venerdì 2 agosto 2019

Antonio Villa - Ma'

Si fermano strategie e speranze.
"Ma', sto qui". (Fino all'ultimo orizzonte
ti tengo la mano che si va gelando,
ti inumidisco le labbra piano).

L’ora è preziosissima.
Sulle cime più alte sale
inesorabile la nebbia
e tace il canto dei colori...

La sofferenza è finita.
Piangerò dopo. Adesso
devo vestirti come facevi
con me quand'ero bimbo.

Una pacata bellezza
spalanca i tuoi occhi di cielo,
li fissa in trasparenza d’estasi.

L’immobilità non m’inganna;
sei rimasta stupore
ai tuoi passi nuovi.

Ti avvii calma e sicura oltre te.
Ti guidano lontano
stelle intramontabili, ma non da me.

Antonio Villa - Incroci

Sulla battigia dei ricordi
cancella tracce la marea montante
dei giorni.
Ti affidi, occhi al vuoto,
al mio passo parkinsoniano.
Andiamo, andiamo, come nuovi
del tempo e del luogo, tu indifferente,
io sorpreso al volo basso
di un uccello che spunta i rami
alti del melo e schizza al cielo.
Non t’interessa, ma sulla siepe il ragno
ha ricamato un fantastico centrino;
sulla panchina giovani in amore
come un tempo noi,
intrecciano sguardi, mani e fantasie.
Certo, neanch'io sono più quello di prima;
le braccia, appendici dello sterzo,
che costrinsero alla strada autobus
e camion ora mi vanno
come un motore sbiellato.

E m’hanno ritirato la patente.

Tu picchi in testa, estranea m’incroci,
giri a vuoto, perdi le chiavi,
dimentichi il fuoco acceso,
il rubinetto aperto... L’Alzheimer avanza,
ti ruba a te stessa
e ti d i s p e r d e nelle nebbie di casa...
Domani, non sai,
domani ci porteranno in quella di riposo
che ha un’edicola col Cristo tra i Ladroni
all’ingresso.
Con l’inchiostro simpatico
risolveremo insieme rebus e cruciverba.
Lascerò qui l’orologio.
Saremo due lancette senza perno
sul quadrante bianco del t e m p o .

mercoledì 3 luglio 2019

Loretta Stingone - Madre terra

Chi potrà sentire ancora la fresca bruma estiva
con lo sguardo all’infinito?

Chi seguirà i passi dei pascoli transumanti
le rondini che tornano al nido

E come loro io.

Chi di noi oggi
stringerà le mani così vicine e grandi
di questa terra sofferente
e le legherà a sé

per rinsaldare un patto di storia e sangue
di aria e vita

E guarderà al domani?

Valentina Aldrovandi - Quell’estate con Andrea

Avevo conosciuto Andrea davanti alla gelateria di via del corso, mente era in fila con un suo amico attendendo il suo turno con aria svogliata.
Era un ragazzo alto e snello con i capelli neri, quel giorno aveva addosso un paio di bermuda verdi, una t-shirt bianca e un paio di scarpe da ginnastica blu ormai logore dall’usura e dal tempo. Dallo zaino a righe che portava sulle spalle, mezzo aperto, spuntava una cartella azzurra un po’ sgualcita con qualche foglio bianco. Era in quel locale con naturale noncuranza, parlava con il ragazzo al suo fianco mentre guardava i gusti dei gelati, indeciso tra cono o coppetta, scelta che da quando ero bambina mi affliggeva al momento di ordinare dinanzi a ogni gelataio impaziente.
Mi trovavo lì per caso, la scuola era finita da una settimana e mi ero ritrovata delusa davanti al cartellone con i risultati, trovandomi rimandata a settembre in fisica, e sapendo bene che l’avrei pagata cara soprattutto con mio padre, che ci teneva a esibire i risultati scolastici di sua figlia con parenti e amici.
Quell’anno non era andata come si aspettava, e dopo un primo quadrimestre brillante, mi ero arenata su numeri e formule, da sempre il mio tasto dolente, e non ero riuscita a recuperare un quattro di troppo preso in una verifica improbabile in una giornata assolata di inizio primavera.
Mi aspettava un’estate pesante, già lo sapevo. I miei sarebbero partiti con mia sorella a metà luglio per raggiungere la nostra casa in Puglia, mentre io sarei rimasta a Milano a studiare insieme al nostro vicino di casa, un professore universitario in pensione, che si era offerto di darmi ripetizioni in vista dell’esame di riparazione di settembre.
Solo ad agosto inoltrato avrei preso il treno per le mie due settimane di vacanza, una manciata di giorni, troppo poco per staccare la spina dopo mesi faticosi e stanchi.
Quel giorno il sole era alto, ero immersa nei miei pensieri mentre guardavo Andrea con curiosità, cercando di evitare che si accorgesse del mio sguardo insistente. Si era girato proprio mentre ero a una distanza minima da lui, rischiando di venirmi addosso con il gelato.
“Scusami, sono un po’ distratto”. Mi aveva guardato e aveva sorriso, illuminando quella giornata faticosa, iniziata con le grida di mia madre per le mie scorribande della notte precedente, in cui ero rientrata troppo tardi da un incontro con gli amici.
Ero uscita di corsa tirandomi dietro la porta, e mi ero ritrovata a passeggiare fino al Naviglio, cercando proprio quella gelateria affollata per perdermi in mezzo alla gente.
“Anche io oggi sono distratta, non ne vengo fuori”, avevo risposto, rendendomi conto solo dopo di aver allungato un po’ troppo la frase. “Scusa”, avevo aggiunto.
Andrea aveva esitato, poi inaspettatamente mi aveva invitato a sedermi in un tavolino fuori. “Magari hai bisogno di fare una pausa, siediti con noi”.  Il suo amico, sorpreso, aveva occupato il primo tavolino libero, in un delizioso cortile interno, e noi l’avevamo seguito.
Avevo iniziato a raccontare di me, della fine pesante  di quell’anno scolastico, Andrea a sua volta mi aveva parlato dei suoi progetti per l’anno successivo. Era in procinto di partire per un anno a Chicago, avevo sognato l’America attraverso i suoi racconti, stupita della facilità con cui mi lasciavo trasportare, rapita unicamente dalle sue parole.
Ad un certo punto il suo amico ci aveva salutato velocemente, eravamo rimasti soli con un lieve imbarazzo ad accompagnare lo scorrere del tempo.
Era iniziata così con Andrea, un po’ per caso,  da quel giorno le nostre vite si erano intrecciate e l’estate di quell’anno era rimasta sospesa nel tempo, un regalo inaspettato che mi ero presa con urgenza e desiderio.
Quando i miei erano partiti, avevamo preso l’abitudine di vederci tutti i pomeriggi in un locale vicino a casa sua, una libreria caffè con i tavolini per studiare. Io con il mio libro di fisica, lui con la sua ricerca per l’università di Chicago.
Le serate erano nostre, salivamo da lui ad ascoltare la musica e a sentire il profumo della pianta di limoni del suo terrazzo.
Lui metteva i dischi di Cole Porter e si sdraiava sul divano, io mi sedevo per terra e chiudevo gli occhi. La musica mi stordiva e così le sue parole, che mi facevano sentire dentro un racconto degli anni settanta.
“Hai mai visto il mare del Nord?”
“No, non ho fatto molti viaggi”, rispondevo.
“Ti ci porterò un giorno”. Mi parlava come se fossi la sua cosa più bella, apriva i suoi libri di poesie e le leggeva per me. Non le avevo mai amate molto, eppure quella è l’estate in cui ho scoperto Sereni, Seifert, Konstantinos Kavafis, che avrebbero accompagnato da quel momento i miei giorni e le mie notti.
Evitavo di pensare alla sua partenza ormai vicina, mancavano solo poche settimane alla data prevista per il suo volo, il cuore si stringeva all’idea che tutto ciò sarebbe durato solo il tempo di pochi respiri. Centellinavo le ore e i minuti, il profumo dei limoni scandiva i miei giorni e le mie ore.
Mi piaceva il momento in cui correvamo a casa sua. Entravamo in un cortile attraverso un portone verde grande, uno di quelli antichi che sono la mia passione e che amo fotografare da sempre. Sentivo sempre un odore forte provenire dalla portineria, sapeva di peperoni, aglio e carne alla griglia, una miscela che per sempre mi avrebbe parlato di lui e delle nostre corse verso l’ultimo piano di quel palazzo antico.
Andrea mi parlava poco della sua famiglia, sapevo che aveva una sorella più grande di lui, e che o suoi genitori passavano l’estate in una grande casa di famiglia situata nelle campagne toscane, rifugio di amici e parenti che in un modo o nell’altro amavano passare di lì.
Lui invece preferiva restare a Milano. Diffidava di quell’atmosfera fintamente gioviale che si respirava tra quelle mura, le lunghe discussioni a cena in cui ognuno cercava di convincere gli altri della bontà del proprio pensiero. Cene lente davanti a portate interminabili e infinite bottiglie di vino, che finivano per stordire gli animi e inasprire le dinamiche a volte arrugginite dei commensali.
La madre di Andrea era amareggiata e dispiaciuta circa la scelta del figlio di rimanere in città, e non comprendeva come non amasse quello che per lei era ormai un rifugio sicuro, in cui nascondersi e affondare le delusioni dell’anno trascorso, facendo finta che non fossero mai esistite.
Andrea la accusava per questo, e pensava che gran parte delle incomprensioni tra lei e suo padre fossero una conseguenza di questo atteggiamento, ovvero la scelta di non mettersi in discussione sottraendosi a qualsiasi confronto.
Anche quell’anno, come i precedenti, aveva passato in Toscana solo un week end, ed era subito tornato a Milano per godersi la sua casa vuota e la silenziosa solitudine delle stanze in letargo.
Anche io avevo goduto di quell’immobilità piacevole e irreale, di quei giorni fuori dal tempo che precedevano la sua e la mia partenza, ormai incombenti.
Quel martedì mi ero svegliata di soprassalto, avevo dormito a casa per finire di preparare gli ultimi bagagli, a malincuore avevo lasciato Andrea che finiva un grafico per la sua ricerca. Era tardi ma non avevo voluto farmi accompagnare, lo vedevo intento e non volevo si distraesse dal suo lavoro.
Mi ero addormentata quasi alle tre dopo aver fatto una doccia per far scivolare via la tristezza che stava iniziando a soffocarmi, all’idea dei pochi giorni che mi restavano per stare con Andrea. Per quanto mi sforzassi di rimanere lucida, il pensiero della sua assenza mi atterriva e mi sentivo persa e sola come mai mi era capitato sino a quel momento.
Alle sette avevo iniziato a sentire la pioggia contro la finestra della mia camera, prima gocce leggere, che si erano tramutate in pochi minuti in goccioloni pesanti, colpi rumorosi che rimbombavano sui vetri. Non mi ero più riaddormentata e mi sentivo stanca e sopraffatta dalle emozioni.
Avevo provato a chiamare Andrea ma stranamente non mi aveva risposto. Il suo telefono suonava a vuoto e dopo dieci squilli la voce fredda della segreteria si era unita alla mia delusione. Avevo riprovato e il copione era stato lo stesso.
Con il telefono in mano mi ero alzata e avevo camminato fino al soggiorno, avevo guardato fuori e fissato per qualche minuto il cielo grigio, sfondo dei miei pensieri tristi.
Un operaio aveva gridato qualcosa dal cantiere della casa di fronte in costruzione, un altro era sceso da un ponteggio e per un attimo aveva alzato lo sguardo e mi aveva fatto un cenno.
Non me la sentivo di aspettare ancora, Andrea continuava a non rispondere e non mi davo pace. Mi ero vestita ed ero corsa fuori, correndo sulle scale per fare più in fretta. La casa di Andrea non era distante dallamia, ma quella strada mi era sembrata lunghissima quella mattina. C’erano in giro solo pochi passanti, era troppo presto per una domenica di agosto inoltrato, la città era ancora addormentata, in attesa della scoperta del nuovo giorno.
In dieci minuti ero davanti al portone, impaziente di rivedere Andrea. Mi ero attaccata al citofono a lungo, avevo un presagio triste ma preferivo non abbandonarmi alle mie sensazioni.
Nessuna risposta.
Avevo provato di nuovo, Andrea non rispondeva. Mi ero guardata intorno sperando che uscisse qualcuno, ma tutto sembrava immobile e sospeso. Volevo sentire la sua voce e mi ostinavo a fissare il portone sperando che lui mi si materializzasse davanti, ma tutto taceva.
Dopo una decina di minuti uscì Flavia, l’insegnante che abitava sotto Andrea, alle medie era stata la sua professoressa di italiano, conosceva bene lui e la sua famiglia, da sempre.
La fermai impaziente.
“Buongiorno, posso entrare? Ha visto Andrea per caso?”
“Andrea Benatti?” Mi disse guardandomi con curiosità.
“Si’ lui”, risposi con ansia. “Lo sto cercando ma non risponde”.
“Mi spiace ma Andrea e’ dovuto partire stanotte per la Toscana. E’ venuto a chiedermi le chiavi della macchina”.
“E’ successo qualcosa?”, le chiesi.
Stette in silenzio e non mi rispose.
“Sono preoccupata”, proseguii.
“Mi spiace, sarà un brutto momento, riprova più tardi”, e aggiunse, “ti ho intravista qui in questi mesi, so che frequenti Andrea, ma credo dovrebbe essere lui a raccontarti. Scusami”.
Mi salutó velocemente e sali’ in una cinquecento rossa parcheggiata davanti a casa.
Ho provato invano a contattare Andrea per giorni, quell’estate di dieci anni fa, ore interminabili passate davanti a uno schermo buio, che non si è più illuminato per me. Dopo aver cercato di parlargli senza successo, ho aspettato che mi chiamasse lui prima del ventun agosto, giorno fissato per la sua partenza per gli Stati Uniti. Non mi spiegavo perché avesse interrotto ogni rapporto, improvvisamente, dopo che per due mesi eravamo stati così vicini, uniti, complici, se pur per un tempo così breve.
Non aveva più voluto avermi accanto, ma l’aveva fatto senza una parola che decretasse una rottura e che servisse a me per dare a  tutto quello un senso.
Aveva preferito dileguarsi e partire senza spiegarmi, senza coinvolgermi nell’urgenza di quella notte, senza condividere oltre, lasciando intatti quel frammenti di tempo insieme, come una perla preziosa isolata da tutto il resto.
Avevo sentito con dolore lo scorrere del tempo, fino al momento in cui avevo ripreso le abitudini di sempre, e Andrea si era perso, come il resto di quell’estate, nelle pieghe dei miei giorni.

Andrea Scarscelli - Biscotti e rotaie

Le dita rigide e contratte picchiettano incerte lo schermo. Lo sguardo fissa un punto indefinito sul muro. Periodicamente, inesorabilmente, un leggero tremolio si impossessa delle sue mani. Niente panico: contrae i muscoli, irrigidisce le gambe e respira, adagio. Gli spasmi durano pochi secondi, poi il volto torna disteso, le labbra sorridenti. Abbassa leggermente la testa all'indietro e guarda l'orologio. È in anticipo, come sempre. La macchinetta intanto inizia a ronzare. Scava nella tasca della giacca ed estrare una monetina, lucida e dorata, che inserisce con fatica nella fessura. Riconoscente, l’amico meccanico sputa fuori la sua piccola linguetta di carta. L’annusa. Tobia ama l'odore dell'inchiostro. Claudicante a causa delle sue gambe molli e curve, si trascina fino all'obliteratrice. Ora può partire.
Questa scena, ormai, si ripete da due mesi. Ogni sabato, alle quattro in punto. La prima volta, quando arrivai in stazione e lo trovai lì, intento ad armeggiare con quella macchinetta, credetti che fosse un gioco, che si divertisse a schiacciare i tasti, che non potesse viaggiare da solo. Allora fui tentato di dargli una mano, è impossibile non notare la fatica e l'impegno che gli richiede ogni gesto. Non lo feci. Sarebbe stato inutile, ora lo so. Fare il biglietto è una sua responsabilità: deve, e soprattutto vuole, cavarsela da solo. Sa di essere lento e di aver bisogno di tempo, ma non vuole l’aiuto di nessuno. Tutti coloro che si offrono di dargli una mano, si sentono rispondere un secco ma cordiale: «Accio da olo». Nonostante le sue difficoltà ad articolare le parole nessuno potrebbe fraintendere il senso della frase. In realtà, purtroppo o per fortuna, le proposte di aiuto sono poche e sporadiche. La sua presenza infatti per diverse persone è fonte di imbarazzo. Non sapendo cosa dire, come comportarsi, molti semplicemente lo evitano. Evitano la sala d'aspetto, evitano di avvicinarsi ed evitano di rivolgergli la parola. Discutere con Tobia è complicato, molto spesso parla da solo e sembra infastidirsi se qualcuno si intromette. Anche solamente capire che cosa dice non è semplice. Eppure, pochi gli chiedono di ripetere e quasi tutti fingono di capire: sorridono, annuiscono o rispondono un generico "è vero". Lui sembra non farci caso, forse non se ne accorge o forse fa finta di nulla. Chi può dirlo. Sia come sia, poco importa, a Tobia non interessa fare conversazione, deve prendere il treno e raggiungere suo fratello. Lo va a trovare ogni sabato: mangiano la pizza e poi dormono sul divano letto, vicino al camino. Da un po' di tempo a questa parte suo fratello ha adottato un cane, Sam, un testardo e iperattivo beagle. Tobia lo adora, si adorano. Passano ore intere vicini, l’uno accanto all’altro, in silenzio. Da piccolo era la madre a portarlo dal fratello, in macchina. Ma ora Tobia, come dice lui stesso, “è grande” e può prendere il treno da solo. In fondo si tratta solamente di cinque minuti di viaggio.
Lo osservo in disparte, con attenzione. Quando l'altoparlante annuncia l'arrivo del treno, non appena la campanella inizia a tintinnare, assume sempre un'espressione sbigottita. La paura però dura poco: Tobia si tranquillizza, afferra il suo zainetto con dentro pigiama e spazzolino da denti e si reca al primo binario. Anche io prendo questo treno, secondo vagone. Lui sempre il primo. Rimango qualche istante tra le porte del treno per essere sicuro che non ci siano intoppi, che riesca a salire. Se nessuno lo aiuta, afferra la maniglia con decisione e dopo alcuni tentativi sale. Sempre. Il capotreno ormai lo conosce e lo aspetta. È il primo a cui chiede il biglietto, perché sa che questo gli fa piacere: dopo tutto l'impegno che ci ha messo per farlo! Ogni tanto, il capotreno si ferma anche a chiacchierare, ma con scarsi risultati. Una volta salito sul treno, Tobia vuole solo essere sicuro di scendere alla fermata giusta, poco importa se è subito quella successiva. Meglio non distrarsi. È così concentrato che non si sfila nemmeno la giacca. Lo zaino rimane sempre sulle sue spalle. Gran parte del viaggio Tobia lo passa osservando il paesaggio fuori dal finestrino. Quando il treno inizia a rallentare si alza e si avvia verso le porte di uscita. Aprire le porte degli scompartimenti, tirarle verso di sé, richiede molta energia. Troppa per le sue braccia. Per fortuna, come sempre, sarà il capotreno ad aprirle per lui. Stridendo e dondolando il treno si ferma. Tobia si appoggia al corrimano e scende.
Anche io scendo, gli do un’ultima, rapida occhiata e, non appena sono certo che sia tutto a posto, mi dirigo velocemente verso il sottopassaggio. Una volta fuori dalla stazione, in strada, so di avere abbastanza tempo per passare al supermercato sotto casa e comprare i biscotti al cioccolato.

Non appena esco dal negozio, lo vedo camminare lungo il viale alberato. Dopo una ventina di passi, di solito si ferma per qualche tempo. Deve riprendere fiato, le sue gambe non sono fatte per camminare a lungo. La sua forza di volontà, invece, lo porterebbe anche in cima a una montagna. Riparte.
Arrivo davanti al portone di casa. Inserisco la chiave nella toppa ed entro. Il cane mi corre incontro, festoso. Scodinzola energico e cerca di leccarmi le mani. Devo sbrigarmi. Mi dirigo in camera da letto e poso la giacca sull'attaccapanni. Indosso la tuta, inforco le pantofole e lancio i biscotti nella dispensa. Ho giusto il tempo di buttarmi sul divano, accendere la televisione e fingermi mezzo addormentato prima che suoni il campanello.
Raggiungo la porta e recito la mia commedia:
«Chi è?» Come se non lo sapessi.
Non esita nemmeno un secondo e risponde felice: «Io!»
Apro la porta e lo abbraccio.
«Già qui? Sei in anticipo, sei venuto in macchina?» Dico, ridendo.
Sorride, ma non mi guarda. Tobia non guarda nessuno negli occhi. Quando rivolge la parola a qualcuno i suoi occhi sembrano cercare qualcosa, in altro, sopra la testa del suo interlocutore.
«Non ho paente!» Mi risponde, ironico ma deciso. E lentamente entra in casa.
Sam appena lo vede gli salta addosso, abbaiando di felicità. È un cane un po' irruento, per poco non lo fa cadere, ma Tobia non si spaventa, si appoggia al muro e faticosamente fa scivolare lo zaino a terra. Lo afferro prima che cada e gli sfilo delicatamente la giacca.
Piano piano, Tobia si accovaccia fino a sedersi a terra. So quanta fatica gli costi questa semplice azione, ho provato a dirgli che non è obbligato a farlo, se gli fanno male le gambe. Ovviamente non vuol sentire ragioni poiché, come mi ripete spesso: “i piccoli vanno abbracciati”. E in fin dei conti, credo abbia ragione lui: con i piccoli, sono i grandi a doversi abbassare.
Terminate le feste e gli abbracci, lo aiuto ad alzarsi e ci dirigiamo in cucina.
«Guarda cosa c'è nella dispensa!?»
 Apre lo sportello del mobiletto di legno e inizia a ridere.
«I biscotti!» Esclamo io.
«Scotti!» Ripete.
Lo faccio accomodare sulla sua sedia speciale, una sorta di grosso seggiolone con delle bretelle che gli impediscono di cadere in avanti. So che non gli piace, che vorrebbe una sedia normale. E so anche che, probabilmente, non cadrebbe. Però nostra madre si sente più tranquilla a saperlo ancorato là sopra.
Una volta imbrigliato, poggio il pacco di biscotti sul tavolo e scaldo due tazze di latte nel microonde. Sam intanto entra in cucina trotterellando, con in bocca la sua palla blu. Si avvicina alla sedia-seggiolone, la poggia sulle ginocchia di Tobia e attende il lancio. Per le dita di Tobia però, afferrare la palla è un’operazione tutt’altro che semplice e tanto meno veloce. Per fortuna Sam non ha fretta e lo aspetta seduto, fermo e scodinzolante. Chiunque altro avrebbe dovuto inseguire quel cane per tutta la casa prima di riuscire a prendergli quella piccola sfera blu. Ma non Tobia, perché Tobia guarda Sam dritto negli occhi. Lui sì.
Dopo alcuni tentativi, Tobia finalmente artiglia la palla. La solleva sopra la testa, spezza il polso e sferra un formidabile lancio che arriva quasi in corridoio. Sam sfreccia sul pavimento, slittando sulle piastrelle di marmo. A volte ho l'impressione che faccia intenzionalmente il giro più lungo per raggiungere la palla, o che finga di non vederla, per farlo divertire di più. Che animale straordinario, ha molto da insegnare. Soprattutto a me. Già, perché Sam si fida di Tobia, lo tratta come tutti gli altri, solo con un po' più di tatto e delicatezza. Sembra essere in grado di capire quando è necessario limitare l'irruenza ed essere più docile. Non l'ho mai dovuto riprendere o sgridare, ha sempre saputo, perfettamente, in ogni circostanza, che cosa fare e cosa evitare. Io invece, dopo quasi vent'anni, non so ancora come comportarmi. Talvolta non riesco a distinguere il sottile confine tra amore e apprensione. Forse sono la stessa cosa. Amare, in fondo, vuol dire proteggere. E questo è quello che cerco di fare, è il motivo che mi spinge ogni sabato ad andare alla stazione per tenerlo d'occhio. Arrivo circa mezz’ora prima di lui, mi siedo e aspetto. Appena noto l’auto di mia madre mi nascondo. In questi mesi Tobia non mi ha mai visto, oppure ha sempre fatto finta di nulla. In questi mesi non gli è mai successo niente, è sempre andato tutto bene: non ha mai sbagliato binario, non è mai caduto a terra, non lo hanno mai derubato e non ha mai rischiato di finire sotto a un treno. In questi mesi ho capito che è perfettamente in grado di fare questo piccolo-grande viaggio. Certo, gli occorre più tempo per fare il biglietto come per salire sul treno, però riesce a fare tutto, con i suoi tempi e i suoi modi, ma ce la fa.
Sono io che, invece, non ce la faccio, che sono costretto ogni settimana a fare la solita, identica, sceneggiata. Non è una questione di tempo perso, intendiamoci, il fatto è che a volte mi sento in colpa. Come se lo stessi ingannando. Per lui è molto importante credere che io nutra abbastanza fiducia per farlo viaggiare da solo. Ha dovuto lottare molto come me, e soprattutto con nostra madre, per ottenere questa libertà. Ha anche imparato a usare il cellulare, mi chiama spesso. Insomma, Tobia è pronto, sono io a non esserlo.
Il fatto è che questi anni insieme non sono stati una passeggiata. Spesso è andato in crisi per delle cose così banali. Almeno ai miei occhi. Il bicchiere riempito troppo, il fatto che due o più alimenti si toccassero nel piatto, il colore delle maglie che indossava. Tutto ciò che esula dalla sua routine è una potenziale fonte di stress e paura. Anche questo piccolo, insulso viaggio di cinque minuti potrebbe scatenare una delle sue violente crisi. Finora non è mai successo, ma potrebbe. Il solo pensiero non mi fa dormire la notte. Ogni sabato mattina mi riprometto di non andare in stazione, di non spiarlo, di rispettare la sua indipendenza. Poi, inesorabilmente, la paura prende in sopravvento e corro a fare il biglietto. Ogni volta ripeto a me stesso: “questa è l'ultima”.
Il timer del forno a microonde suona. Il latte è pronto. Tiro fuori le tazze e afferro due cucchiaini. Gli faccio aprire il pacco di biscotti, ne va matto. Può sembrare una stupidaggine ma, vista la ridotta mobilità delle sue mani, anche i gesti più semplici come aprire un barattolo o premere un interruttore, possono diventare imprese molto impegnative. Che sia merito suo o di chi ha ideato la confezione, sta di fatto che questo pacco, questi biscotti, per Tobia non hanno segreti. Verso un cucchiaino di zucchero nella sua tazza e gliela poggio davanti. Il cucchiaio arancione, il suo preferito, è avvolto nella sua accartocciata mano destra. Nella sinistra, saldamente pinzato tra l'indice e il medio, il primo biscotto sta per essere inzuppato.
Lo osservo con affetto mentre sorseggio il mio latte. È felice, lo vedo. E anche io lo sono. In questi momenti mi sembra che tutto vada bene, che il peggio sia passato, che le cose non possano che migliorare. “Andrà bene, andrà tutto bene” mi ripeto.
Questa volta è stata davvero l'ultima, promesso.

Marcello Ranieri - Due fratelli

Salì a Cadorna e venne a sedersi di fronte a me nell'unico posto libero, non mi aveva proprio visto. Viveva in via Tovaglie, sapevo, a un passo da casa nostra, ma non ci vedevamo da anni. Lo fissai, non mi aveva ancora notato. Portava i capelli molto corti, ed era invecchiato. Dovevo avere un'espressione tesa perché il cuore mi batteva forte per lo sconcerto. Fra tutte le cose che potevano passarmi per la testa in quel momento, mi tornò in mente, non so perché, un pomeriggio che avevamo trascorso da bambini a casa di una famiglia di amici dei nostri nonni. Doveva essere piena estate, anche se a giocare all'aperto non soffrivamo il caldo, mi sembra. Io avrò avuto sette anni, andavo già a scuola, lui cinque. Ricordo bene i nostri nonni chiacchierare sotto la veranda con i padroni di casa, mentre noi eravamo liberi di girare nell'aia e nei campi lì attorno, nessuno ci faceva caso. Non so chi fossero quelle persone che eravamo andati a trovare, evidentemente delle vecchie conoscenze a cui nonno o nonna avevano deciso di fare un'improvvisata senza neanche telefonare prima per vedere se li avrebbero trovati a casa, non ci erano abituati, il tempo era la loro ricchezza. Mentre ci riposavamo seduti a terra sotto l'ombra di un albero che, poco distante dalla casa e dalle rimesse dei trattori, era l'unico in mezzo a un campo di grano appena mietuto, riarso dal sole, mi urlò “Guarda! Il maggiolino!”. Ne aveva visto uno accanto al suo braccio, sul tronco a cui ci eravamo appoggiati tutti e due con la schiena. Mi voltai e mi misi in ginocchio per guardarlo di fronte. Fece anche lui così. In città non li avevamo mai visti, ma nelle lunghe estati con i nonni ci avevano abituato a lasciarli andare, erano insetti buoni. Sapevo che era innocuo e gli misi un dito davanti, mentre avanzava sulla corteccia del tronco. Ci salì e me lo trovai sull'unghia. Iniziò a procedere. Paolo dopo l'ammirazione iniziale per il mio atto audace ebbe un sussulto “Ti pizzica il dito!”. Gli risposi “Non fanno niente”. Veramente, ero emozionato nel vedere per la prima volta così da vicino quell'insetto bellissimo, di un rosso lucido come appena verniciato e coi tondini neri invece opachi, e, a sentirmelo camminare sulla pelle, un po' di timore che nonostante quello che dicessero nonno e nonna un potere urticante o in qualche modo nocivo potesse averlo, mi venne, ma durò poco: aveva già aperto le due metà della sua corazza sotto le quali spuntarono due ali inaspettate, scure ma trasparenti, con cui spiccò un volo quasi inverosimile per tornare a posizionarsi sul tronco dove l'avevo prelevato. Eravamo meravigliati, ma anche un po' piccati da quella dichiarazione d'indipendenza. Paolo si mise in piedi e si avvicinò di più al tronco per prendere anche lui il maggiolino sulla mano. Glielo lasciai fare, ma quando se lo trovò sulla mano la scrollò per farlo volare via, con lo sguardo spaventato. Il maggiolino cadde per un tratto nell'aria, ma riuscì a prendere il volo prima di arrivare a terra e a tornare dov'era. “Ma che fai!” lo richiamai, “Si fa male!”. E lui quasi si mise a piangere. “Guarda come si fa” dissi e provai a riprenderlo, ma ora il maggiolino sembrava sospettoso, come se non volesse più fidarsi delle nostre dita. Mi balenò un'idea e dissi a Paolo “Vieni”. Mi seguiva sempre volentieri e preferii averlo con me piuttosto che lasciarlo solo a provare di catturare l'insetto con il rischio di nuocergli. Corsi nell'aia alla macchina di nonno, di cui conoscevo ogni segreto, per essermici annoiato dentro centinaia di volte. Aprii lo sportello e sentii che nonno dalla sua seggiola all'ombra mi chiedeva che cosa cercassi. Gli rispose Paolo, “Abbiamo trovato il maggiolino!”. Lo redarguii con lo sguardo, gli adulti ripresero a chiacchierare, mi fu facile prendere la scatola dei fiammiferi dal cruscotto e nascondermela in tasca. Paolo non capiva, ma stette in silenzio e mi seguì di nuovo fino all'albero. Il maggiolino era lì, sul tronco e dissi “Lo portiamo a casa”. Era una di quelle scatole con il cassetto scorrevole, lo aprii e la affidai a Paolo. Dentro erano rimasti pochi fiammiferi, Paolo rimase a guardarli, mentre io mi avvicinavo e appoggiavo di nuovo la mano sul tronco, vicino all'insetto, aspettando che mi salisse sulle dita. Lo fece, dopo un po', come se avesse ritrovato la fiducia e mi avvicinai la mano agli occhi per guardarlo meglio. Le zampe erano altrettanto interessanti del resto, avevano la forma perfetta per aggrapparsi a tutto. Piano piano avvicinai la mano alla scatolina e Paolo me la mise attaccata per facilitarmi il compito. Trepidavamo al pensiero che riprendesse il volo, ma il maggiolino non lo fece. Nel camminarmi sulla mano, solleticandomene il dorso, fu facile farlo cadere nel cassettino tra i fiammiferi. Rimase rovesciato sulla schiena con le zampe all'aria agitandole e Paolo diede una piccola scossa alla scatola; brontolai, ma il maggiolino era di nuovo in piedi, come desideravamo. “Chiudi!” quasi gridai, e Paolo ci provò, ma non era capace. Gli presi la scatola e lo feci io. Dopo un attimo la avvicinai a lui di nuovo e ne aprii uno spiraglio, guardando dentro anch'io, di traverso, per evitare che il maggiolino ne approfittasse per volare via. Era lì, e non sembrava affatto volersene andare. Restava fermo sui pochi fiammiferi e pareva aver trovato pace. Richiusi e tenni la scatola in piano, dicendo a Paolo di seguirmi. Tornammo alla macchina, parcheggiata all'ombra, e una volta entrato a sedere Paolo mi guardò riaprire un attimo la scatolina per assicurarmi che il maggiolino ci fosse, e poi richiuderla subito, prima di rimetterla al suo posto nel cruscotto. Feci finta di nulla per un po', poi scesi e Paolo mi seguì di nuovo fino a un punto dell'aia dove ci si poteva sedere. Gli adulti, distanti, stavolta non ci avevano notato, presi dalla conversazione. Paolo mi chiese dove avremmo tenuto il maggiolino, nella nostra cameretta. Gli risposi che potevamo fargli una casa con il cartone, prendendo la scatola delle scarpe. Parlammo un po' di come si poteva costruire la casetta e poi ci mettemmo a giocare a rincorrerci. Per un po' ci dimenticammo tutto, ma poi l'emozione della novità ci riportò sull'argomento. A lungo quel pomeriggio giocammo così, alternando i momenti di corsa o di nascondino a quelli passati a chiacchierare di quello che avremmo fatto con il maggiolino. Una volta Paolo si nascose nella macchina e quando lo trovai rannicchiato sul tappetino del passeggero, proprio vicino allo sportello del cruscotto, mi venne voglia di guardare, ma corsi a fare tana e poi vidi che nostro nonno era venuto a controllare che tutto fosse a posto. Ci fermammo con lui e temetti che Paolo si lasciasse sfuggire il nostro segreto, ma andò tutto bene. Nonno ci disse di non combinare guai, poco convinto che non gli stessimo nascondendo qualcosa e tornò all'ombra a chiacchierare, in piedi, come per accomiatarsi, ma senza prendere la decisione. Avemmo tutto il tempo di giocare ancora e, quando fu il momento di andare, i signori che ci avevano ospitati ci invitarono a tornare a trovarli. Andando a casa, sul sedile di dietro non stavamo nella pelle per la voglia di raccontare tutto a nonna e nonno che ci chiedevano se ci eravamo divertiti, ma ci scambiavamo sguardi complici in silenzio. Una volta arrivati, presi per mano Paolo e lo tirai con me giù dalla macchina per andare un po' a giocare, mentre i nostri nonni aprivano la porta e si accingevano ai preparativi per la cena. Dopo un po', furtivamente, dissi a Paolo che dovevamo andare a prendere il nostro maggiolino. Nonno aveva acceso la televisione e fu facile aprire la macchina nell'aia di casa senza che nessuno ci badasse. Presi con delicatezza la scatolina, richiusi lo sportello e andammo nella nostra cameretta. Preparai la scatola di scarpe e Paolo mi chiese “Che cosa gli mettiamo da mangiare?”. “L'insalata” risposi, rimandando a dopo. Tutto era pronto, eravamo emozionatissimi. Aprii con cautela il cassetto solo un po', per guardare dentro. Non si vedeva nient'altro che le capocchie azzurre dei fiammiferi e piano piano aprii un po' di più, finché il cassetto scorse tutto. Il maggiolino non si vedeva. Appoggiai la scatoletta sul letto e iniziai a togliere i pochi fiammiferi, temendo di trovarci sotto l'insetto schiacciato. Paolo mi osservava, interrogativo. Quando appoggiai gli ultimi sul letto e vidi che il maggiolino proprio non c'era più, diedi un colpo con la mano sulla coperta per il nervoso e i fiammiferi saltarono cadendo in parte sul pavimento. “Dove l'hai messo?” gridai a Paolo. Ma lui mi disse che non aveva toccato niente, e si mise a piangere. Arrivò mia nonna, che mi sgridò e mi ordinò di raccogliere subito i fiammiferi e di rimettere la scatola a posto. Volle sapere perché avevamo litigato e si mise a consolare il piccolo, portandolo con sé in cucina. Rimasi solo, meditando una vendetta che le patate fritte a cena mi avrebbero fatto dimenticare.
Ora eravamo su un tram, alla fine di un giorno lavorativo. Pioveva, Paolo era seduto di fronte a me ma non mi aveva ancora visto. Rimase assorto in chissà quali pensieri per tutto il tragitto, mentre io lo guardavo senza sapere come comportarmi. Quando alla fine si accorse di me ebbe un moto negli occhi, qualcosa che durò un attimo e fu indecifrabile. Non posso dire se assieme alla sorpresa abbia provato la gioia istintiva di rivedere suo fratello dopo tanto tempo, ma sia riuscito a soffocarla un istante dopo nell'orgoglio, oppure se gli sia tornata la rabbia per gli episodi che attorno ai trent'anni ci avevano allontanato e che dopo un accesso d'ira sia riuscito a contenersi per non darmi la soddisfazione di mostrarsi ancora ferito. Immediatamente si ricompose e, girandosi da un'altra parte, si preparò per scendere alla fermata. Eravamo così vicini.

venerdì 28 giugno 2019

Stefano Ficagna - Una leggerezza

L'unica cosa certa, in tutta questa storia, è che mentre lui inizia a disegnare lei non tira neanche un fiato.
Il suo ruolo negli avvenimenti fu accettato con leggerezza, la stessa che ostentavano i sei fazzoletti di lino bianco che stringeva in mano. Una tassa d'entrata inusuale, un vezzo di eleganza di dubbia utilità in luoghi dove ogni movimento costa sudore. Il sole in quel villaggio sembra camminare al tuo fianco, ma il suo abbraccio non è per niente benevolo. Soffoca.
Dei fazzoletti ricamati, a pochi passi dalla giungla, rappresentano una bellezza effimera. Un esotismo al contrario, laddove esotico è qualunque simbolo di lande che forse non vedremo mai.
La regione intera era un miraggio prima che potesse vederla coi suoi occhi. Ciò che gli veniva raccontato di quei luoghi era tanto inverosimile da provocare una reazione consolidata sul suo volto: il sopracciglio sinistro arricciato verso il basso; quello destro, una linea retta verso l'alto, come un accento; la fronte increspata di rughe.
E gli occhi, tanto fissi quanto distanti, persi in chissà quale ragionamento. Partecipare alla spedizione era stata una sfida, ai propri limiti fisici certo ma non di meno a quelli della propria mente.
Voleva vedere, toccare con mano. Come un novello San Tommaso necessitava dei sensi per credere a un mondo diverso da quello in cui era cresciuto. Innumerevoli viaggi non lo avevano abituato alla varietà del creato, perché gli agi della propria ricchezza gli facevano da schermo.
La curiosità di entrare finalmente in contatto con qualcosa di autentico lo spinse ad agire. L'espressione corrucciata, quella distanza fra la linea dello sguardo e l'effettivo orizzonte che i suoi occhi vedevano, furono stigmate che non lo abbandonarono nemmeno in quella terra dove l'impossibile appariva reale.
E a chi gli promise di mostrargli qualcosa di cui non sospettava l'esistenza, un atto al quale nemmeno calpestare quella terra e respirare l'aria pesante e umida lo avevano preparato, egli riservò leggerezza e incredulità in egual misura.

Camminarono a lungo, un piccolo drappello scelto. Eterogeneo e insolito, dagli abiti al colore della pelle finanche all'età. Lui si lasciava guidare, ogni tanto gettava un'occhiata distratta al tributo che andava recando, ma i suoi occhi si fissavano oltre. Incapaci di fissarsi sul presente, cercavano segni di qualcosa di là da venire.
Risposte, a domande nemmeno troppo chiare nella sua testa.
Arrivarono al villaggio successivo accolti da una deferenza eccessiva, solitamente riservata solo a ospiti importanti o temuti. A quale categoria appartenesse il drappello lo testimoniavano piccoli dettagli. Occhi rivolti verso il basso, sorrisi incerti, piccoli tremori delle mani.
Abituati alla crudeltà, gli abitanti del villaggio associano l'uomo bianco alla paura. Il suo arrivo getta sempre un'ombra sugli eventi, e al tramonto la si può vedere che si allunga dai loro piedi, assumendo le più svariate forme. Una nave che solca il mare, un ammasso di catene.
E una montagna di mani tagliate, che hanno smesso per sempre di tremare.
La paura era il minimo comune denominatore che legava i due gruppi, e sfuggivano alle sue grinfie solo i più forti e gli innocenti. O chi, come l'uomo che si avvicinò al capo villaggio, era presente col corpo ma non con lo spirito.
Guardarono la sua ombra, ma il sole era allo zenit ed essa ristagnava neutra sotto di lui. Ci si poteva aspettare qualunque cosa, ma egli recava con sé un dono e per il capo villaggio quello era un buon presagio.
Il dono avanzò. Sembrava leggera quanto il lino di cui erano composti i fazzoletti con cui era stata scambiata, o forse era l'innocenza dei suoi dieci anni a renderla tale. Non tremò di fronte agli uomini a cui veniva ceduta, nemmeno al cospetto di colui che l'aveva comprata.
Ma alla voce di quest'ultimo, alla sua richiesta espressa in una lingua che masticava a malapena, un sospiro le sfuggì dalle labbra.

La sacralità di ciò che sta per accadere è rotta solo da pochi rumori, coltelli che vengono affilati, una matita che corre veloce sul foglio. Per la tribù tutto questo non è una novità, ma sentono che oggi qualcosa di diverso permea l'aria.
Forse lo sente anche la ragazza, legata a un albero e come arresa al suo destino. Gli occhi fissano qualcosa di indefinito, ma quando un uomo le si avvicina con la lama al fianco non riesce a impedirsi di guardare.
Due rapidi tagli al ventre, due strisce rosse che si allargano. Il sangue le cola lungo il corpo, ma il dolore non trova sfogo sulle sue labbra serrate.
Intanto l'uomo bianco osserva, mantenendo quell'espressione incredula sempre fissa sul volto. Distoglie lo sguardo solo per girare un foglio, ricominciare a disegnare, tratteggiare ogni dettaglio di quello strazio.
Gli uomini della tribù continuano ad affilare i coltelli. La cerimonia è solo all'inizio, ma la ragazza non ne vedrà la fine. Ogni minuto che passa gli occhi sono meno lucidi, le gambe meno salde, eppure continua a non emettere un lamento.
Sembra formarsi un legame fra lei e l'uomo che l'ha condannata a quel supplizio. Forse c'è un motivo per tanta crudeltà, e il suo martirio è anche estasi. Cosa vede? È ancora il nostro mondo che osserva?
E lui, quanto è consapevole del suo ruolo negli eventi? La sua leggerezza nel cercare prove di una pratica che non credeva vera gli fa orrore, oppure è insensibile di fronte al male? Quella goccia che scorre veloce dalla sua tempia al mento, spazzata via con un veloce gesto della mano, potrebbe essere sofferenza fisica quanto dell'animo, ma sul volto non appaiono moti di pentimento.
Quando la ragazza muore, lui continua a disegnare. Anche quando iniziano a farla a pezzi la sua matita corre veloce sul foglio, tratteggia una lama calata sul braccio, le viscere calde estratte dal ventre, l'acqua che monda le lame una volta finito il massacro.
Forse è stato davvero un momento sacro. Gli uomini della tribù renderanno onore alla vittima divorandone le carni, e l'uomo bianco potrà convincersi che il suo ruolo nella vicenda era scritto nel libro del destino. Che non esistono martiri senza un carnefice, e per ogni santo ci sono un uomo o una donna che ne hanno permesso l'ascensione, non meno degni di beatitudine.
O forse un demone si è rivelato al mondo, e non si è nemmeno riconosciuto.

(Ispirato alla vera storia del Jameson Affair, vicenda accaduta nel 1886 durante la sanguinosa occupazione del Congo da parte di Re Leopoldo II del Belgio)

Sergio Gallo - La cripta sommersa

Discorso intorno alla fine di due pesci rossi nella cripta della chiesa di San Francesco a Ravenna

- Ma vuoi che mi venga l'esoftalmo? L'idropisia, l'ulcera, la malattia del cotone? - disse Gemella d'un tratto, esasperata. - Che mi uccida a forza di testate contro il muro o per una cronica infiammazione mi metta a nuotare per sempre a sghimbescio o a pancia all'aria? Che per esaurimento mi si sfrangino la pinne, mi crescano i barbigli? - Esichio la guardò in silenzio, con aria interrogativa - Mi farai diventare pazza con le tue questioni e le tue continue lamentele! - aggiunse lei, aumentando il carico se ancora ce ne fosse bisogno.
- Beh ma prima o poi dovremo affrontarla, la fine: basta che l'acqua qui dentro per qualche ragione si prosciughi o drasticamente cambi la temperatura... e noi saremmo fritti! - dopo un po' fece lui. - Beh quando questo accadrà lo affronteremo! Ma fino ad ora la sorgiva si è sempre mantenuta costante - precisò lei - E poi, lo dovresti sapere, i bipedi dalle pinne lunghe, quelli che vivono nel mondo ultracqueo e che ci danno anche il cibo per sopravvivere, ripristineranno la situazione e ci sostituiranno con altri pesci della nostra stessa specie. Altri uguali a noi continueranno quello che abbiamo sempre portato avanti, tramanderanno quello che abbiamo imparato in milioni di anni e quello che abbiamo appreso di questa cripta, nella quale fino a oggi bene o male abbiamo vissuto. Anche loro saranno simili ad antichi zeloti, eredi dei custodi del vescovo Neone, che i bipedi venerano per aver fondato questo luogo sacro. Anche loro saranno “virgulto di sapienza” e orgoglio di tutti i pesci rossi! Quindi basta con questa tua ansia apocalittica! -.
- Ti ricordo cara che i bipedi credono che i pesci rossi non abbiano memoria! - puntualizzò Esichio. - Beh se ci conoscessero meglio cambierebbero idea! - controbatté Gemella.
- Se non vivessimo in questo particolare posto ci ignorerebbero del tutto! - concluse lui. Per un attimo tacquero guardandosi attorno.
Le tessere dei mosaici sul pavimento brillavano di mille riflessi.
Ogni occhio, muovendosi in direzione opposta all'altro, percepiva sfumature di colori diversi; da una parte prevalevano i blu: ceruleo, cobalto, pavone fino alle ombre più scure color blu notte, oltremare, Prussia. Dall'altra i rossi: magenta, scarlatto, vermiglio, cinabro, corallo, cremisi per arrivare a porpora, carminio, granata. Distintamente apparivano le basi delle quattro colonnine in pietra, “neri alberi” che si elevavano a sostenere il soffitto a volte a crociera che essi però potevano solo immaginare. Un cielo di vetusti mattoni. Altri diciotto alberi marmorei più piccoli delimitavano in semicerchio i confini della spaziosa cripta-acquario. Essendo i due pesci uno di fronte all'altra potevano invece sbirciarsi grazie a quello stretto angolo del campo visivo in cui gli occhi monoculari vedono simultaneamente. Non era la vista, però, l'organo di senso con cui di solito si riconoscevano.
Sapevano di essere in una cripta del Decimo secolo, meraviglia della cristianità, sorta sui resti d'una più antica chiesa primitiva e prima ancora forse da un tempio pagano dedito al culto di Nettuno?
Filtrava dalla finestra centrale qualche rasoiata di luce dalle navate della chiesa, un raggio di sole dall'abside un tempo decorato da mosaici raffiguranti gli apostoli Pietro e Paolo, il riflesso notturno d'una stella, d'una candela a rifrangersi sulla superficie smeraldo delle acque sorgive?

- Tu devi pensare a vivere meglio che puoi il presente! - proseguì Gemella. - Ti ricordi come eravamo felici quando ci siamo conosciuti la prima volta da piccoli, quanto ci piaceva nuotare una accanto all'altro, esplorare il mondo sommerso? Ti ricordi quando durante il periodo del corteggiamento mi danzavi attorno riempiendomi di attenzioni, di moine, solleticandomi il ventre con i tuoi buffi tubercoli nuziali? -.
- Lo sai che finché le condizioni di temperatura dell'acqua rimarranno queste non ci è consentito procreare! - borbottò mestamente Esichio - Altrimenti sì che ti avrei dato qualche migliaio di avanotti! -
- Ma io non sto parlando di questo - replicò Gemella - sto parlando di come un tempo la nostra vita fosse più spensierata, più tranquilla, meno problematica, meno esasperata. -
- Più nella vita aumentano consapevolezza e complessità, crescono problemi, ansie e preoccupazioni e più si rimpicciolisce il tempo per gioire – osservò Esichio da filosofo consumato e aggiunse: - L'iperuranio della gioia inconsapevole e le infinite coccole dell'infanzia ormai sono una chimera! -
- Ti ricordi le leggende che ci raccontavano su come sono nati i pesci rossi nel Catai? - riprese Gemella - Su come erano stati proibiti i pesci dorati e ciò aveva di fatto aiutato la selezione di quelli più rari color mattone? -
- Vediamo ora con questo tuo pindarico svolazzare del pensiero dove mi vai a parare - sospirò Esichio. E lei: - E ti rammenti di come imperatrici e imperatori bipedi facessero a gara per adornare con i più bei esemplari della nostra specie le vasche dei loro splendidi giardini, i più preziosi vasi di porcellana? Ci adoravano come piccoli dei, eravamo forieri di ricchezze, di bellezza, di fortuna. -
- Sì, però, si facevano anche dei gustosi bocconcini con quei nostri progenitori: morbidi frutti che cascavano in fauci ingorde! - disse Esichio. - È strano come si siano incrociate la storia dei pesci rossi e quella dei bipedi dalle pinne lunghe – constatò poi.
- É la storia dei bipedi a essere affascinante quanto la nostra! - ribatté Gemella. - Pensa solo a tutti quelli di cui abbiamo sentito le voci da qui sotto, a tutti quelli che sono stati sentiti dai nostri predecessori. E a coloro di cui abbiamo solo sentito raccontare: Onorio, Liberio, Orso, Neone. Si dice che un tale, Ostasio da Polenta, seppellito in un sarcofago rosso veronese ma con il volto e le mani di marmo bianco, sia stato il primo bipede ad aver importato qui dall'Oriente i pesci rossi! E quel tale che i bipedi chiamano il Sommo Poeta, su cui arrivano ancora oggi le notizie più disparate: in questi luoghi con i massimi onori ne vennero svolti i funerali e venne seppellito qui nei paraggi. Giungono bipedi da ogni dove per rendere omaggio alla sua tomba! -

A un tratto furono interrotti da un susseguirsi di vibrazioni. Da una moltitudine di voci che giungevano nitide, dato il più veloce propagarsi dei suoni nell'acqua. Poi sequenze di lampi colpirono la superficie delle acque soprastanti. Non li potevano vedere bene ma sapevano che un nuovo gruppo di giovani bipedi si era avvicinato e cominciava a guardare incuriosito nelle aperture della cripta: avrebbero ammirato gli splendidi mosaici bizantini del pavimento? Tradotto le epigrafi musive in greco e latino? No di certo! In men che non si dica s'apprestavano a tempestare i pesci con flash di telefonini e macchine fotografiche digitali! Altrettanto facevano i bipedi più grandi. Pareva non avessero mai visto dei pesci rossi nuotare in una cripta.
- Vai a far lezione a dei celenterati senza spina dorsale, che non rispettano nemmeno le altre forme viventi, non conoscono la storia e approfittano d'una gita scolastica solo per divertirsi e far casino, invece che per imparare! - sbottò a un certo punto Esichio, rassegnato.
- Ma santa merenda! Guarda anche il lato positivo! Senza la presenza delle scolaresche e dei turisti che passano di qui, noi saremmo costretti a vivere nel buio per quasi tutto il tempo, incapaci di distinguere il dì dalla notte e forse anche incapaci di vedere! - gli rispose Gemella.
- Quelli sono lampi di luce premonitori, che ci avvertono della fine! - disse Esichio - Le acque presto saliranno corrompendosi di melme e di fanghi e poi saremo risucchiati in un gorgo che ci ucciderà - e la compagna prontamente: - Ma prima ci spunteranno le ali tra le pinne dorsali, le branchie si muteranno in sacchi d'aria e come pesci rondine voleremo via nel mondo là fuori! -.
- Cribbiolina, manco fossimo degli angeli! Certo che ne hai di fantasia! - rispose lui. - Sognare aguzza la mente! - disse lei - E poi senza la speranza di un futuro come si fa a vivere serenamente il presente? Guarda che quei lampi che vediamo potrebbero benissimo essere i nostri illustri antenati che, trasformati in luce, vengono a rassicurarci! -
- Oppure ci avvertono che ci resta poco tempo! Difatti io mi sento già peggio - replicò Esichio - anche le mie squame non sono più rosso mattone come una volta e macchie olivastre cominciano a spuntarmi un po' ovunque! -
- È solo un po' di stress dovuto all'abbassamento della temperatura, vedrai che passerà - cercò di rincuorarlo Gemella - sono fasi transitorie come la rubedo e l'albedo alchemiche e se, per mentale nigredo, non ti si annerirà il cuore diventando duro come ossidiana, sono convinta che tutto si sistemerà per il meglio e che, seppur in cattività, vivremo una lunga vita, più longevi dei nostri coetanei selvatici! -.
- Siamo creature fragili in un mondo mutevole e spietato - ribatté Esichio - Non siamo fatti per durare! Non lasceremo alcuna traccia di noi, mica siamo le balene o i delfinidi del Pliocene... Un dì o l'altro ci adageremo sul fondo e in men che non si dica, se qualcuno degli altri non si ciberà prima dei nostri resti, imputridiremo e svaniremo sfaldandoci nell'acqua. Solo se uno strato di ceneri, di argilla o di sabbia ci coprirà, forse rimarrà tra qualche millennio il nostro scheletrino tra le pagine di pietra d'un bel fossile. Amen.-
D'accordo - replicò Gemella con decisione - ma fino a quel momento saremo insieme, ci sosterremo a vicenda badando uno all'altra, testimoni d'un piccolo miracolo vivente e circondati da un grande mistero che non siamo in grado di decifrare. Il nostro amore ci accompagnerà fino alla fine, sigillando le nostre brevi vite: siano due, dieci o venti anni! Saremo uniti per le code per sempre come i Pesci dell'antica costellazione! -
- Speriamo che invecchiando questo legame non si trasformi in un rapporto malsano, in un corto circuito ossessivo che a poco a poco ci soffochi, togliendoci tutto l'ossigeno! - interruppe preoccupato Esichio. Ma Gemella continuò come se nulla fosse: - E poi qualcuno di quei bipedi lassù, vedrai imparerà la lezione. Imparerà la storia, il rispetto per la natura e per le altre creature. Proprio come San Francesco, il bipede da cui questo luogo prende nome.
- Non dobbiamo rassegnarci agli angusti spazi di questa vita, Esichio, dobbiamo credere al perpetuarsi della Storia, all'incredibile ricchezza delle possibilità. Sorridere di quello che abbiamo (ndr. ma i pesci rossi sorridono? Sì, le loro anime sorridono!) e cercare di fare del nostro meglio per vivere il tempo che ci rimane.
- I bipedi non si dimenticheranno di noi, anzi è probabile che resteremo anche dopo che loro si saranno estinti. Non possono fare a meno di noi, come degli alberi, delle api, delle zanzare e dei vermi di cui ci nutriamo e di tutte le creature di questo mondo, sia quello subacqueo che quello ultracqueo.
- Siamo il riflesso della loro anima. Noi non possiamo sopravvivere per molto al di fuori dell'acqua, ma anche la loro anima, che credono erroneamente immortale, non può sopravvivere al di fuori del loro corpo. In fondo, come noi, sono imprigionati da ciò che del mondo filtrano coi loro sensi limitati. Ma senza i pesci rossi la specie dei bipedi non sarebbe neanche esistita!
- E poi nascono da uova fecondate dallo sperma proprio come noi e durante il periodo fetale, come pesci, vivono in una cavità uterina piena di liquido! Noi siamo i primi pilastri della loro Sapienza, a patto che la coltivino e la mantengano, siamo scintille viventi nei loro tempi oscuri. Noi c'eravamo quando la verga di Mosè fece scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb. Siamo stati i progenitori dei loro progenitori, il loro cibo e il loro spirito. Abbiamo seguito i loro fasti e le loro cadute, così come seguiamo l'innalzamento e l'abbassamento delle acque. Siamo i loro pesci angeli custodi. -
Dopo tutto questo sproloquiare Esichio s'era tranquillizzato e aveva ritrovato un po' della sua ironia e del suo buonumore. Ora scherzava con gli altri pesci maschi e si vantava dell'intelligenza della sua amata consorte, come un paguro che fa bello sfoggio dell'anemone sulla sua conchiglia. Quello era il lato del suo carattere che era piaciuto fin da subito a Gemella. Lei sapeva che nonostante certi difetti, certe difficoltà, in caso di necessità l'avrebbe difesa e come un pesce siamese si sarebbe battuto per lei, fino alla morte. E tanto le bastava. Aleggiava sospesa nella corrente leggera come una medusa, come un pesce palla sospeso tra i coralli.

Hanno due caratteri diversi, Esichio e Gemella, ma si completano in una singolare dicotomia; pare di vederli, compunti, far uscire le loro testoline dall'acqua per ascoltare le parole dei santi: quelle di Francesco, il rivoluzionario che parlava a tutte le creature o quelle di Antonio,  orfano di uomini in ascolto, come possiamo ammirare nel celebre dipinto del Veronese.
Sentirsi la reincarnazione di Cupido e di Venere che si trasformarono in pesci per sfuggire al mostro Tifone. Sentirsi i teneri amanti nella bolla del Giardino delle delizie di Bosch. E continuare a raccontarsi vicende favoleggianti di vite precedenti, di vite fantastiche: di quando erano uccelli alla ricerca del Simurgh, farfalle dai mille colori, laboriose formiche, astuti ramarri a caccia negli intricati labirinti del sottobosco.
Cosa determinerà la fine della Storia? Un'implacabile, irrevocabile sequenza di eventi. Un catastrofico balletto. Una folle danza macabra. Si estingueranno prima gli uomini o i ciprinidi? Dare una risposta, impossibile: come risolvere il paradosso cretese del mentitore o quello ebraico della contrazione.

Biagio Nasti - La costellazione di nei

Quel che stringiamo nelle mani
è quel sentimento retrò,
passato ma vivo
di un giorno chiamato ieri.
Un termine obliquo,
ideato da sillabe delicate
che battono sulla lingua
un concetto detto per caso.
Siamo il risultato di verbi andati,
l’unione inconsapevole
di quell’armonia indicata
da una costellazione di nei.
L’insieme di punti fissi,
immobili come sassi
e decifrati singolarmente
come i grani di un rosario.
Ora si urla al presente la rabbia,
mentre indifesi e distratti
bisbigliavamo al futuro
la voglia di essere qualcuno.
Eppure non siamo eroi,
o forse lo siamo,
noi due che affrontiamo la vita
confrontandoci di schiena.

giovedì 27 giugno 2019

Domenico Priano - Sul sentiero

Il sentiero era un lungo filo d’erba
cresciuto a fior di labbra sul crinale
dove spiccava fitto il paradosso:
Neve d’agosto e rondini a Natale.
Noi ci andavamo
mano nella mano
un fiore in bocca e l’animo contento
e un brivido che dà la pelledoca,
a ogni strappo impercettibile
di vento.
Ora quel sentiero è abbandonato
povero e acerbo e vuoto
oltremisura.
E al posto dei tuoi passi e le tue impronte,
la trasparenza folle.
E la paura.

Alberto Salvalaio - Petardo

Sapore di birra a buon mercato
di capodanni del passato
di aspettative mancate
che rinascevano uguali il giorno dopo.

Strofino forte la faccia
per farne uscire una nuova
Alleno i muscoli in un sorriso
Concimo un sapere trascurato
Fai la vita da sposa
col lavoro assicurato.

Ho letto circa venti libri
da quando ho smesso di parlarti
Tutto quel rumore improvviso
sparisce veloce
come un petardo.

Alberto Salvalaio - Andiamo altrove

Santa fame che mi liberi dall’esilio.
E il peccato delle domeniche col sole.
Non ho radici, come le tue.
Tu che cerchi vita nuova alla fine di ogni estate.

Ti ho regalato un rospo sorridendo,
hai risposto con disgusto.
Ero sincero. Fino a qualche minuto fa.

Tengo le scarpe, che magari esco.
Dormo e fumo come un pazzo.
Quel che avanza è una mappa spiegazzata.
E un po' di tosse la mattina.

Il solaio è pieno di desideri.
La cantina allagata da lacrime vecchie.
Andiamo altrove.

venerdì 14 giugno 2019

Marco Maresca - Una storia vera di nichilismo e odonomastica

Laggiù in fondo una volta era tutta campagna, ed ora c’è un condominio con le puttane cinesi.
A grandi linee il succo è questo, però mi piacerebbe spiegarvi meglio il contesto.
A metà degli anni ottanta i miei genitori lavoravano entrambi tutto il giorno, e ad andare all’asilo piangevo. Così passavo tanto tempo dai miei nonni. Nelle mie perlustrazioni pomeridiane mi spingevo fino ad un piccolo campo da calcio situato poco dopo la loro casa. Non si poteva andare oltre, perché a parte un paio di villette non c’era niente.
Negli anni novanta il campetto sparì. Al suo posto sorse un condominio in cui i miei nonni andarono ad abitare. E da lì a pochi anni ci fu un’ulteriore novità: continuando a camminare si poteva andare ancora più avanti! Infatti nel frattempo era stato emanato il nuovo il piano regolatore, che dava il permesso di costruire in quella zona, poiché al Comune erano pervenuti degli studi abbastanza credibili secondo i quali c’era la possibilità che a breve la popolazione cittadina aumentasse del quaranta percento, cosa che effettivamente accadde.
A dire il vero, i rapporti di causa ed effetto di quanto ho appena enunciato potrebbero essere invertiti. Fatto sta che i costruttori di case in quel periodo si arricchirono, e non poco.
L’odonomastica è il dare nomi alle vie, e in quel periodo c’era bisogno di nomi, e tanti. I morti celebri erano divisivi, perché ognuno tendeva a darne una lettura politica. Così furono i bambini delle elementari a scegliere i nomi delle nuove strade, ma io ero già grande all’epoca, quindi non ho potuto compiere questo esercizio di democrazia partecipativa.
In buona sostanza, ad una nuova strada fu dato il nome di una valuta monetaria che avrebbe dovuto unificarci tutti quanti come fosse una bandiera. La storia recente mostra che non è andata proprio così, ma non mi son mai piaciuti i riferimenti all’attualità: le storie devono avere valenza universale. Quindi la chiudo qui, ma ne approfitto per rilevare una certa ironia in una via col nome di moneta in cui è sorto un condominio con le puttane.
Una volta i condomini erano un mondo in miniatura, una comunità in cui tutti si conoscevano e si aiutavano tra di loro. Tanti esseri umani, così vicini l’uno all’altro. Come potevano non organizzarsi per ricavare il meglio da una simile modalità di vita? Eppure, nei palazzi nuovi non accade questo. Molti usano l’appartamento solo per dormirci la notte, altri invece nel cuore della notte si svegliano per andare a lavorare. I più giovani nemmeno si accorgono di tutto ciò, in quanto immersi nel sentimento del proprio tempo, che non prevede più l’uscita da casa. Ormai non capita sovente di incontrare il proprio vicino di casa e di salutarlo lungo le scale.
Tagliando corto: c’era un appartamento pieno di donne cinesi dedite alla vendita di servizi nell’ambito del benessere, ma nessuno lo sapeva. Evidentemente si erano insediate contestualmente alla costruzione del palazzo e non erano mai uscite di lì, ed esercitavano la propria professione con estrema discrezione, oppure avevano dei vicini sordi. Solo i veterani del sesso a pagamento sapevano di questo appartamento pieno di prostitute, in quanto l’informazione era veicolata tramite canali non ufficiali. In breve tempo, quindi, si era formato un viavai di maschietti (prevalentemente pensionati) che suonavano il citofono, salivano le scale in silenzio, facevano quello che dovevano fare e se ne andavano com’erano venuti.
Ad un vecchietto, che chiameremo Gianni, era giunta la notizia delle puttane cinesi, ma l’informatore non gli aveva detto a quale campanello suonare. Giunto alla pulsantiera, Gianni non si era fatto ottenebrare dalla libido, ma aveva fatto un ragionamento logico: c’era un solo nome non italiano, e doveva essere per forza quello giusto. Infatti, dopo qualche secondo di attesa, il portone si aprì. Gianni entrò nel pianerottolo e con movimenti circospetti cercò di leggere i nomi sui campanelli posti di fianco alle porte d’accesso ai singoli appartamenti. Dovette accendere la luce ed inforcare gli occhiali, perché l’età non giocava a suo favore, ma più o meno stava proseguendo nella sua ricerca della giusta porta a cui bussare. Di base c’era un buon ragionamento: prendere  l’ascensore, selezionare un piano, scrutare il pianerottolo alla ricerca del nome straniero. Ripetendo queste azioni un paio di volte, finalmente Gianni trovò quello che aveva identificato come appartamento delle puttane cinesi. Era particolarmente compiaciuto del fatto che tutto fosse andato liscio e questa sensazione, frammista all’eccitazione per un atto proibito, gli fece recuperare un vigore che sembrava perduto da tempo. Così, mentre suonava il campanello col nome straniero, sentì che non aveva molto tempo: doveva iniziare a sbottonarsi i calzoni.
L’esotico proprietario di casa lo chiameremo Mark, poiché è semplicemente il mio nome tradotto in albanese, così non scontenterò nessuno. Dunque: una trentina di secondi dopo aver udito il suono del campanello, Mark aprì la porta e sgranò gli occhi. Era convinto di trovare davanti a sé suo cugino, venuto per aiutarlo con un trasporto di mobili, invece davanti a lui c’era un attempato signore con un paio di capelli attaccati alla testa, un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, e soprattutto un paio di calzoni sbottonati dai quali sembrava sporgere qualcosa.
“Buonasera, sono venuto per… Ehm… Le signorine”, esordì educatamente Gianni.
Mark aveva una bottiglia di birra in mano, e poiché nell’altra stanza c’erano la moglie e la figlia, tale contenitore non gli sembrava un’arma abbastanza potente per difendere ciò a cui teneva di più al mondo. Ma, per evitare spiacevoli complicazioni, per adesso bisognava rimanere calmi e limitarsi ad usare le parole.
“Che cazzo vuoi”, pronunciò quindi Mark a denti stretti. Senza punto interrogativo, perché era un’affermazione.
“Eh, le signorine! Mi hanno detto che si trovano qui. Posso entrare?”, chiese Gianni, che pensava che l’atteggiamento scontroso di Mark fosse parte del gioco. Secondo lui era tutto normale, erano scene che aveva già visto nei film. Non era particolarmente preoccupato: al massimo l’albanese gli avrebbe chiesto una parola d’ordine, o qualcosa del genere.
“Allora. Prima di tutto: il cazzo lo metti nei pantaloni”, gli intimò Mark.
Gianni obbedì. Era ancora convinto di stare recitando abilmente la propria parte.
I calzoni ora erano abbottonati ma la rigidità perdurava, quindi i due si trovavano in una condizione di stallo: Mark impugnava saldamente una bottiglia che era pronto a scagliare contro le pudenda del vecchio, e quest’ultimo, senza troppo rendersene conto, aveva ancora il pennacchio puntato verso Mark, benché trattenuto dal cavallo dei pantaloni. Era una situazione senza uscita, a meno che uno dei due facesse qualcosa. I film americani insegnano che in questi casi ha la meglio chi fa una mossa inaspettata. Fu così che Mark, sempre guardando Gianni fisso negli occhi e mantenendo protesa la bottiglia avanti a sé, iniziò a indietreggiare fino a chiudere la porta.
Gianni credette di aver ricevuto in questo modo la conferma di essere nel giusto: di lì a poco la porta si sarebbe aperta e l’albanese l’avrebbe lasciato entrare. Una volta varcato l’uscio, ci sarebbero state le tanto rinomate puttane cinesi ad aspettarlo, e con loro niente sarebbe potuto andare storto.
Infatti la porta si aprì. Ne uscì Mark, stavolta brandendo un’arma più appropriata: un coltello a serramanico. “Vai via, stronzo! Ti ammazzo!”, gli urlava, mentre il vecchio chiamava a sé tutte le energie salvaguardate nei suoi primi ottant’anni, e nel saltare giù dalle scale non sentiva nemmeno più l’artrite. Il cazzo, nel frattempo, gli si sgonfiava, perché il sangue in quel momento era maggiormente necessario altrove. Il sistema cardiocircolatorio doveva irrorare come si deve la muscolatura delle gambe, perché Gianni aveva assoluta necessità di percorrere in tempi rapidi quella quarantina di metri che lo separavano dalla sua automobile. E doveva sperare di trovare immediatamente le chiavi nelle tasche. E che la sua Nissan Micra venticinquenne partisse al primo colpo. E di non incorrere in uno sbalzo di pressione o in qualche altro scherzo della vecchiaia nel frattempo. Insomma, c’erano tante variabili da considerare, e Mark sopraggiungeva urlante, col suo coltello ben stretto in pugno. Se solo il povero Gianni non avesse dato retta alle recensioni entusiastiche da turisti sessuali dei suoi compagni di bocciofila!
La Nissan Micra infine partì. Non al primo colpo, ma partì. Ma Mark, in realtà, aveva dato a Gianni tutto il tempo necessario a raggiungere la macchina in tranquillità. Non voleva veramente accoltellare il vecchio. Era soltanto molto spaventato. Pianse, infatti, per la prima volta nella sua vita. E nel cortiletto del palazzo lo raggiunsero presto la moglie, la figlia, e pure il cugino, giunto nel frattempo. Mark strinse al petto la figlioletta, poi le prese la testolina tra le mani e guardando la bimba negli occhi si ricordò i motivi per cui ogni mattina si alzava dal letto e andava a lavorare. Sua figlia era la sua vita, ed era fiero di averla difesa da un vecchio depravato. Poi si rivolse al cugino e gli spiegò che quella sera non si sarebbero occupati di alcun trasporto di mobili, perché c’era da chiamare le forze dell’ordine e denunciare quanto successo.
Nel giro di cinque minuti arrivò una coppia di carabinieri, che parlavano in napoletano come i loro analoghi dei Simpson, però erano abbastanza svegli. Diedero una rapida lettura ai nomi sulla pulsantiera del citofono. Esclusero i nomi di alcune persone notoriamente perbene, e suonarono ad uno ad uno tutti gli altri campanelli, tranne quello di Mark, per ovvi motivi. Annotarono i nomi di chi aveva risposto. Entrarono nel palazzo ed ottennero facilmente accesso ad ognuno dei cinque appartamenti su cui ricadevano sospetti. Quattro non erano interessanti, in uno invece trovarono un’elegante signora italiana che sorseggiava amabilmente un tè in salotto insieme a due sorridenti donne orientali pesantemente truccate. L’appartamento presentava pareti di colori discutibili e complementi d’arredo stravaganti. Era chiaramente una casa di appuntamenti, ma i due carabinieri cosa potevano farci? La faccenda si esauriva chiedendo alle tre donne di mostrare la regolarità dei propri documenti. Da lì in poi c’era un problema di competenze. Se l’attività fosse lecita o meno, non stava all’Arma dei Carabinieri stabilirlo, ma eventualmente alla Guardia di Finanza. Determinare se l’appartamento fosse occupato legittimamente era invece una cosa da Polizia Locale. L’unico reato sul quale avrebbero potuto forse indagare era lo sfruttamento della prostituzione, ma non era elegante dare della maîtresse ad una distinta signora di mezza età, e in più le due cinesi non sembravano sfruttate. Quindi i carabinieri accettarono una tazza di tè e se ne andarono ripromettendosi di tornare ad investigare ulteriormente in tempi futuri, cosa che non avvenne in quanto la cittadina era in espansione e c’erano sempre più manigoldi da arrestare.
E questa, in sostanza, è la storia del condominio con le puttane cinesi. Però vorrei ricavarne una morale, anche se so che non va più di moda.
A teatro, è regola che tutti gli oggetti in scena vadano in qualche modo utilizzati durante lo spettacolo. E così, se dai ad una via il nome di una moneta, è lecito aspettarti che in quella stessa via sorga un condominio con le prostitute.
I nomi dei morti creano divisioni, è vero, perché si tende ad associarli alla politica. Però io avrei delle idee. Ci sono i letterati e gli scienziati. O, se vogliamo aderire alla cultura popolare, nel novecento ci son stati tanti cantanti celebri. Per me va bene chiunque, da John Lennon a Janis Joplin. Siamo in Italia, vanno bene anche Luigi Tenco o Mia Martini. Chissà mai che in una via intitolata ad un personaggio di questi un giorno si generi qualcosa di bello in un mondo così vicino al nulla.

mercoledì 12 giugno 2019

Andrea Clementini - Abbandonata

Abbandonata
sul suo petto nudo
ne odo il respiro
M’illudo
nell’eco del suo cuore
ragione d’ogni mio battito
Inspiro il suo profumo
cornice perfetta d’un sogno
durato un attimo
poi volato, via
con i suoi desideri
lontano da ogni mio dolore

giovedì 6 giugno 2019

Pamela Baldi - Vicine come ieri e l'altro ieri

Mi tocco in doccia.
Ho uno specchio in doccia, ma non mi guardo. Fatico ancora. Mi concentro, escludo pensieri, mi inarco, ottimizzo i tempi, e vengo. Poi l'acqua lava via tutto. Anche il pianto. Non piango da sempre, quando mi tocco. Solo da poco. Da quando ho pietà per il mio corpo. Ho le tette. E' da un anno che le ho. E una figa. Piango perchè le ho sempre avute, ma non le vedevo. Mi giravo dall'altra. Amputate, censurate, ignorate, mortificate.
"State scherzando?! Shhhhh! Zitte voi. Femmine siete. Dovete stare zitte!"
Mia mamma era l'ultima di nove figli. Tre maschi e cinque femmine. Più lei. Volevano buttarla. Quando si è poveri, le regole sono due o tre, non di più. Non c'è molto da vivere, c'è da sopravvivere. E se nasci femmina, mangi e non lavori. I fratelli avevano deciso che era inutile. Sono figlia di una madre inutile, inutile come una vagina.
Mia nonna non so se poteva parlare, quando partorì mia madre. Si chiamava Elvira. Da piccola mi mettevano in stanza con lei, una stanza buia, odore di coperte. Mi mettevano su una seggiola, piccola come la nonna. Così piccola che per starci, dovevo incassare le gambe e la schiena. La nonna non poteva parlare. Aveva una maschera dell'ossigeno e le parole, le diceva quel coso, quel macchinario. Come una preghiera, come un prete che avesse deciso che era ora di andare, quel che era fatto era fatto. Che fortuna quel coso, doveva essere maschio. Mi mettevano lì. "Stai con la nonna". Forse dovevo richiudermi anch'io, su quella seggiola. Dovevo imparare a stare zitta, imparare che non avevo niente da dire.
Mia mamma occupa ancora meno spazio della nonna. Nel letto dorme su un fianco: metà della metà di un letto matrimoniale. Anche mia madre non parla. Emette suoni come quel coso, quella macchina dell’ossigeno. E' un continuo rimprovero, un rumore costante su cosa è giusto e cosa no. Non c'era spazio per lei, per la sua innocenza morbida e femmina. Ha imparato a parlare come un uomo, come i suoi fratelli. Pur di uscire da quella stanza buia di silenzi e coperte umide, niente più tette, niente più figa. Amputate, censurate, mortificate. E così ha imparato a parlare, come un giudice, come i fratelli, a dire cosa è utile e cosa no. Dichiarò la mia inutilità quand'ero piccola. Ero la sua farfalla. Finchè un giorno scoprì che mi piacevano le femmine. Dinuovo, una figlia sbagliata, una figlia inutile. Da buttare via.
L'amore materno che viene a mancare è una colpa, una condanna. Non è solo un'arteria recisa, ma un fiotto di vita che si spreca a terra. Cosa ne potevo, io, bambina? E' un'amputazione con un bisturi infetto, un braccio fantasma, una gamba in meno. E il braccio ti prude, anche se non c'è più. Ti prude, dà fastidio, in automatico fai per grattarti e non lo trovi. "Ah, già. non c'è più". Solo che il bisturi era infetto e quella roba che manca s'allarga, un continuo prudere di parti mancanti, di vuoti urticanti. Una vita di colpe da rimediare. Era giusto così. Mi nascosi, nascosi a me stessa la mia sessualità. Mi rinnegai. Mai. Per quanto amassi una donna, mai nessuna potè toccarmi, accarezzarmi, niente più tette, niente più figa. L’amore è crudele: se non fossi figlia, sarei stata felice.
Poi un giorno fu quello per dire tutte le cose. Per dire quello che non dissero mai mia madre e mia nonna. L'attimo prima fu la morte, un terrore marcio che consuma le ossa, la spina dorsale s’incendia come quando dai fuoco a un nido di vespe. Tremo. Prego mia madre di sedersi ad ascoltare. Il mio corpo esplode, improvvisamente ho le tette, ho la figa. E glie lo dico. Le dico che so ballare. So cantare. So ridere e scherzare. So baciare e ubriacare. So amare. Mi esce tutto in una sola frase: "Cara mamma, sono lesbica".

Kosmè De Maria - Family blues

Quell'orribile, gigantesca onda plumbea l'avevo già vista troppe volte apparire all'orizzonte della mia vita e avanzare, quasi volesse travolgere soltanto me di tutti quelli che popolano l'intero pianeta, incombendomi addosso con quella sua cresta minacciosa, orlata di spuma biancastra come scarico di detersivo.
Si sollevava con un rombo assordante dal fondo dei miei pensieri, così, all'improvviso, minacciosa e violenta come una mano pronta a ghermirmi, a trascinarmi lontano.
Anche ora me la sentivo montare dietro le spalle, mentre guidavo nella pianura scura, flaccida d'acqua, verso il mare, ma questa volta non mi avrebbe fatto più paura.
La stavo lasciando indietro e, quanto più velocemente mi allontanavo da quella che era stata per quasi quarant'anni la mia casa, tanto più il cavallone maligno si assottigliava, fino a sfrangiarsi, a sfilacciarsi, confondendosi con lo sfondo livido dei cirri ammassati alle montagne.
Ero libero? Stavo finalmente riuscendo a fuggire?
Ancora non lo sapevo del tutto, troppi pensieri, troppi ricordi allucinati mi ingombravano la mente, tanto che mi pareva di non avere vissuto in prima persona tutto quello che era stato.
E pensare che avevo attraversato un periodo così gramo che, per il panico, non ce la facevo neppure più a uscire dalla mia stanza.
Un serpente che si morde la coda.
Quando si guida è il momento ideale per riflettere, succede a tutti: si inserisce il pilota automatico e la testa sembra rotoli via nel tempo e nello spazio al ritmo veloce delle ruote, con tutti i pensieri dentro. Rimane sempre un controllo remoto, come se ci fosse un altro al posto nostro.
Alle volte, però, sarebbe davvero meglio non esserci.
- ... Dato che la pensi così, te la puoi cavare da solo, ma ricorda che tuo fratello ha ancora bisogno di me, io mi sono spaccato la schiena per voi, ho tirato su una famiglia, che chissà che fine facevate tu e quella lì se non mi incontravate, e ora mi volete cacciare fuori da casa mia!
 - Papà, sai bene di mentire anche a te stesso, siamo arrivati a un punto di non ritorno - e la voce mi tremava per la rabbia repressa. Mia madre sedeva singhiozzando in un angolo della cucina.
- Tu prendi sempre le sue parti, ti lasci abbindolare come un fesso dalle sue solite moine...
- Oggi le hai messo nuovamente le mani addosso, papà, e se non ti prendo a cazzotti, è perché
sono sempre stato un figlio fin troppo rispettoso...

- Tu per me non sei mai stato davvero un figlio... - queste le sue ultime parole, bisbigliate con disprezzo, mentre usciva sbattendo la porta.
Meglio perderlo che trovarlo uno così, coi suoi modi rozzi, brutali, che, da piccolo, mi facevano pisciare addosso dal terrore, e ora continuavano a mettermi a disagio.
Mio padre Vincenzo..., o non era davvero mio padre? Poiché non poteva essere andata così, non aveva alcun senso.
Ma noi due non ci somigliavamo per nulla... Oppure sì, forse per qualcosa, ma mi durava fatica riuscire a ricordare cosa fosse, ora che la musica dell'autoradio mi invadeva, come un dolcissimo nettare tutto da bere con le orecchie.
Ah, la musica, se non ci fosse stata lei, forse mi sarei già fatto fuori in uno di quei momenti in cui niente girava bene: l'amore a rotoli, il lavoro che non c'era ancora, mia madre uscita di testa, mio fratello che stava rischiando troppo con la sua vita sregolata, uguale spiccicata a quella del padre...
Vincenzo e suo figlio, loro sì che si somigliavano davvero, e in tutto.
- Perché te ne vai? Perché mi lasci solo proprio ora che ho più bisogno di te? - mi aveva gridato dietro Fabio, strattonandomi per la manica del giubbotto, quasi a impedirmi di raggiungere la porta, ma io avevo tirato dritto, girandomi soltanto per sussurrargli, senza neppure un filo di astio nella voce: - Lasciami partire, fratellino, non è questo il momento di fare le tue solite menate, per te ci sono sempre stato, prometto che tornerò, ma questa volta si tratta della mia vita...
Due pianeti diversi, noi due, nati dal grembo della stessa madre, una ragazza con tanti problemi, una donna con troppi rimpianti, ma non ancora del tutto sopraffatta dal destino.
Le mancava solo un poco a soccombere, chissà se fosse la stessa onda assassina da disaster movie di serie B a minacciare anche la sua di vita - mi sorpresi a pensare - però qualcosa in lei resisteva, un fragile steccato di amor proprio eretto contro la furia devastante d'un uragano.
Con lei si stava bene, non c'erano tensioni, non c'era dolore. C'era la consapevolezza di abbandonarsi a un amore dolente, esausto, rassegnato, ma assoluto.
Quello che ci si aspetta da una madre, aldilà di tutto il resto.
L'ho amata tantissimo, tanto che, a volte, mi capitava di compatirla, di provare dolore con lei, quasi che la mia di sofferenza non fosse già abbastanza dura da sopportare.
Era come se noi due, l'uno di fronte l'altra, ci guardassimo allo specchio e, senza più alcun pudore,
disvelassimo reciprocamente le disillusioni e le cicatrici dei traumi subiti dalle nostre anime, nel continuo, disperato tentativo di soppesare quanta forza rimanesse ancora per resistere.
C'erano stati tempi felici per la nostra famiglia?
Non riuscivo a ricordarmeli, neppure sforzandomi di trovare belle situazioni appena accettabili.
Non volevo più neppure ricordare quante volte potesse essere successo qualcosa di sgradevole, forse ogni giorno della mia maledetta esistenza.
Un supplizio infinito.
Ecco perché questa volta avevo detto a Fabio di non rompermi le scatole, di farla finita almeno per un po' di tempo, avevo bisogno di vivere, di respirare con la testa fuori dalla melma.
Troppi erano stati momenti in cui la normale complicità fraterna aveva assunto il colore di una stralunata paternità, da fratello maggiore ero stato tante, troppe volte il padre di Fabio, senza averne ancora né la cognizione, né la necessaria maturità.
Io ero stato comunque sempre meglio del padre vero.
Più amorevole e più presente.
Ma ora ne avevo proprio le palle piene.
Acqua passata, i ricordi brutti però sono quelli che ti rimangono più impressi nella mente, anche se tenti di cacciarli via con tutte le tue forze, delle cose belle ci si scorda troppo presto, purtroppo.
Il sorpasso fra due camion, addobbati di luci come onirici alberi di Natale lanciati in corsa, mi riportò per un momento al presente, misi la freccia, sterzai senza fretta verso la terza corsia, assicurandomi che non ci fosse nessuno a percorrerla.
Viaggiare veloci nella notte padana, così dritta e interminabile, carica di promesse di qualcosa che abbiamo la certezza di trovare oltre, soli con i nostri pensieri che, finalmente, si mettono ordinatamente in fila come su di un tapis roulant, e non ti si aggrovigliano addosso...
Lasciarsi alle spalle paesi coi loro campanili dritti come fusi impigliati nell'oscura caligine estiva, svettanti sulla piatta distesa di campi e cascine, boschi e acque, binari e capannoni.
Fino a questa sera non mi era mai capitato di abbandonare la via vecchia per la nuova, avevo sempre avuto troppa paura di riuscire ad affrancarmi da quel malessere che rimaneva comunque la mia ragione di vita.
Non c'era mai stata una contropartita sufficiente a spronarmi, a darmi il la, come mi succedeva, invece, quando imbracciavo la chitarra per provare un nuovo pezzo e lì saltava fuori tutta la mia vera passione e la mia anima di poeta si ritagliava un attimo di tregua, esprimendosi in libertà.
Ero divenuto molto prudente, questa cosa almeno io l'avevo imparata dalla mia esperienza sgangherata: non c'è mai fretta di cacciarsi nei guai.
Mio fratello invece no.
Sembrava che i casini se li andasse a cercare, che vivesse lo stesso delirio di onnipotenza di chi lo aveva messo al mondo.
Non si era fatto mancare niente, neppure i pasticci più bastardi, quelli in cui è meglio, davvero meglio non cacciarsi.
Malgrado io gli avessi sempre ripetuto che le cose sarebbero potute finire male, che gli altri non sono tutti degli stupidi e che lui non fosse l'unico a farla sempre franca sulla faccia della Terra.
C'è sempre una legge cui adeguarsi, pena la riprovazione sociale. C'è sempre qualcuno più dritto di noi che si mette di traverso sulla nostra strada e ce la farà pagare cara se gli pestiamo i piedi.
Fiato sprecato.
Però, a un certo punto, ti accorgi che non puoi vivere sempre in funzione degli altri, che non puoi eternamente portarti appresso il fardello dei tuoi cari, anche se tu vuoi loro bene, anche se sei il più forte, o fingi di esserlo per la disperazione.
Il lavoro?
Beh, quello era arrivato, ma avevo dovuto sgobbare per insegnare ad altri cosa fosse meglio non fare...
E poi un bel casino anche nell'amore, tante storie spesso finite appena sul nascere e l'ultima, quella durata un po' di più, che mi aveva straziato il cuore.
M'ero infilato da solo, per spudorato romanticismo, per quel senso disperato di giustizia che ho dentro, per mia ingenuità, in un romanzaccio fatto di intrallazzi, menzogne e tradimenti.
Gemma mi aveva usato per far ingelosire il proprio compagno e poi tornare da lui, magari dopo il rituale pestaggio dell'intruso, a dimostrazione d'essere la femmina destinata in premio al più forte.
Che non sarei di certo stato io.
Certe volte le donne esagerano proprio.
Ero stato un vero cretino a non accorgermi subito di quella bizzarra e crudele messinscena, ma avevo tanta fame d'amore dentro che anche un surrogato di bene era sempre meglio di niente.
Mi toccava sempre di vivere quelle situazioni in mezzo a un guado, in cui non riuscivo mai ad arrivare dall'altra parte, sulla sponda della felicità, della realizzazione di me, della serenità, sempre lì, quasi a portata di mano, ma in realtà irraggiungibile.
Perché?
Già, perché?
- Un tipo giusto, uno sempre aperto e disponibile, uno che non ti lascia se sei nei casini, che ti ascolta e ti riaccompagna a casa la notte, che non ti chiede di fare l'amore al primo appuntamento, che ti rispetta... - i giudizi delle ragazze su di me si sprecavano, ma più d'una volta m'ero ritrovato a cantarmele da solo le mie canzoni.
Da solo per le strade deserte della mia città di provincia, intrisa di nebbia o d’afa, a seconda delle stagioni e di nient’altro…
Di una sola cosa le ero grato: vi avevo conosciuto Barbara.
Un esame d'Università sostenuto insieme quindici anni prima, e poi, per lei, nuovamente una partenza improvvisa, dietro a una famiglia che si spostava su e giù per l'Italia con l'impazzimento di un go kart.
Il mio primo amore. Quella che mi tornava in mente quando scrivevo i testi delle canzoni. Quella cui non avevo mai davvero smesso di pensare.
Non ci eravamo più rivisti, forse perché non eravamo ancora pronti a farlo, troppo presi dalle nostre personali storie per dividerle con un altro...
Così ciascuno di noi due aveva vissuto un pezzo di vita in solitaria.
A lei non era andata male, di me sapete già tutto.
Poi un sms dallo spazio intergalattico, roba da non crederci, una telefonata inaspettata, e un cercarla affannato su FB, tanto per sapere dove fosse finita.
Era andata a stare proprio là dove finiva l'autostrada, dove la terra si lascia bagnare dal mare e gli inverni sono miti e non intrisi di nebbia, dove si canta e si suona sia nella bella, che nella brutta stagione.
E ora mi aspettava, forse per chiedermi di persona, guardandomi negli occhi e non soltanto con un messaggio via web, se tra noi sarebbe stato finalmente possibile ricominciare.
Ancora un ultimo, piccolo sforzo, una manciata di chilometri nella notte che già schiudeva dolcemente gli occhi al sorgere del giorno e poi saremmo volati l'una nelle braccia dell'altro.
Come ai vecchi tempi, quasi che tutti quegli anni trascorsi lontano non fossero stati altro che un breve, ma necessario intervallo, tanto per riprendere fiato tra un bacio e l'altro, in quel nostro disordinato amore, non di certo concluso, ma più vivo che mai.

Bruno Bianco - Vicino

Avevamo solo quel cavallo; era l’ unica ricchezza rimasta. Mio padre l’ aveva chiamato Ferruccio, in onore di un vecchio commilitone del nonno che aveva una macchia bianca sui capelli come il cavallo l’aveva sulla fronte; era stato un buon animale, ma adesso era vecchio e stanco e non valeva più di un bottiglione di vino e nemmeno di quelli buoni.
Poi era iniziato tutto una domenica mattina sul sagrato dopo la messa.
-Avete sentito che c’è il ragioniere che cerca un cavallo?-
-Il ragioniere vuole un cavallo buono.-
-Il ragioniere problemi di soldi non ne ha.-
-Giovanni, perché non gli vendi il tuo?-
-Ha ragione. Cosa vuoi che ne capisca di cavalli il ragioniere.-
-Non distingue un cavallo buono da uno malato.-
-Il ragioniere non distingue una vacca da un tacchino.-
Il ragionier Mario Condove per tutti in paese era il ragioniere e basta. Abitava a Torino, ma da qualche anno aveva comprato una cascina in paese che dava a mezzadria; ultimamente aveva preso a venire più spesso in paese con la sua Balilla sempre tirata a lucido che potevi farti la barba davanti alle sue cromature. Tutti sapevano che di soldi ne aveva quanti ne voleva; il ragioniere era uno di quelli che contavano, uno che quando arrivava in paese il podestà andava subito a riverirlo con il cappello in mano.
-Possiamo fare qualcosa per voi, ragioniere?, Vi serve aiuto, ragioniere? Qualunque cosa aveste bisogno ragioniere...-
Di nascosto in paese lo prendevano in giro il podestà, ma anche se lo detestavano per com’era maleducato e pieno di sé, tutti quando lo incontravano si facevano da parte come se passasse il duce.
L’ affare del cavallo era partito un po’ per scherzo da qualcuno della compagnia del bar.
-Tu Giovanni il tuo cavallo lo devi vendere al ragioniere. Lo lustri bene, per una settimana lo fai mangiare con della roba buona, non lo fai lavorare e alla fine chiedi al ragioniere cinque volte quello che vale.-
-Il ragioniere di cavalli non capisce niente, ma non è uno stupido.-
-Però se qualcuno dice al ragioniere che quel cavallo è forte e sano...-
-E se qualcun altro mette in giro la voce che in paese quel cavallo lo vogliono tutti...-
-E se altri convincono il ragioniere che quel cavallo è l’ affare del secolo...-
Così tutto iniziò la prima domenica mattina che il ragioniere si fece vedere a messa con la moglie e le due figlie. Tutte le domeniche il ragioniere fermava sul sagrato Mario il macellaio per il solito pezzo di bollito.
-Certo ragioniere, vi porto il bollito subito a casa vostra; se però avete pazienza un minuto che stanno parlando del cavallo di Giovanni e voglio sentire cosa dicono perché interessa anche a me.-
-Perché c’è un cavallo buono da comprare?-
-Un cavallo buono? Il cavallo di Giovanni è il cavallo più sano, più forte, più bello e più intelligente che si sia mai visto in tutta la provincia.-
Il ragioniere si era avvicinato agli uomini fermi sotto l’ ombra del castagno che parlavano così forte che li sentivano per tutta la collina.
-Giovanni, dillo a tutti; da quant’è che ti dico che quando vendi il tuo cavallo hai solo da dirmelo. E adesso non puoi mangiarti la promessa.-
-Ma quale promessa, io non ti ho mai promesso un bel niente. Se ti interessa il mio cavallo mi dici quanto mi dai e se non c’ è nessuno che offre di più te lo prendi; altrimenti mi aggiusto diversamente.-
-Bravo Giovanni, non si spreca un cavallo così; ci penso io a farti vender bene quella bestia.-
-Ma se non hai un soldo da comprarti un quartino di vino, cosa vuoi prendere il cavallo di Giovanni!-.
-Ma non è per me; faccio da mediatore e te lo trovo io uno di quelli con il portafoglio sempre pieno.-
-Senti Giovanni, se vuoi un mediatore sai bene che sulla piazza non c’ nessuno che la sa lunga come me.-
Il ragioniere si era allontanato subito per non farsi vedere interessato all’ argomento, ma mentre rientrava a braccetto con la moglie non riusciva a non pensare al cavallo di mio padre. Lui cercava un cavallo perché voleva prendersi un calesse, di quelli eleganti, da girare per il paese; certo la macchina è un'altra cosa, ma ormai in paese non si stupivano più di vederlo al volante della sua Balilla. Adesso voleva qualcosa di nuovo in modo che i paesani avessero sempre presente la differenza tra uno come lui e quelli come loro. In più questa storia dell’ affare del secolo lo stimolava; i soldi li aveva sempre fatti con quegli affari che solo il suo fiuto riusciva a trovare e il suo fiuto gli diceva che quello era un affare per lui.
Il pomeriggio stesso era andato chiedere informazioni a don Giusto; il ragioniere sapeva bene che in un paese il parroco è sempre la persona più indicata per farsi un’ idea su persone, fatti e animali.
-Vedete ragioniere, Giovanni è un brav’ uomo, un lavoratore infaticabile e un buon cristiano; il suo problema è che le bocche da sfamare sono tante. Però gli è toccata la fortuna di quel cavallo. Lo ha servito per tutti questi anni nei lavori più pesanti e adesso che Giovanni non a nemmeno più i soldi da comprarsi da seminare è obbligato a venderlo; chi lo compra si porta a casa una bestia che va bene sia a lavorare sia a portare in giro un calesse. Qel cavallo va bene sia per un mezzadro, sia per un signore.-
Il lunedì il ragioniere era andato in farmacia con la scusa di una pomata per la moglie e con il farmacista aveva portato il discorso sul cavallo di Giovanni; va bene il parroco ma voleva sentire come la pensava uno di quelli come lui, perché era sempre convinto che le persone ricche e istruite devono parlarsi tra loro quando hanno a che fare con contadini.
-Se non fosse che ho comprato un cavallo nuovo solo tre mesi fa’, a quest’ ora l’ avrei già preso io quello di Giovanni. Sapete cosa mi piace di quella bestia: la sua disciplina. Va dove gli dici di andare e fa quello che gli dici di fare; mai un nitrito fuori posto, mai un movimento sbagliato. Lo vedi passare che porta il carro così pieno di grano che di cavalli ce ne vorrebbero tre; invece quell’ animale va avanti senza sforzo e tira un carro di grano con la stessa eleganza che dovrebbe avere per la carrozza del re.-
Il martedì il ragioniere era andato al mercato molto presto, all’ ora dei contadini, per sentire la voce del popolo. Andava da quello delle botti dove c’ erano i contadini più ricchi che avevano le vigne e li sentiva parlare del cavallo di mio padre; passava da quello che molava i coltelli e anche lì il nostro cavallo era protagonista. Persino le donne che facevano la fila dall’ acciugaio si scambiavano i pareri su Ferruccio e su chi avrebbe avuto la gran fortuna di prenderselo. Alla fine il ragioniere era entrato nel bar e quelli al bancone, ai tavoli e sui gradini della porta, tutti parlavano di quanto valeva quel cavallo, di quello che avrebbero dato per averlo e soprattutto di che avrebbe fatto l’ affare del secolo.
Sotto il sole delle due del pomeriggio, il ragioniere era andato di fretta da Elmo il mediatore.
-Ma ragioniere, non potete chiedermi questo. Io ho la fila di clienti che vogliono quel cavallo; ho già in mano più di una offerta e ogni giorno arriva qualcuno che aggiunge ancora qualcosa.-
-Vi ho già spiegato che a me delle altre offerte non interessa. Mi sono informato; un cavallo giovane e sano vale al massimo 300 lire e io sono disposto a offrire 300 lire per un cavallo che giovane non è più.-
-Ma Giovanni lo sa che ci sono già offerte di 400 lire; chi lo convince a vendere a voi per 300?-
-Voi lo convincete. Gli dite che se non vende a me non venderà a nessuno; gli spiegate come funziona il mondo e lui capirà senza tanta fatica che se uno come me vuole qualcosa la ottiene e che nessun contadino, nessun mediatore, nessuna persona istruita verrà mai a mettersi contro di me.-
Il mediatore aveva detto che gli serviva un po’ di tempo e il ragioniere gli aveva dato fino a domenica. Così il mezzogiorno della domenica erano tutti nel nostro cortile; il ragioniere, il mediatore, mio padre e il cavallo. Per tutta la settimana l’ avevamo tenuto a riposo e tutto il paese si era operato per fargli aver biada e erba medica. Il parroco in persona veniva tutti i giorni a portargli lo zucchero.
-Questa settimana metto meno zucchero nel caffè e quello che avanzo lo porto a Ferruccio.- diceva a tutti quando arrivava alla cascina.
Gli ultimi giorni mio padre lo aveva lustrato come un principino che quasi non lo riconoscevi rispetto alla settimana prima; così quando il ragioniere gli aveva fatto un giro intorno con lo sguardo esperto di chi sa valutare bene le bestie, si era più che convinto di aver fatto l’affare del secolo. Come da rituale Elmo prese le mani destre dei due, le strinse insieme e poi le staccò con un movimento rapido e deciso; e il ragioniere se ne andò con il suo nuovo cavallo, mentre mio padre portò in casa quelle 300 lire che tutte insieme non aveva mai visto.
La settimana dopo pagò da bere a tutto il paese; lo incontravano per strada e gli facevano i complimenti e lui li faceva a loro e si raccontavano i finti discorsi di tutti quei giorni e finivano sempre a bere un bicchiere di quello più buono. Mio padre diceva che dei soldi non gli interessava, gli altri rispondevano che a loro di bere a spese sue non importava niente; per tutti valeva solo la soddisfazione di aver venduto al ragioniere un cavallo vecchio e malandato al prezzo di uno giovane e sano, che questo valeva tutti i soldi del mondo, valeva tutte le migliori bevute di questa terra.
Però l’ estate il ragioniere l’ aveva passata tutta nel paese e non c’ era giorno che non si vedesse passare con il suo calesse lucido trainato da Ferruccio; da solo, con la moglie, con le figlie, con il podestà. Quel cavallo sembrava essere non quello che era stato venduto, ma quello che era stato comprato; bello, elegante, disciplinato, sembrava perfino più giovane. Quando l’estate finì Ferruccio era più che mai in forma e più nessuno pensava a lui come a un animale malandato; dell’ affare del cavallo non si parlava più, ma quando il ragioniere passava sul calesse, la gente guardava Ferruccio e qualcuno lo diceva sempre:
-Ve lo dico io. Quel cavallo gli dura ancora dieci anni e alla fine il ragioniere lo vende e prende ancora i suoi soldi; che tanto sono sempre quelli come il ragioniere che fanno gli affari migliori.-
Poi gli eventi portarono i discorsi su altri argomenti e la guerra prima, i partigiani e i repubblichini poi spazzarono via tutte le discussioni da bar, tutte le considerazioni sui cavalli buoni e su quelli che sanno fare gli affari. Il ragioniere fece una brutta fine in città insieme a molti altri della sua parte; Ferruccio chissà che fine fece, già era difficile tenere il conto degli uomini, tra quelli scappati, quelli morti, quelli andati con i partigiani e quelli andati con i repubblichini, che degli animali nessuno riuscì mai a tenere il conto.
Però alla fine io Ferruccio non l’ ho dimenticato. E non parlo del ricordo solito di noi anziani per quello che ci richiama alla memoria la nostra infanzia; io la storia di Ferruccio me la sono portata dietro per tutta la mia vita adulta. Ho avuto un lavoro, ho messo su famiglia e alla fine mi sono anche costruito quel briciolo di ricchezza come un po’ tutti quelli della mia generazione. Ma nel mio modo di vivere il mondo ho sempre tenuto presente la storia di Ferruccio, la storia di un cavallo a cui è bastato avere qualcuno vicino che ti risparmiasse le fatiche, ti desse da mangiare bene tutti i giorni e ti accarezzasse quando possibile. Che poi sono cose normali, mica l’invenzione del secolo. E io ricordo ancora il ragioniere che passa per il paese con Ferruccio che porta il calesse; il ragioniere, sua moglie, i paesani che lo guardano e pensano che gli affari vanno sempre bene a quelli come lui. Invece io l’ ho sempre pensata diversa; ho vissuto cosciente di quanto poco ci vuole per trasformare una bestia o un uomo da vecchio e malato a giovane e sano. Fatica corretta, mangiare il giusto, un po’ di attenzioni da chi ti sta intorno.
Che poi vuol dire una cosa sola: stare vicino.
Vicino alle persone.

Paolo Davide Manina - Così vicini

Era un tardo pomeriggio della calda estate portoghese.
Agnese e Federico si trovavano l'una di fronte all'altro nella piccola cucina dell'appartamento che condividevano in affitto.
Disinvolta romagnola lei, pragmatico piemontese lui; entrambi pensionati poco più che sessantenni e divorziati da lunga data, erano emigrati da poco in Portogallo e lì si erano conosciuti casualmente, grazie all'opportunità di condividere il canone di affitto di quel decoroso alloggetto con due stanze, cucina, servizio e terrazzino con vista mare in un antico borgo di pescatori dell'Algarve riconvertito al turismo.
Lui, in accappatoio e infradito, era seduto accanto al tavolo in attesa che il suo tè si raffreddasse un po'.
Lei, in elegante abito corto nero da sera, stava in piedi su un paio di decolleté tacco dodici, appoggiata all'angolo cottura attendendo che si sciogliesse un po' il ghiaccio nel bicchiere di mojito che teneva in mano.
-È davvero molto elegante, Agnese!
-Grazie, Federico; è molto gentile.
-Serata mondana?
-Sì; cena a base di pesce e poi balera.
-In compagnia del suo amico spagnolo?
-No, con lui ho chiuso; non c'era feeling. Stasera porto fuori un'amica un po' in crisi.
-Giovane?
-Ha qualche in meno di noi, ma non le consiglio di chiedermi di fargliela conoscere: rischierebbe di farsi travolgere dallo tsunami dei suoi problemi esistenziali.
-No, mi scusi! La mia è stata soltanto una domanda istintiva. Non sento assolutamente l'urgenza di fare nuove conoscenze, per ora.
-Lei esce stasera?
-No, Agnese, sono stanco. Oggi ho nuotato molto.
-Lo so. Prendevo il sole in spiaggia e l'ho vista gareggiare in acqua con quella ragazzina dai lunghi capelli neri.
-Sì! E ne sono stato molto soddisfatto.
-Ma Federico, potrebbe essere sua nipote!
-Ma cosa va a pensare? Intendevo dire che ero molto soddisfatto di aver messo alla prova la mia forma fisica, constatando che si mantiene ancora decisamente buona. Null'altro, mi creda!
-Ah, okay. Mi scusi; avevo frainteso.
-Non fa niente. Rientrerà tardi stanotte?
-Dipende da come è messa con la testa la mia amica Bianca.
-Ah, la testa! Nel bene e nel male è lei che comanda tutto.
-Già. Anche alla nostra non più tenera età.
-Soprattutto alla nostra età, cara Agnese! Quando avevo vent'anni il mio cervello era soltanto proiettato in avanti. Ora, invece, rivedo il mio passato, guardo il mio presente e cerco di capire se ci sia ancora la possibilità di costruire un mio futuro tutto nuovo: praticamente nella mia testa ho un turbinio che gira vorticosamente a 360 gradi.
Il silenzio che seguì fu rotto soltanto dal secco ticchettio del ghiaccio nel bicchiere di mojito che Agnese stava terminando di bere e dallo scroscio sommesso del tè che Federico versò nella tazza dalla teiera.
Quella sera Federico si rese conto di patire con un'insolita intensità quella solitudine alla quale peraltro era abituato ormai da parecchio tempo; sul terrazzino dell'appartamento neppure la compagnia di un buon libro e dell'armonico sciabordio dell'Atlantico riusciva a neutralizzare quella sensazione di snervante disagio.
Agnese invece non era sola quella sera; tutt'altro: il ristorante e il dancing in cui lei e la sua amica Bianca avevano deciso di trascorrere la serata pullulavano di gente allegra e spensierata. Ciò nonostante non riusciva affatto a svagarsi: al contrario, piombò in una situazione di inquietudine ancora più molesta di quella che contemporaneamente stava vivendo il suo coinquilino, dovuta al fatto che, paradossalmente, lei si stava sentendo sola in mezzo a una moltitudine di persone.
A un certo punto della serata Agnese fu piantata in asso da Bianca, la quale, senza farsi il minimo scrupolo, si allontanò dal locale in compagnia di uno sconosciuto, con il quale prima aveva soltanto ballato qualche latino-americano e bevuto un paio di drink.
Dopo un iniziale sentimento di profondo scoramento Agnese pensò che la solitudine della sua camera non avrebbe potuto essere più opprimente del senso di oblio che l'aveva attanagliata durante quella serata tutta da dimenticare.
Onde evitare che il suo morale finisse sotto un tacco dodici si avviò verso casa scalza, tenendo in mano quelle sue belle scarpe che sentiva del tutto inadeguate. Inadeguate per quella pessima serata; ma inadeguate anche per la breve relazione recentemente avuta con uno spagnolo quarantenne in cerca di sole avventure. E inadeguate ancor di più per una coabitazione che avrebbe avuto senso soltanto ai tempi dell'Università: ma quei tempi erano lontanissimi e ora Agnese si ritrovava a condividere cucina, bagno e terrazzo con un uomo a cui dava del lei, un uomo che non si faceva scrupolo nel gareggiare nelle acque dell'oceano con un'adolescente di quasi cinquant'anni più giovane.
Entrando in cucina per bere un bicchiere d'acqua, ancora ben immersa in quei suoi tediosi pensieri, scorse una luce flebile e tremolante sul terrazzino.
-Federico, ma è ancora sveglio a quest'ora?
-Si sta bene qui. C'è una bella brezza e l'oceano mi tiene compagnia.
-È uscito?
-No. Sono rimasto qui tutta la sera.
-Ma era in compagnia di qualcuno?
-No, ero solo. Perché me lo domanda?
-Perché non l'ho mai vista stare in casa in camicia bianca, foulard di seta e gessato grigio; e con una candela accesa al centro del tavolino. – Il tono di voce Agnese si era alquanto inacidito.
-Agnese, lei conosce la differenza tra il fato e il destino?
-Sì. Il fato è predestinazione, mentre ognuno è artefice del proprio destino. Ma che c'entra con tutto ciò?
-C'entra, eccome! Stasera mi sono sentito terribilmente solo, come mai mi era capitato prima d'ora.
-Mi dispiace. Se la può consolare anche la mia non è stata una gran bella serata. Ma, mi scusi, l'ho interrotta: mi stava parlando di fato, destino e solitudine.
-Già, la solitudine: questa sera si era trasformata in un odioso tarlo che mi rodeva dentro. A un certo punto, di colpo, ho avvertito in me un forte impulso.
-Cioè?
-Attendere il mio destino con un'atmosfera e un abbigliamento adeguati.
-Federico, ma che diavolo sta dicendo? Così mi fa preoccupare! - Il tono di voce della donna si era improvvisamente caricato di sincera apprensione.
-Ma no, Agnese, non c'è proprio nulla di cui preoccuparsi. Semplicemente, stasera speravo che il mio destino si presentasse a me con un abitino nero corto al di sopra di un bel paio di gambe perfettamente a loro agio su eleganti decolleté tacco dodici e decidesse di condividere con me questa splendida notte stellata. E quindi sono rimasto qui in paziente attesa.
-Federico...
-Sì?
-Sono qui...
Agnese calzò nuovamente quel paio di scarpe che, come per incanto, tornò a sentire perfettamente adeguate.
-...sono qui per te... per noi.
Il resto lo raccontò l'Oceano Atlantico: raccontò la storia di Agnese e Federico, che fino ad allora si erano sentiti lontani, non accorgendosi invece di essere così vicini.