ho preso per l’occasione, sono molto felice. – affermai io.
– Come se mi avessi lasciato alternativa – ribatte Samantha.
– Beh, scusa se ho voluto dare un’immagine meno volgare del solito, alla tua presenza! – le risposi con tono acceso.
– Ecco ci risiamo, vuoi iniziare ancora con la solita storia, che io sono una ragazza problematica e che devo stare attenta ai pericolo che incombano nella mia vita? per favore lascia perdere – disse lei. – Samantha , Samantha! dove stai andando?
– Mi allontano da te, non riesco a starti vicino per più di dieci minuti , senza dare di matto!
Scoppiai in lacrime, non riuscivo neanche a instaurare una conversazione civile con mia figlia.
Finito di prepararmi scesi al salone dell’hotel per raggiungere mio marito e tutti gli invitati.
Mi accorsi che mia figlia Samantha si stava allontanando dal ricevimento, avviandosi fuori dal Palace, allora mi precipitai a seguirla, raggiungendola. – Samantha cosa fai qui fuori? torna dentro –
le urlai. – Non vedi che sto aspettando le mie amiche? guarda stanno arrivando, ora vado via con loro – rispose apertamente.
– Tu non vai da nessuna parte, torna al ricevimento, e poi spigami perché ti sei cambiata d’abito, perché indossi questo vestito rosso?
– Senti , va al diavolo, tu e il tuo stupido ricevimento, ora lasciami andare che sono di fretta!
– Samantha attenta, Samanthaaaaaaaaaaaa! – gridai con tutta me stessa.
Nello stesso istante una limousine l’ha investì, evidentemente non si era accorta che stava arrivando una vettura dalla strada. Rimasi impietrita. Il mio corpo era incapace di comunicare sia con la colonna vertebrale che con gli altri sensi. Un’amica di mia figlia si avvicino correndo dall’altro lato della strada, e con terribili lacrime agli occhi, mi fece capire che non c’era più nulla da fare.
La dimensione esterna si annullò completamente alla mia vista, corsi subito nel mio sgabuzzino, dove ho trovato le foto mie e di Vanessa, presi quella in cui eravamo immortalate insieme, divisi la foto con uno strappo, in modo da stringere in mano solo la mia giovane immagine. Salii sul terrazzo del mio attico, non sapevo più a cosa credere. La mia salvezza ha manifestato in seguito la morte di mia figlia, pensai. Era la così detta “ goccia che fa traboccare il vaso” dopo una vita di terribili insuccessi, anche la perdita prematura di un figlio. Non so cosa mi spinse a recarmi sul terrazzo, ma dentro di me avevo solo il grande sogno di poter eseguire, almeno una dannata volta nella vita un’azione per trovare un po’ di conforto. Vidi addensarsi sulla città un inquietante turbine di nuvole nere, e sono sicura che fu la manifestazione fisica di un wormhole, scaturita dal paradosso creato dai nuovi eventi che hanno mutato il mio destino. Ad un tratto solo nero intorno a me, e fu così che capii di stare per essere riportata a “casa”.


“Nuovo Mondo”
...18 ottobre…


Era il 18 ottobre, nella nostra dimensione reale. Mi alzai dal tavolo per raggiungere la toilette. Arrivata al lungo atrio del locale, entrai nella toilette. Il ritornello di una canzone riprodotta dalla radio del bagno, esclamava : Smile like you mean it, Smile like yuo mean. It.

Cara Vanessa Baglye, ci sarebbero molte cose che vorrei chiederti, ma ho paura di quello che potresti dirmi, ma soprattutto ho paura che tu mi dica che non sia tutto frutto della fantasia.
Posso solo sperare che la risposta mi arrivi nel sonno, eterno, e spero anche quando il mondo finirà, che potrò tirare un sospiro di sollievo, perché ci sarà così tanto da contemplare avidamente.
“Ahaha ahahahah” Sorridendo come se lo volessi davvero, almeno questa volta… tua

M D.

 
Melissa darche è deceduta nella nostra dimensione reale  il 18 ottobre 2011.
Quella sera pioveva in modo torrenziale.
Gli atti delle persone intorno a Melissa,  in seguito, sono tutti inconsapevolmente diretti a dare un senso al paradosso, portando infine Melissa  a creare lei stessa il wormhole che la porta nell'universo reale, dove lei stessa viene uccisa. Quelli che hanno interagito con Melissa nell'universo tangente tuttavia, conservano una lieve consapevolezza degli eventi in esso accaduti.

Antonino Cervettini - Il bisogno di accettarla


Oramai “lei” passa tutto il suo fottutissimo tempo a guardare quella stramaledetta fotografia in cui si vede ancora bella e giovane. Si osserva per un po’ e poi ricomincia i suoi giri di casalinga maniaca della pulizia, dei servizi e di ogni stramaledetta cosa al suo posto.
“Lei” è mia moglie e mi sta rovinando la vita.
All’inizio non era davvero così. Eravamo una coppia normale, con una vita normale, con degli interessi, amici simpatici, serate divertenti.
Poi, quasi senza accorgersene, “lei” è precipitata in un vortice, è stata risucchiata dentro un gorgo malefico che l’ha presa e non l’ha più lasciata andare. E adesso la nostra vita è un grigio e uniforme vuoto dentro il quale io annaspo.
*****
Sono letteralmente ossessionato da questa frase: Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene. Sì, lo so che è di Woody Allen. Il fatto è, però, che da un po’ di tempo ormai non sto bene per davvero. Non fisicamente, no. Per quello, grazie a Dio, sto benissimo. Intendo dire che non mi sento a posto con me stesso. Mi sveglio la mattina e ho già la precisa sensazione, anzi la certezza che sarà un’altra giornata di merda. L’umore mi finisce sparato sotto i piedi. Per quanto mi sforzi non riesco a trovare un solo valido motivo per alzarmi dal letto, mettermi in tiro, uscire di casa, sorridere alla vita. E mentre conduco la mia quotidiana battaglia contro questa insostenibile pesantezza dell’essere, “lei” cinguetta incessante tutto il giorno insensatamente ilare, molesta come una mosca importuna quando d’estate vuoi fare una pennichella, come la suocera che telefona alle sette di ogni domenica mattina per sapere cosa stanno combinando i suoi amati figlioli, come la processione di amici che scopri immancabilmente di avere ogni qualvolta si approssimano le elezioni.
*****
Probabilmente mi sto prendendo l’esaurimento nervoso. Sono diventato scorbutico e ombroso come un mulo di montagna tanto che, ormai, al lavoro i colleghi mi evitano e mi guardano storto al riparo del loro perbenismo. Li sento borbottare commenti velenosi alle mie spalle quando li incrocio nei corridoi.
A casa, invece, a “lei” tutto sembra filare col vento in poppa. Mi accoglie con le pattine ai piedi, i bigodini in testa e un sorriso insensato e insopportabile stampato in faccia. E più sono scontroso più “lei” è flautata e melliflua, interamente assorbita dalla necessità di rovesciarmi addosso le sue ridicole, insulse questioni esistenziali.
*****
Sono ormai allo stremo. Sono arrivato al punto che non sopporto neppure più l’idea della convivenza, della relazione con una tale rompipalle di prima categoria. Mi interrogo spesso su cosa devo fare, soprattutto quando sono in bagno.
Il bagno è diventato il mio rifugio preferito, la mia cellula di sopravvivenza. È l’unico posto dove la mignatta sente il dovere di lasciarmi da solo. Parlo a muso duro con la mia faccia da allucinato che mi fissa nello specchio e le chiedo come posso uscire da questo buco nero che sembra avermi inghiottito. L’ultima volta una vocina dal profondo mi ha risposto: «Tu lo sai! La devi accettare! Accettala o sei perduto!»
*****
Sono sconvolto. Non dormo neanche più.  Mi aggiro per casa come uno spiritato. È oltre un mese che la vocina ripete sempre la stessa litania ma adesso non solo in bagno, anche quando siamo seduti a tavola o per strada in mezzo agli ignari passanti e persino a letto, mentre facciamo l’amore.
«Accettala! Accettala!» martella incessante come un disco rotto la perfida istigatrice.      E così oggi finalmente mi sono deciso. Tra l’altro avevo fatto il filo solo qualche settimana fa e la lama è venuta tagliente come quella di un rasoio.
L’ho accettata in quattro e quattr’otto in bagno mentre faceva la doccia. L’ho fatta in sei pezzi e sistemata a sgocciolare nella vasca insieme alla sua amata fotografia. Non è mai stata tanto discreta e silenziosa.
Mi sento un altro.
Ora vado a farmi un toast. Il sangue lo laverò dopopranzo.

mercoledì 23 maggio 2012

Bruno Bianco - Le due parti


Uscendo dal bar il commissario Fortunato si prese in faccia l’ aria gelida della serata dicembrina, ma lui sapeva bene che non gli avrebbe fatto nessun effetto; non era la prima donna che vedeva con i polsi tagliati e non sarebbe certo stata l’ ultima. Quello che doveva fare l’ aveva fatto e poteva rientrare in ufficio; sarebbero rimasti i suoi uomini a fare i rilievi per la burocrazia e il dottore ha studiare i termini medici giusti per dire che la poverina si era uccisa con le proprie mani nei bagni di un elegante caffè del centro.
Lui adesso doveva fare spazio agli altri casi e archiviare questo come il solito suicidio senza responsabili; anche se se lo sapeva bene che da qualche parte sulla faccia della terra doveva esserci un uomo che era stato il vero motore delle azioni di quella povera donna, perché c’è sempre un uomo così quando una donna decide di superare l’ ultima barriera dello sconforto. In genere non puoi metterti a fare indagine specifiche per cercare un fantasma, ma questa volta c’ era qualche elemento in più; in fondo quella fotografia avrà ben voluto dire qualcosa, perché una non si ammazza senza motivo tenendo tra le mani la foto di quando era una ragazzina. Senza dimenticare il racconto dell’ amica sulla vittima appena tornata da una crociera dove aveva voluto andare da sola, diceva, per rimettere in ordine i pensieri della sua vita; e doveva esserci riuscita perche la sua amica era sicura di non averla mai vista così serena e di buon umore come dopo il ritorno dal viaggio.
Il commissario prese dalla tasca la bustina trasparente con quell’ immagine un po’ sfuocata e cercò di immaginarsi la ragazzina della fotografia e la donna dai polsi tagliati in un unico corpo che cammina sul ponte di una nave da crociera….

Mi sembra che la nave abbia lasciato il porto solo da pochi minuti e invece già non riesco più a vedere la costa; non ero mai stata in crociera prima d’ ora e forse devo solo abituarmi al diverso scorrere del tempo di quando sei in vacanza. Mi stacco dal parapetto e mi guardo intorno sul ponte; lui non si vede, allora guardo verso l’ ingresso del salone… ah sì, eccolo! Sta entrando per la cena e come lo vedo scendo di corsa dalla scala per raggiungere anch’ io i tavoli di quella sala enorme. Mi hanno sistemato con quattro giovanotti vestiti come Christian De Sica in un film dei Vanzina e tre ragazze che avranno speso metà del loro patrimonio dal parrucchiere e l’ altra metà per una scorta industriale di balsamo e fissante per capelli; penso proprio di essere finita in un tavolo di single che gli organizzatori hanno deciso di far accoppiare prima che venga il mattino. Cerco di non farmi notare e per la centesima volta da quando siamo partiti apro la mia trousse di raso e controllo di non aver dimenticato niente…
-Come mai una giovane e carina come te va in crociera da sola? Non hai un marito, un fidanzato o anche solo uno spasimante?-
-Tutti quelli che avevo mi hanno lasciato per andare in crociera da soli a fare i cascamorti con le donne che incontrano al loro tavolo!-
E con questo i giovanotti sono sistemati; adesso devo mettere in riga le signorine che sanno parlare solo di vacanze a Porto Cervo e di vita notturna nelle discoteche di Milano.
-Non dirmi che non sei mai stata all’ Hollywood di Milano; la bella gente che trovi lì alle quattro del mattino non la vedi da nessun altra parte.-
-E tu non dirmi che non sei mai stata ai Mercati Generali di Torino; la gente che scarica le cassette di frutta alle quattro del mattino la vedi anche dalle altre parti, ma forse tu hai orari differenti da loro.-
E adesso che le mie compagne e i miei compagni di tavolo parlano tra loro ignorando del tutto la mia presenza, io posso finire con tranquillità il dolce senza smettere di controllare cosa capita dalla parte opposta della sala.
Poi lo vedo alzarsi, salutare con eleganza i suoi compagni di tavolo e dirigersi verso il fondo del salone; allora mi alzo anch’ io facendo cadere il tovagliolo che tenevo sulle ginocchia e saluto con un grugnito i miei compagni di tavolo.
Lui esce dal salone e io lo seguo tenendomi a una decina di metri; prende le scale del ponte, sale di un piano e io sempre dietro. Mi sembra un instancabile camminatore, o forse un anima in pena, o forse tutte e due le cose. Sale ancora di un piano e sul ponte si dirige verso prua; io sto controllando a fatica il fiatone che mi è venuto un po’ per lo sforzo e un po’ per la paura che mi possa vedere. Finalmente si ferma a guardare l’ acqua nera della notte, appena appoggiato al parapetto che lo separa dal mare. E’ il mio momento; decido di usare un vecchio e banale trucco da film che si adatta perfettamente alla finzione della vita di crociera.
-Mi scusi ma a forza di camminare in questo labirinto devo essermi persa; può essere così gentile da aiutarmi a ritornare al salone della festa?-
Lui si volta di scatto tra lo stupito e l’ infastidito; certo che è davvero un bell’ uomo e i capelli sale e pepe dei suoi sessant’ anni lo rendono ancora più attraente.
-Torni indietro da questo lato e prenda la prima scala che incontra sulla sinistra; scenda di due piani e vedrà sulla destra le luci del salone.-
A quel vecchio corso di recitazione che avevo fatto ai tempi del liceo ho imparato che per piangere basta pensare con intensità a una situazione di grande impatto emotivo e io non faccio fatica a farlo.
-La ringrazio e mi scusi se l’ ho disturbata.-
I miei occhi sono ormai lucidi e lui non può non notare le lacrime che stanno annacquando il rimmel che avevo messo con tanta cura prima della cena.
-Si sente bene  signorina? Forse è meglio che aspetti un attimo prima di rientrare nel salone.-
-Non è niente di grave. E’ solo che forse non è stata una buona idea venire in crociera da sola per lasciarmi alle spalle i segni di ferite troppo recenti.-
Ormai le lacrime mi attraversano spietate le guance e mi lasciano ridicole strisciate di rimmel dagli occhi fino al collo; ma l’ importante è aver scardinato la freddezza di quell’ uomo così affascinante.
-Prenda il mio fazzoletto; non le servirà per le sue ferite recenti, ma almeno la leverà dall’ imbarazzo di farsi vedere in questo stato da un perfetto sconosciuto quale io sono per lei.-
Affascinante e gioviale; sono sempre più convinta che sto facendo la cosa giusta. Adesso lui si presenta e in pochi minuti ho già messo via il fazzoletto sporco di rimmel che prometto di rendergli nella giornata di domani; si stacca dal parapetto e mi dice che anche lui è da solo in crociera per lasciarsi alle spalle delle ferite recenti come le mie e che non è il caso di aggiungere sofferenza a quella che altri hanno già creato. Parliamo e camminiamo; camminiamo e parliamo. Restiamo sempre nella parte più periferica della nave perché a me non va di incontrare gente, di vedere luci, di sentire musica; lui lo ha capito e mi cammina di fianco come chi vuole proteggerti dai pericoli che ti stanno intorno. Dopo avere disceso e salito decine di scale esterne della nave, adesso siamo uno di fronte all’altra in quello che nella mia ignoranza nautica chiamo il piano terra della nave; alla nostra destra il parapetto ci protegge dal mare e riusciamo a vedere con chiarezza le onde grazie alla luce generosa che la luna spande tutto intorno.
-Sono più delle due! Saremo anche in crociera, ma come prima serata direi che può andare.-
-Se le andasse, domani sarei davvero lieto di pranzare con lei.-
-In questo momento non me la sento di prendere impegni per la colazione, figuriamoci per il pranzo. Se vuole però mi lasci il suo numero di cellulare; prometto di chiamarla prima di mezzogiorno.-
Apro la mia trousse di raso anche se so bene di non avere dentro né la biro né un foglio di carta, ma tanto lo so che sarà così premuroso da pensare lui sia al foglio sia alla biro; scrive il numero sul biglietto e adesso che me lo porge è davvero vicino, mentre i suoi occhi mi lanciano uno sguardo che sa essere allo stesso tempo paterno e sensuale. Io continuo ad armeggiare nella trousse, ma sento che ormai ho deciso; la sua faccia mi è vicina,  i suoi occhi mi sono vicini, la sua bocca mi è vicina…
Mi sveglio che la cabina è illuminata da un sole avanzato; guardo l’ ora e vedo che è quasi mezzogiorno. I miei vestiti sono buttati alla rinfusa sulla poltrona; faccio la doccia e mi vesto con una lentezza che non ricordo di avere mai avuto. Prima di uscire per il pranzo ho ancora un’ incombenza da fare; apro la trousse e mi assicuro che ci sia ancora la bomboletta spray con l’ etere. Gliene ho fatto respirare più di metà, come quando continui a spruzzare l’ insetticida sullo scarafaggio anche se vedi che è già completamente stecchito; d’ altronde per prenderlo di peso e buttarlo in mare al di là del parapetto non potevo permettermi che fosse tanto sveglio. Sono anche soddisfatta perché prima che crollasse ho potuto urlargli nelle orecchie il mio nome in modo che capisse bene chi ero; poi la luna ha illuminato quel corpo che nel vuoto ha fatto quattro giri su se stesso prima di sbattere sull’ acqua dura del mare.
Il primo è per tutte le volte che è entrato nel mio letto dicendo che la mamma era molto contenta che lui mi mettesse le mani dentro le mutandine.
Il secondo è per tutte le volte che è uscito dalla mia stanza per rientrare nel letto della mamma e fare l’ amore con lei che pensava quanto era stata fortunata ad aver trovato un uomo così affettuoso  dopo un matrimonio tanto disgraziato.
Il terzo è per tutte le volte che si è ripetuto con altre bambine di dieci anni, figlie di donne vedove o divorziate sedotte da un uomo che quando si stufava delle figlie non aveva più nessun motivo per restare con le madri.
Il quarto è per tutte le volte che in questi quindici anni ho dovuto aspettare prima di trovare l’ occasione giusta, perché non vale la pena finire in galera per aver schiacciato uno scarafaggio e siccome il delitto perfetto non esiste bisogna avere la pazienza di aspettare  l’ occasione buona che nella vita prima o poi arriva, visto che c’ è sempre una giustizia a questo mondo.
-Non vorremmo disturbarti, ma avremmo qualcosa da dirti.-
Ad aspettarmi sul ponte ci sono i quattro giovanotti a scusarsi per il comportamento alla cena della sera prima e a invitarmi a un aperitivo tutti insieme prima del pranzo.
-Non volevamo infastidirti con i nostri discorsi insulsi di ieri sera, ma ci siamo fatte un po’ prendere dal clima di festa che c’ è tutto intorno.-
Anche le tre ragazze nella notte sembrano aver riflettuto sulle regole della buona creanza e mi chiedono di non mancare all’ aperitivo.
Io accetto le scuse di tutti e do appuntamento ai tavolini del bar tra qualche minuto; me li lascio alle spalle e vado oltre, nel punto esatto dove stanotte si è chiusa la prima parte della mia vita. Apro la trousse di raso, prendo la bomboletta che ho usato da insetticida e la butto lontano tra le onde del mare; mentre chiudo la cerniera vedo che è rimasto il biglietto dove aveva scritto il suo numero di telefono. Lo prendo e inizio stracciarlo con ordine e rigore, in due, in quattro, in otto; poi apro il pugno e i ritagli iniziano a cadere nel vuoto, oscillando con precisa lentezza. Resto a guardare fino a che anche l’ ultimo coriandolo non scompare nello strato più profondo dell’ acqua dura del mare; chiudo la trousse, guardo la ragazzina di quella fotografia che tengo da vent’ anni nelle mie borsette e quasi senza accorgermene sorrido.
La prima parte della mia vita, quella passata annegando nelle onde molli, finisce; adesso inizio la seconda, quella che si appoggerà sull’ acqua dura del mare.

Il commissario Fortunato rimise la bustina trasparente nella tasca e decise in un momento. La prima parte dell’ indagine, quella passata annegando nelle onde molli della routine, finisce stasera; domani inizierà la seconda, quella che si appoggerà sull’ elenco dei partecipanti di una crociera. E se un uomo esiste lui lo farà uscire. Vivo o morto. 

Marco Spotti - Serva d'acciaio


Serva d’acciaio

Schiava è la macchina dei nostri bisogni,
Serva sotto egoismi zitta ancella.
Giostra dell’orrore finta giusta madre.
Nero sangue. E’veleno il seme tuo.
Prigioniere macchine devastanti.

L’ordine alla schiava è distruggere,
consumare,avvelenare piano
la casa del padrone scemo,
Palese stupidità sarà fatale.

Qui, il poeta dal suo paese osserva,
Nel di’ il fumo e nella notte polveri di luci.

Qui, il poeta pensa.
Piangendo scrive alla mai pensata musa
Che raffina,inquina e ci da benzina.



Jennifer Bevilacqua - Perchè t'ho uccisa io


Perché t’ho uccisa io

E' tossico il tuo sorriso, quasi come questo mare;
ad uccidermi sei tu,
perché t’ ho uccisa io.
Nel mio consapevole delitto ,inconscia del tuo dolore.
Tu che respiri il rumore assordante di questa via
tu ,ferma da questa sporcizia.
Arida è l'aria in cui vivo, arido è il campo soffocato dalla chimica
invenzione umana.
Puzzano di virtualità le parole, velenose quasi quanto il mio piatto,
petrolio mortale la nostra comunicazione,
è fisico e morale il nero del cielo.
Amara di sconfitta ,inetta nella tua voglia;
tu,mia cara terra
ingannevole,
con tutti i tuoi abitanti,
soffocata
in tutto il tuo silenzio.

Valentina Rodighiero - Dove tutto va a finire


17 febbraio
Oggi è un giorno meraviglioso. Tu sei meraviglioso.
La vita mi inonda quando mi guardi negli occhi con il tuo mezzo sorriso e le tue mani leggere e decise sui miei fianchi mi appoggiano alla parete. La mia schiena tocca le piastrelle ed è attraversata da un brivido di eccitazione proibita mentre mi baci proprio qui, tra le mura di questo bagno stretto che ci proteggono dagli sguardi indiscreti dei colleghi.
Sento il profumo dei tuoi capelli mentre le tue mani e la tua bocca percorrono il mio corpo. Ti soffermi un attimo, incantato dal mio piccolo sole tatuato; la mia mano trema sfiorando la chiave di violino disegnata sulla tua schiena. Sei dentro di me, il tempo si ferma ed esistiamo solo noi, vibranti all’unisono in un unico corpo.
Poi restiamo stretti l’uno all’altro, cercando di calmare il ritmo forsennato del cuore e del respiro, increduli e perfetti per un attimo in un mondo immobile e imperfetto.

20 febbraio
Sono felice, felice, felice.
La felicità si nasconde in cose piccole, in luoghi ovvi, dove non ci viene neanche in mente di cercare, sotto forma di un fine scintillio frizzante, una marea inaspettata, una vibrazione sulla lunghezza d’onda giusta.
E basta poco per frizzare: l’alba, una giornata invernale di sole con il sapore della primavera, un bacio rubato profumato di mela e caffè.

21 febbraio
La tua casa è come te, calda e piena di polvere e sogni.
È così facile per noi spogliarci dei vestiti; arduo, invece, mostrare nuda la nostra anima, che abbiamo sepolto dietro muri d’acciaio per impedire che venga ferita ancora. Lentamente scopro il tuo corpo e mi innamoro di ogni centimetro della tua pelle. Facciamo l’amore ancora e ancora, come volendo recuperare in poche ore gli anni trascorsi l’uno senza l’altro. Ci sentiamo protetti dalla notte che corre veloce.
Ti vedo, divina opera d’arte, in piedi al centro della stanza, di spalle, illuminato di traverso dalla luce del bagno dimenticata accesa. Vedo i tuoi ricci indomabili, le tue spalle forti, vedo parole di inchiostro che ti abbracciano il petto e si muovono con il tuo respiro. Ti volti e sorridi, ma è un riso amaro quello che ti piega le labbra mentre mi mostri un lembo della tua anima. C’è rammarico nelle tue parole, c’è la determinazione di vincere e di arrivare in alto per riscattare e guarire le ferite subite. Si dice che, se scruti dentro l’abisso, l’abisso scruta dentro di te; ed è così che la tua anima si insinua sotto la mia pelle senza che io possa fermarla. E all’improvviso ti accorgi che stai perdendo il controllo della tua vita e della tua anima. Forse mi hai mostrato troppo, forse hai visto troppo di me, forse non sei abituato a sentire l’armonia di cui risuoniamo ora. Sei ancora vicino a me ma sento che ti dibatti e scappi, ti allontani correndo mentre scivoliamo nel sonno.
È notte e io ascolto il tuo respiro profondo e regolare. Sento, violenta, la paura di non poterlo più ascoltare, la paura della tua paura, la paura di trovarsi a lottare contro fantasmi perfetti, essendo così imperfetta. E respiro quello che ormai è un ricordo di respiro, raccogliendo le energie per proseguire, al buio, sul filo del rasoio.

3 marzo
Dove sei finito, ossigeno puro che mi mantiene in vita? Dov’è finita la condivisione profonda di corpo e anima?
Ti ho incontrato per caso oggi. Non mi hai salutato, non mi hai nemmeno guardato negli occhi. Non sono sicura dell’esattezza delle mie percezioni, sento troppo me stessa quando tu mi sei vicino; però oggi ho sentito la paura, e non era mia. Quando ti sento debole mi sento forte. Non è cattiveria, è che non sono più sola con il mio sentimento grandissimo e mi torna la forza di respingere il panico. Torna anche la rabbia per un rifiuto, per un silenzio che non capisco. La rabbia e la forza non mi rendono felice, ma mi aiutano a sentirmi meno triste. Però verso sera mi sento più stanca e, nel silenzio, i pensieri sembrano gridare di più. E mi tornano in mente le tue parole e le cose che amo di te, e il tuo corpo si disegna ancora nitido nei miei occhi. E non voglio spiegazioni, non voglio nient’altro che tornare indietro e avere ancora la tua pelle sulla mia e il tuo odore intorno. Vorrei solo poter ancora credere alle parole che ricordo. Vorrei solo sentire che ci sei. Ma questa notte cammino da sola.

5 marzo
Piove forte su Novara.
Ti prenderei per mano e camminerei con te fino in capo al mondo sotto questa pioggia. Ti abbraccerei mentre i nostri capelli si bagnano. Mi basterebbe poterti guardare, con i tuoi occhi a pochi centimetri dai miei occhi. Ancora una volta mi basterebbe sentire che ci sei. Invece sei così dannatamente lontano, e sotto questa pioggia di nuovo cammino da sola.

8 marzo
Fortunatamente mi restano le amiche, che mi indicano una via e mi danno speranza. Traggo da lì la forza in attesa di tuoi cenni.
Però il venerdì pomeriggio e il ricordo di te sono un tutt’uno. Forse è solo la stanchezza della settimana, o la relativa solitudine, o il weekend che inizia senza un tuo sorriso, o l’effetto della sera. Ma sospetto che il ricordo sia legato proprio a questi corridoi semideserti, alle luci spente negli uffici, a questa atmosfera abbandonata e notturna, la stessa che si respirava quando ci incontravamo di nascosto e mi prendevi un bacio tra un sorso di caffè e l’altro.

11 marzo
Oggi ti vedo nuotare per la prima volta. Il tuo delfino è una poesia non scritta che ad ogni bracciata svela un nuovo verso. Nessun sogno può eguagliare la visione di te, seduto a bordo vasca, la tua pelle lucente di gocce e lo sguardo perso nel vuoto. Vorrei essere blu e mimetizzarmi con l’acqua, per spiarti non vista. Mi rendo conto di nuotare con rabbia, ma non so se è rivolta contro di te che sei meraviglioso e lontanissimo, o contro di me che continuo a desiderarti così intensamente.

15 marzo
Il tuo rifiuto mi colpisce allo stomaco. Credimi, non è una metafora se ti dico che non riesco più a respirare.

17 marzo
Un mese dopo sono seduta sul pavimento, in questo bagno dove tutto è cominciato.
E tu sei con me, finalmente.
Non sono più felice, il cuore è spezzato e mi fa ancora male; ma ora anche il tuo è spezzato e mi tieni compagnia nel dolore.
Mi sembra di sentire la tua voce, un suono più flebile di un respiro. Mi stai chiedendo perdono per avermi ferita? O forse stai pregando, tu che non hai mai creduto in nulla? Mi chino su di te ma troppo tardi, hai già smesso di mormorare. La luce nei tuoi occhi si spegne lentamente. È una lacrima quella che ti riga il volto? Il tuo sangue continua a scorrere dalle ferite di coltello. Una scia scarlatta scorre sulle piastrelle fredde verso l’esterno.
Poso la testa sul tuo petto, umido e appiccicoso. Aspetto. So che tra poco verranno a prendermi; ma tu sei con me ora ed io non ho più paura. Finalmente respiro di nuovo.

Raffaele Montefusco - Labbra rosse


Quando suonò il campanello Gianluca si stava facendo la doccia; si infilò l’accappatoio e, lasciando una scia gocciolante per tutto il percorso, andò a rispondere al citofono. Era il postino che doveva consegnare una raccomandata “sarà una multa”, pensò, e la prese con familiarità, come se ogni giorno ricevesse delle multe; la posò sul tavolino nel salotto e ritornò a finire la doccia.
Qualche minuto più tardi Gianluca, avvolto nell’accappatoio, era seduto in una poltrona di pelle nera con un bicchiere di Martini dry. La lettera era ancora lì dove l’aveva posata. Solo allora si accorse che la busta era di colore rosa pallido. La prese in mano e la soppesò: era leggera e l’indirizzo era scritto in viola a penna stilografica; la scritta era un po’ sbiadita nei punti dove lui l’aveva toccata con le mani umide.
La ripose sul tavolino senza aprirla, fece tintinnare i ghiaccioli nel bicchiere e bevve una lunga sorsata. Quella lettera lo intrigava. Chi poteva mai spedirgli una busta rosa pallido? Provò mentalmente a fare l’inventario delle sue ultime conquiste. Gianluca piaceva alle donne, per il suo fisico, ma non solo; aveva un modo di ascoltare le cose e una disponibilità innata che lo rendeva prezioso, e spesso le sue amiche gli confidavano i loro segreti e i loro problemi.
La lettera era ancora lì, ma lui non voleva aprirla subito; gli sarebbe piaciuto indovinare chi l’aveva spedita.
Bevve l’ultimo sorso di Martini e incominciò a vestirsi; erano le sette e quella sera aveva un appuntamento con Paola, una ragazza che aveva conosciuto al circolo della Croce Verde e a cui teneva molto. Lei aveva resistito parecchio tempo prima di concedergli una cena. Gianluca aveva prenotato in un ristorante di Recco, la Manuelina, e doveva passare a prenderla sotto casa sua, a Sturla alle otto.
Indossò una camicia bianca e un vestito di lino blu, senza cravatta, e si guardò soddisfatto allo specchio; questo gli restituì l’immagine di un uomo tra i trenta e i quarant’anni, con i capelli di colore biondo scuro e gli occhi marroni, alto quasi un metro e ottanta.
Lasciò la lettera sul tavolino. L’avrebbe aperta al suo ritorno. Scese in garage a prendere la Saab e si diresse verso la casa di Paola; mancava ancora un quarto alle otto e aveva tutto il tempo di guidare con calma.
Quando Gianluca giunse in prossimità delle case colorate di fronte al mare, dove abitava Paola, lei non era ancora scesa. Spense il motore, scese dall’auto e si accese una sigaretta; aveva appena gettato il mozzicone che lei arrivò: indossava un vestito di raso verde e aveva la borsa e le scarpe col tacco dello stesso colore; i capelli castani, leggermente arricciati, le scendevano sulle spalle. Ma la cosa che colpì Gianluca erano le labbra, belle, carnose, messe in evidenza da un rossetto di colore carminio intenso.
Si salutarono e si avviarono verso Recco.

Gianluca stava percorrendo la strada del ritorno passando per la costa. Aveva messo un disco di Coltrane e guidava lentamente, gustandosi il ricordo dell’ottima cena a base di pesce, dei sorrisi di Paola e delle miriadi di luci che si riflettevano sul mare e che ora gli correvano incontro.
Paola si era confidata con lui e gli aveva raccontato della sua ultima storia andata male: aveva convissuto per un anno con un uomo di dieci anni più vecchio di lei, che beveva, e che spesso tornava a casa ubriaco; era un tipo nervoso e violento e qualche volta erano venuti alle mani. Per questa ragione lei non voleva più mettersi con gli uomini; almeno per qualche tempo. Gianluca l’aveva ascoltata come faceva di solito, con la massima attenzione, socchiudendo gli occhi, come se volesse fare filtrare le parole attraverso le ciglia… e Paola aveva parlato e parlato… non le sembrava vero di avere un interlocutore così attento… e così bello…
A Sturla si salutarono con un semplice bacio. Poi Gianluca tornò a casa: pensava alla lettera rosa.
Posteggiò l’auto in garage e salì nel suo appartamento; ancora vestito com’era si versò un bicchiere colmo di whisky con ghiaccio e, dopo aver messo la musica di Cesaria Evora si sedette in poltrona. Riprese la busta in mano, la guardò di nuovo con attenzione e la annusò: gli parve di sentire un leggero profumo, ma non ne era sicuro. La aprì: estrasse un foglio rosa piegato in tre.
Lo guardò e lo svolse: sulla carta liscia e leggermente odorosa c’erano stampate delle labbra rosse. Una donna aveva appoggiato le sue labbra e sulla lettera ne era rimasta l’impronta nitida e tumida. Non c’era nient’altro. Nemmeno una parola, un nome, una firma, nulla.
Gianluca si soffermò a guardare l’immagine e tutto quello che questa rappresentava: il sorriso, l’amore, il desiderio, il piacere… ma di chi erano quelle labbra morbide dalla linea perfetta? Di certo di una donna che conosceva…
Riprese in mano la busta: la raccomandata proveniva da Genova; ovvio, la città nella quale lui viveva… Guardò la rubrica della sua agendina: chi poteva mai essere? Alba no, aveva labbra troppo sottili e poi non era il tipo da fare una cosa del genere. Avrebbe potuto essere Margherita, ma con lei aveva litigato; ripicca? No, ci avrebbe giurato. Ripassò per ben tre volte tutta la rubrica bevendo tre bicchieri di whisky. Poi il lampo, l’intuizione. Sì, era credibile… molto probabile… e perché no?

Qualche giorno dopo Gianluca e Paola stavano bevendo l’aperitivo a Nervi, in un bar a picco sulla scogliera. Paola non aveva rossetto ed  era ancora più bella. Parlavano del più e del meno, ma lei aveva gli occhi lucidi: quell’uomo le piaceva molto; raramente aveva conosciuto qualcuno con quel fascino. Gianluca aveva ordinato un Pigato della Riviera di ponente e lo sorseggiava lentamente, per estrarne tutto l’aroma.
Ad un certo punto si mise a guardare la donna: lei rispose al suo sguardo con un tenero un battito di ciglia e con le labbra turgide che tremavano leggermente; allora le disse: «Ora lo so: sei stata tu».
La donna non rispose; lo guardò ancora negli occhi e poi sorrise. L’istante successivo Gianluca sentì il calore umido delle labbra di lei e capì di avere indovinato.