mercoledì 15 giugno 2016

Cecilia Sacchetto - Lampedusa

Dell'altra sponda nulla conosco
se non che è bagnata da questo stesso mare
che anche oggi qualcuno affronta alla ricerca di pane e riparo.
 
Così accecato dal futuro agognato
da riuscire a vedere, in un rottame qualunque,
il varo importante di una crociera.
 
Ma mentre Caronte percuote le schiene
svanisce il miraggio di un domani migliore.
Arriva il freddo, si avverte la fame,
la sete è una falce e non sente ragioni.
 
Relitti abbattuti nel mezzo del niente
trattengono il fiato in preda al terrore.
Qualcuno si arrende alla notte più nera,
socchiude gli occhi per andarsene via.
 
Spero che allora dall'Alto dei Cieli discenda Beatrice,
che prenda per mano le anime in pena
e a lidi di luce le faccia arrivare.
 
I dubbi son solo ricordi lontani:
esistono proprio le bolge infernali,
il nocchiero, gli ignavi, e i dannati privati di speme.
 
Di questi qui in fondo dovrei aver paura?
O non forse di chi alla vita dà un prezzo?
E se alla quota del viaggio presenta uno sconto
di certo sa già che lo scafo è fallato.

Bruno Bianco – Il mistero del mare

Si erano alzati di buon mattino dopo una notte parzialmente insonne. La sera precedente Luca era stato pervaso da quell'eccitazione tipicamente infantile che ti accompagna prima di prendere sonno e ti fa sperare che venga presto il momento del risveglio. Papà Carlo era invece rimasto alzato fino a tardi con la scusa di dover studiare certe carte processuali relative ad un'udienza che non era nemmeno ancora stata fissata; nonostante tale accorgimento però la nottata era stata lunga, regolata da tutti i rintocchi del campanile locale. Mamma Luisa aveva invece pregato a lungo prima di addormentarsi, per poi risvegliarsi e riaddormentarsi più volte nella notte. Nessuno di loro tuttavia mostrò la benché minima stanchezza al risveglio: non Luca che per la prima volta avrebbe potuto vedere il mare, non papà Carlo che avrebbe posto la parola fine ai consulti medici, non mamma Luisa che avrebbe smesso di temere che dietro quella patologia di per sé innocua si celasse qualche male oscuro assai più grave.
Erano passati 10 anni da quando l'allergia si era manifestata per la prima volta; Luca aveva allora 3 anni e come buona parte dei suoi coetanei era in viaggio per una settimana da trascorrere al mare a goderne l'aria iodica. Giunti al casello di Savona Luca era diventato rosso in volto, il sudore gli imperlava la testa ancora piccolina ed il respiro si era fatto difficoltoso; la giornata era stata tremenda, trascorsa tra ambulatori sanitari, farmacie locali e ripetuti collegamenti telefonici con la pediatra.
Dopo un paio di settimane e vari consulti medici, era stata diagnosticata una rarissima forma di allergia da ambiente marino, un'incompatibilità al tipo di aria delle zone di mare; il caso si presentava come unico in Italia, mentre se ne contava qualcuno negli Stati Uniti e pochi altri nel mondo. La famiglia di Luca era benestante, anzi benestante sarebbe dire poco. Il padre era il più rinomato avvocato della provincia, conteso per i processi più impegnativi e di conseguenza più generosi nelle parcelle; la madre era una commercialista, con pochi clienti, ma buoni: aziende economicamente sane, stimati professionisti, facoltosi commercianti. I due genitori avevano continue giornate impegnative, poco tempo libero, ma un conto in banca in costante e rapida crescita. Si affidarono ad un luminare di chiara fama il quale a sua volta prese contatto con un altrettanto famoso collega statunitense; il medico americano dichiarava la sua fiducia sul buon esito del problema, avvisando però che la guarigione non sarebbe avvenuta prima dell'età dello sviluppo. Furono anni in cui a Luca non mancò niente. In inverno andava a sciare quasi tutte le domeniche, diventando in breve tempo un esperto sciatore; durante le altre stagioni le giornate di svago si dividevano tra gite in montagna con lunghe passeggiate, picnic insieme a papà e mamma, pratica di sport vari quali tennis, judò, calcio e pallavolo. Le vacanze più lunghe erano l'occasione per interessanti permanenze in città d' arte, con i genitori che fungevano da provetti ciceroni per palazzi, musei, cattedrali e piazze varie.
Era però il mare il grande assente della sua vita e ciò gli aveva determinato un'enorme attrazione verso tutto quanto potesse coprire tale mancanza; all' età di sei anni aveva iniziato ad andare in piscina e la frequentava quasi quotidianamente.
Si appassionò poi ardentemente alla lettura non perdendosi neppure uno dei libri di Emilio Salgari sul Corsaro Nero e su Sandokan; lesse d' un fiato "Ventimila leghe sotto i mari" di Verne, "Il vecchio e il mare" di Hemingway e decine di altri romanzi che avevano il mare come elemento comune.
Con il passare degli anni si iniziava a parlare di una guarigione ormai prossima dovuta ad una terapia del dottore americano combinata con il sopraggiungere dell'adolescenza, (proprio l'adolescenza, l'unico vero grande momento rivoluzionario nella vita di ciascuno); trionfante il responso definitivo: "Dagli ultimi test Luca risulta perfettamente guarito. Non resta che portarlo al mare e verificare sul campo l'effettiva bontà della diagnosi".
Quel momento era infine giunto: una deliziosa giornata di fine aprile, riscaldata da un sole per nulla timido, indicata per gite e scampagnate. Dai vetri della Volvo Luca guardava le montagne liguri, gli enormi piloni dell'autostrada che le attraversavano, i carrelli sospesi nel vuoto sopra le loro teste utilizzati per lavorazioni a lui misteriose, tutto magnificamente finalizzato alla realizzazione del sogno tanto atteso.
Il mare! Oltre le prime case di Savona, oltre la linea del terreno, al di qua dell'orizzonte, dolcemente schiacciato tra cielo e terra, lui, il mare. Luca ora non sentiva più le domande preoccupate della madre e le parole di finta tranquillità del padre; guardava perennemente a sinistra, rattristato quando l'Aurelia piegava verso l'interno e rendeva invisibile l'azzurra distesa d' acqua, in estasi quando questa ritornava sotto i suoi occhi.
- Andremo a Pietra Ligure! - aveva sentenziato il papà, quasi a voler riannodare un filo drammaticamente interrotto IO anni prima, come se avesse voluto semplicemente dire "Dove eravamo rimasti?".
Vado Ligure, Bergeggi, Spotorno, Noli, Varigotti, Finale Ligure. La strada trafficata, la precedenza ai pedoni sulle strisce, le palme sulla passeggiata, i chioschi ancora chiusi ai bordi delle spiagge; poi da ultimo Pietra Ligure, l'approdo.
Luca uscì di getto dalla macchina trattenuto a stento dai genitori; la spiaggia era il suo obiettivo finale.  Con forza e vigore trascinava la mamma che con sommi sforzi lo teneva per mano; attraversarono l'incrocio, aggredirono la passeggiata, superarono il molo ed i piedi di Luca si posarono finalmente sulla fine sabbia. Mamma avrebbe voluto abbracciarlo per la gioia della guarigione ormai certa, papà avrebbe voluto emettere un sonoro urlo di esultanza, ma Luca era già lontano da loro, completamente percorso da un brivido indescrivibile.
Corse fino alla riva dove flusso e riflusso rendevano umida la sabbia; avrebbe voluto levarsi scarpe e calze, arrotolarsi i jeans fino alle ginocchia e poi entrare nell' acqua, spingersi fino a quando il livello non fosse arrivato ai risvolti dei pantaloni. Restò invece a fissare l'azzurra macchia marina finché un'onda monella non gli lambì entrambi i piedi; ritornò allora di corsa verso i genitori ed esternò loro il suo entusiasmo, insensibile ai rimproveri per i piedi bagnati, alle raccomandazioni di non sudare, di non levare la maglia, di stare attento a non cadere. Calmatosi un po' iniziò a guardarsi intorno. Un gruppo di ragazzi e ragazze stava arrivando sulla spiaggia riempiendo l'aria con le note di canzoni che uscivano da un registratore portatile; sulla passeggiata di fronte una coppia di anziani camminava lentamente ed incrociava un giovane papà che spingeva un passeggino. Il numero di persone intorno a lui aumentava continuamente; era un mondo totalmente nuovo, formato da uomini a passeggio con il giornale sotto il braccio, dall'aroma di caffè proveniente dai tavolini dei dehors, da giovani che scendevano le scale per raggiungere la spiaggia.
I ragazzi del registratore adesso stavano giocando con un pallone, mentre le loro amiche placidamente sedute su colorate coperte si raccontavano chissà quali confidenze. Due suore vestite di bianco camminavano lungo la riva, la lunga sottana leggermente alzata sui fianchi fino a mostrare le bianche scarpe; parlavano tra loro, o forse pregavano, o forse canticchiavano, o forse erano in silenziosa meditazione... Luca non lo scoprì mai.
 
Quanti anni erano passati da allora? Esattamente 19. Una domenica di fine aprile Luca era nuovamente in autostrada sopra l'appennino ligure; in auto con lui la bella moglie Alice ed il piccolo Andrea, da quasi due anni l'elemento in più della sua famiglia. Quando doveva nascere i medici avevano avvertito che l'allergia patita nel passato dal padre aveva carattere ereditario, che esisteva una probabilità seppur remota che si manifestasse nuovamente, che se anche ciò fosse avvenuto non si sarebbe trattato di nulla di grave. I controlli successivi sul neonato erano stati però tutti negativi ed i dottori si erano convinti che non vi fosse alcuna patologia; tuttavia l'anziano medico di famiglia, amico d' infanzia del padre di Luca, aveva avvisato: "La medicina non è una scienza esatta. Portatelo per una volta al mare e solo in quel momento sapremo la verità certa". Il tragitto fu il medesimo di 19 anni prima: i collinari paesi del sud dell'astigiano, il casello di Altare con la colonna di auto in attesa, la trafficata autostrada, la caotica Aurelia, i problemi di parcheggio a Pietra Ligure; durante l' intero viaggio i due genitori non avevano smesso di controllare il piccolo temendo di riscontrare i ben noti sintomi, ma questi, imbracato nel seggiolino previsto dal codice della strada, aveva continuamente mostrato il volto sereno e ridanciano dell' infanzia felice.
Solo quando furono sulla sabbia della spiaggia però, ogni dubbio fu rimosso; mamma Alice si strinse al petto il figlio non riuscendo a frenare le lacrime di gioia che copiose scendevano sulle gote.
- Ti porteremo qui per una settimana, anzi per due settimane. Verremo tutti gli anni al mare. Vero Luca che lo porteremo tutti gli anni? Fa così bene il mare ai bambini!"-
Luca annuiva silenzioso. Aveva sperato fino all'ultimo; quando erano giunti a Savona aveva cercato di convincersi che sarebbe potuto succedere in riva al mare ed invece niente: il figlio non aveva ereditato la sua vecchia allergia, purtroppo.
Da quel momento in avanti per suo figlio il mare avrebbe soltanto significato una settimana, anzi due, da passare ogni anno tra sabbia, secchielli e palette; sarebbe stato la banale meta delle gite con gli amici, prima in treno, poi in moto e alla fine in macchina; avrebbe costituito semplicemente un'ipotesi di luogo di vacanza da contrapporre alla montagna.
Per Luca invece era stato tutto diverso. Da quel giorno di 19 anni fa aveva viaggiato molto, aveva visto mari vicini e mari lontani: la festosa riviera adriatica, il litorale toscano dall' incantevole paesaggio, l'incontaminato azzurro della Calabria, la Sardegna con i suoi villaggi turistici, la ricca Costa Azzurra francese. E poi l'atmosfera dei Caraibi, le onde della California, le splendide ragazze delle spiagge brasiliane; niente però gli aveva più regalato quelle stesse emozioni di allora, non l'atmosfera dei Caraibi, non le onde della California, non le ragazze brasiliane.
L' acqua ai suoi piedi ed il giovane papà con il passeggino; immagini scolpite nella sua memoria come i ragazzi con il pallone, gli uomini con il giornale sotto il braccio, l'aroma di caffè, le due suore lungo la riva.
Già, le suore; Luca allungò lo sguardo oltre la figura della moglie che teneva il figlio stretto tra le braccia. Due suore vestite di bianco camminavano lungo la riva, la lunga sottana leggermente alzata sui fianchi fino a mostrare le bianche scarpe; parlavano tra loro, o forse pregavano, o forse canticchiavano, o forse erano in silenziosa meditazione... Luca sorrise e non lo scoprì mai.

domenica 5 giugno 2016

Leonardo Pecoraro - Come è profondo il mare

Sono sempre stato un rinomato osservatore, dicono gli altri… eppure, in tutta la mia vita, non ho mai visto niente.
Tutto era sfocato, era tutto invisibile e paradossalmente ironico; fino a quando, finalmente, gli occhi si aprirono.
Noi guardiamo tutto in modo approssimativo senza dar mai particolar peso a ciò che ci sta di fronte. Non solo perdiamo la grandiosità della natura ma perdiamo anche quei minimi dettagli, quei piccolissimi dettagli fantastici che fanno la differenza, se notati.

«Come è profondo il mare» pensai ad alta voce, ed iniziai a rifletterci sopra, iniziai a mettere in moto i miei neuroni per una cosa che, inizialmente, sembra alquanto banale poiché è un pensiero infantile... ma mai scontato.
Il mare. Il mare sconfinato, il mare che sembra non finir più. Quella fantastica ed incommensurabile ansia che si prova di fronte ad esso per la sua magnificenza. La sua schiacciante magnificenza.
Il mare, paragonabile all'infinito, all'amore, alla gioia, all'ansia, alla paura.
E come l'infinito stesso sfocia nell'immaginario comune. Sì, noi che con l'immaginazione navighiamo nel beato ed indiscusso limbo della creatività.
E il mare, come l'infinito, non ha limite, e nemmeno l'immaginazione.
Tutti hanno il proprio infinito, tutti hanno la capacità di immaginare. E' qualcosa di fantastico, di superlativo; ti puoi perdere tra vari pensieri e riflessioni... finché non ti accorgerai che anche questi saranno infiniti con relative risposte infinite. Non c'è limite, in qualsiasi cosa non c'è limite; la musica non ha limite, la vita non ha un limite, poiché moriamo, ma in quel preciso momento un’altra vita sta germogliando; la gioia, la felicità, l'amore non hanno limite, ciò che ci circonda non ha un limite ed è terribilmente fantastico.
Io, che sono il primo a perdermi in questo infinito ho solo voglia di continuare a scoprire e di andare in fondo al mare per trovare il nesso logico che c'è nella vita.
Il mare, che col suo movimento monotono ci ricorda la nostra lunga e irripetibile vita vissuta solo di apparenze.
Nessuno sa chi è realmente e nessuno mai lo saprà poiché ognuno di noi ha molteplici facce dietro di sé, ed ognuno di noi, proprio come il mare, non troverà mai il punto d'origine. E come sempre affogherà tra l'immensa e vasta avidità della vita stessa rubando l'unica cosa a te preziosa.
Te, te che eri immensa; te, te che eri il mio infinito... guardami affogare in questo oceano disperato e guardami mentre divora la mia fievole anima oramai lacerata da uno strazio immenso e, con un lieve respiro di crepacuore, mostrami il tuo amore celato negli abissi dell'indifferenza poiché io possa gioire per l' ultima volta.

Non capivo... mi sentivo spaesato come un bimbo alla ricerca della propria madre.
Perché tanto dolore in una vita così sobria ?

Naufragai. Mi persi completamente nel buio più totale e non riuscii più a pensare.
Ero solo amareggiato e non vidi più nulla se non un buio destabilizzante.
Una strana paura mi pervase dalla testa ai piedi come se, in qualche modo, qualcosa mi stesse trascinando sempre più in giù. In giù. In giù.
Mi mancava il respiro. Mi mancava il tuo respiro docile e cauto sulle mie labbra.
Mi mancava la felicità e la gioia di sentirti ogni millisecondo accanto a me.
Ma ora, ora; non ci resta più niente se non un ricordo ormai lontano di ciò che è stato e che sarà continuamente nei nostri pensieri.

Il mare, già, il mare… cauto e semplicemente atroce.

mercoledì 1 giugno 2016

Nadia Piloni - La radice di Amina

La prima volta che vidi il mare stavo seduta in mezzo all'Africa e tenevo gli occhi chiusi.
Non saprei dire esattamente quando ma il ricordo della voce di mia madre diffusa in canto, mischiata all'odore delle frittelle di miglio mi riportano facilmente indietro, tanto vicino alla me stessa di allora che sento ancora il respiro calmo e la pressione dello stipite della porta di casa sulla tempia reclinata. Seduta sulla soglia, con i piedi affondati nella terra rossa, ad occhi chiusi vedevo il mare. Il maestro ne aveva parlato a scuola quella mattina, nessuno di noi c'era mai stato. L'azzurro di cui ci parlava era mosso dal vento a formare tante increspature di superficie e in un moto perpetuo altalenava avanti e indietro portando dalle profondità i suoi tesori sulla spiaggia.
La prossima settimana io e Kahal partiamo.” disse mio padre a un tratto, “C'è un camion che parte da Agadez mercoledì, l'autista è un amico di mio fratello Abdul, ci carica a un prezzo di favore”. Mia madre interruppe il canto e, guardando mio padre, non fece in tempo a emettere altro suono. “Viaggeremo di notte”, aggiunse lui con voce ferma ma si sentiva che in fondo l'anima si muoveva, forte come il mare.
In quell'attimo il silenzio fu così profondo che compresi di trovarmi al bordo estremo di qualcosa che finisce, di qualcosa che nasce. Il profumo di fiori annunciò l'arrivo di zia Acai. Sorridendo tese il braccio porgendomi la mano, seguirono i cerchi d'oro dei bracciali con il loro familiare tintinnio. Strinse dolcemente la mia mano e entrò in casa superando la soglia su cui stavo seduta; cedetti il passo alla carezza della sua lunga gonna verde e respirai più forte per tenere con me più a lungo che potessi il suo profumo di fiori e fermare il tempo.
Con lunghi passi lenti e sicuri giunse diritta davanti alla mamma. Si strinsero la mano e si guardarono in silenzio. A volte anche gli adulti sanno parlarsi senza voce quando il pensiero è così profondo da bastare, lo avevo capito da un pezzo osservando mamma e papà alla volta di decisioni importanti. Poi rivolgendosi al papà seduto al tavolo zia Acai ordinò: “Ti prenderai cura del mio Kahal come fosse tuo figlio, promettimelo.”
Te lo prometto” disse papà con tono solenne. Guardai verso di lui appena in tempo per vederlo tuffare, il viso fra le mani, nell'abisso di un mare sconosciuto, per poi risalire sollevando la fronte in cerca di luce, mentre le mani affondavano nei capelli scuri.
Fu allora che decisi di non poter resistere più e lasciai la soglia per correre ad abbracciarlo: “Vengo con te, papà. Tu ti prenderai cura di Kahal, io mi prenderò cura di te. Ma dove? Dove andiamo?” Mi strinse forte e pacato mi disse: “Sono io che vado. Vedi, Amina, questo viaggio è lungo e le tappe non sono ancora ben definite. Io ora vado avanti. Tu verrai dopo, con la mamma. Una volta arrivato io vi chiamerò; torneremo a stare tutti insieme molto presto, vedrai.”
Ma perché ...?”
Il perché, mia piccola Amina, è intorno a noi” disse lui.

***
Il luogo in cui sono cresciuta è una soglia sul deserto, una forma piatta di terra rossa sulle sponde del fiume Niger, tra le dune e le grandi savane. Papà è partito tre anni fa e ora, come dice la mamma, tocca a noi. Il raccolto di quest'anno è stato ancora più scarso, seppure tutti noi abbiamo lavorato sodo e poi la guerra ... nell’area del lago Ciad sono decine i villaggi ridotti in cenere dai combattimenti, e l'esercito non è ancora riuscito ad avere la meglio. “Le rappresaglie ci mettono a rischio” concluse la mamma e, spostando lo sguardo verso il deserto, aggiunse “Addio albero del Ténéré, isolata radice profonda, ora non possiamo più restare, ma un giorno... qualcuno di noi ...” I racconti della nonna sull'albero del Ténéré, giunti a lei con le carovane Tuareg, avevano di volta in volta incantato tutti i bambini del villaggio. Questo albero, unico e solo a reggersi in piedi nel deserto nel raggio di molti chilometri, doveva il premio della vita al suo aver cercato, senza arrendersi, in profondità, sempre più giù, fino a trovare l'acqua di una falda ad almeno 40 metri di profondità. Questa radice ostinata, diceva la nonna, apparteneva alla nostra gente, ed era da considerare parte della nostra stessa storia, tanto che l'albero viene tuttora conservato nel museo nazionale di Niamey.
La mamma nel rivolgergli l'ultimo saluto ne onorava la memoria e al tempo stesso gli raccomandava con una promessa la nostra stessa sopravvivenza.
Dove si trova questo posto così lontano? dove andiamo?” chiesi allora.
Oltre il deserto, oltre Agadez, oltre il mare” rispose la mamma.

Con la mente proiettata sui nuovi orizzonti, vagai coi pensieri fra le dune e il mare, come i Tuareg sulla via del sale, unico faro luminoso l'albero del Ténéré. Quella notte mi addormentai tenendomi stretta Kima l'amuleto di stoffa che mi aveva regalato nonna Nakisai prima di morire. “Tienila sempre con te, Ti proteggerà” mi disse allora riponendo la piccola bambola col turbante rosso e il bimbo annodato al dorso, fra le mie mani. Apparteneva alla nostra famiglia da molto tempo, come la nonna, almeno trent'anni e come lei conosceva le storie del villaggio meglio di chiunque altro. Bastava stringerla fra le mani e attendere: le storie, vecchie e nuove, sarebbero arrivate...
***
L'ultima volta che vidi l'Africa stavo seduta in mezzo al mare. Il cammino lungo le piste del Sahara era durato diversi mesi, e molti altri ne erano passati in attesa di un imbarco di fortuna. Non ero più la stessa di quando ero partita, e neppure mia madre che all'imbarco era incinta. Attraversare un deserto richiede un prezzo molto alto e noi lo avevamo pagato tutto tenendoci il resto. Ma anche ora, sulla barca gremita di persone sconosciute, come allora, nella notte prima di partire, tenevo gli occhi chiusi e Kima stretta fra le mani.
Quando il motore si arrestò e le onde presero il sopravvento fu in un solo lunghissimo istante che la barca si capovolse e io conobbi la profondità del mare. Io scendevo e anche la mamma scendeva con me, “Aminaaaaa!” riuscii a sentire ancora la sua voce, ma poco dopo, nella discesa abissale, i suoni si erano spenti, e il blu del mare profondo si estendeva senza fine come un nuovo deserto davanti a me.
Allora, senza respiro e senza voce, chiesi a Kima la storia più bella, profonda come la radice del Ténéré. Quando la vidi arrivare la riconobbi, era una storia nuova ma anche antica, che mi afferrò con forza e mi avvolse nella fascia purpurea con cui le donne in Africa portano con sé i bambini, in un abbraccio di stoffa tessuta da mani sapienti, da mani accoglienti. Forte e sicura, la storia di Kima procedeva al ritmo tribale dei tamburi srotolando il suo drappo che si faceva via via più grande per avvolgere anche la mamma. Poi, nuotando veloce, prese una corrente ascendente indicata dai pesci argentati e senza fatica ci riportò in superficie, adagiandoci sulla spiaggia dove mi risvegliai.
Quando aprii gli occhi tenevo ancora Kima stretta fra le mani. La mamma era vicino a me, mi accarezzava. Teneva tra le braccia una bambina, il volto stanco ma felice “Amina, tesoro, siamo oltre il mare e siamo insieme, e da oggi lei è con noi. La chiameremo Futura.”

Mara Vignati – Come è profondo il mare

Come è profondo il mare... come è profondo il mare.
Nessuno ci pensa mai. Sta lì, una macchia blu poco più intensa del cielo. A separarli, una sola linea. Ma sotto, un intero mondo.
Scendo lentamente, giù, giù. Chissà quando toccherò il fondale. Chissà se me ne accorgerò o se, quando i miei piedi si mischieranno alla sabbia, avrò già perso coscienza. Se, addirittura, sarà già finita. Una discesa nell’oblio, lunga. Vedo ancora la luce del sole, scomposta, riflessa in schegge di dimensioni varie e indefinite. Mentre il mare mi avvolge con il suo abbraccio soffocante, la sagoma della barca che si allontana. Da questa prospettiva, così rovesciata, sembra un’enorme bara nera.
Qui sotto non si sentono nemmeno i lamenti. Tutto è silenzio, tutto è riposo. Niente più sciabordio delle onde, niente più gemiti delle donne, niente più pianti di bambini, né urla, ordini, rumori sordi delle botte e degli schiaffi dei nostri aguzzini.
Forse, la pace a cui tanto ambivo era questa. Volevo raggiungere i miei cugini a Malmö, in Svezia, e assaggiare nuovamente quella sensazione di casa, di protezione, che avevo provato anni fa, quando la guerra ancora non aveva raggiunto la pacifica Dar’a.
Ma, in fondo, anche qui tutto è calmo. Ho cercato di lottare, ho sbattuto freneticamente gambe e braccia, nel disperato tentativo di rimanere a galla, ma non avevo mai nuotato prima d’ora. Niente di strano per chi, come me, ha visto per la prima volta il mare qualche mese fa, all’arrivo a Beirut, in Libano.
In realtà, non so nemmeno perché mi sono tuffato.
È stato un attimo. L’ennesimo scossone alla barca stracolma, e già in parte sommersa.
Forse, qualcuno si è alzato improvvisamente per far segno all’imbarcazione che si intravedeva in lontananza. Forse è stato più di uno ad alzarsi e sbracciarsi per chiedere aiuto.
Non saprei nemmeno descriverlo con certezza, tanto è accaduto in fretta. Un equilibrio perduto per un millisecondo. E poi, il panico. La barca che si piega tutta a destra e il contraccolpo che ci sbalza sul lato opposto. Gente schiacciata, gente che non riesce a rimanere salda, che cade in acqua, trascinando con sé gli altri.
Uno tra i primi a cadere è stato Amir. Era seduto vicino a me, il piccolo. Siamo rimasti fianco a fianco per tutto il viaggio. Mi fissava, mentre cercava riparo tra le braccia della madre. Gli occhioni umidi, neri neri. Troppo leggero per resistere al contraccolpo, troppo debole per aggrapparsi, saldo, al petto della mamma. Amir è il suo terzo figlio; gli altri, morti sotto le macerie della loro stessa casa, ad Hama. Il padre, che tanto aveva faticato a racimolare i soldi necessari alla traversata, giace già in fondo al mare, pestato a sangue e gettato in acqua da quelle bestie mentre ancora era vivo per aver osato chiedere un po’ d’acqua per il suo bambino, dopo quasi dodici ore di viaggio.
Non aveva più parlato, il piccolo Amir, di soli tre anni. Non aveva nemmeno pianto, ma forse il suo corpicino arido non era neppure in grado di produrre lacrime, sotto il cocente sole di luglio. La madre, come pietrificata, aveva continuato a fissare il punto in cui era caduto il marito anche per molto tempo dopo la sua scomparsa, stringendo stretto a sé il piccoletto.
Ma Amir era stato sbalzato via, e già si dibatteva tra i flutti.
Ho ancora nelle orecchie l’urlo disperato di quella povera donna. Vedo la sua mano, strappata a quella del bimbo, sospesa, a graffiare l’aria, ad afferrare il vuoto.
Un attimo dopo, non saprei dire perché, mi sono ritrovato in acqua, a dimenarmi in modo scomposto nel tentativo di raggiungere Amir. Forse è stato per via delle sue lunghe ciglia nere, o per le labbra secche, spaccate per il caldo e la sete. O forse per le sue manine, che tanto mi ricordavano quelle della mia sorellina Adila. Qualche mese prima, nel tentativo di raggiungere la Libia, i miliziani avevano preso lei e mia madre. Ho aspettato due settimane, nella speranza che le rilasciassero, finché ho capito che non le avrei più riviste.
Mi agito in maniera convulsiva, cercando solo di pensare a rimanere a galla e raggiungere il punto in cui Amir è scomparso, ma tutto è nuovo per me. Il freddo dell’acqua, il sapore di sale in bocca, il bruciore negli occhi, in gola, nelle narici. Non faccio più di un metro e già mi arrendo. Inghiottisco acqua mentre cerco, disperato, di respirare. Sono a galla, e poi affondo, riprendo aria, e sono di nuovo giù. Mi affanno, mi agito, tossisco, bevo. Una fitta al petto e mi manca il fiato. Chiudo gli occhi, per non vedere attorno a me chi si dimena, chi lotta per risalire e si aggrappa al vicino, chi si dispera nel tentativo di guadagnarsi una tavola di legno, un brandello di barca.
Buio. Silenzio. Tutto è ovattato. Il panico che aumentava la morsa al petto, poco a poco, mi abbandona. Mi sembra di scendere al rallentatore verso l'abisso. Sempre più silenzio. Sempre più buio.
Com’era buia la notte precedente. La fioca luce della luna sembrava nascondersi a noi, quasi non volesse testimoniare quello che stava accadendo. E il rumore assordante del mare, delle onde nere, ora alte, ora impetuose, ora violente, ora seducenti, ora concilianti, ora martellanti, ora rasserenanti... Il mare è una grande culla, e una grande bestia. Divora i suoi figli, quelli a cui ha dato di che vivere con le sue acque. Finge di farsi domare, di assecondare i capricci e i voleri degli uomini, e poi li spazza via. Accoglie nel suo ventre marinai e pescatori, aguzzini e fuggiaschi. A volte li accompagna, a volte li ingoia. Puoi sentire la sua conciliante compassione o la sua schiumosa rabbia.
In queste sedici ore di traversata abbiamo imparato a conoscerlo, il mare, e a temerlo. La maggior parte di noi nemmeno lo aveva mai visto. Nessuno ci aveva mai pensato, al mare. La nostra vita procedeva e lui, a chilometri di distanza, stava lì; una macchia blu poco più intensa del cielo. Per sedici ore abbiamo vissuto solo il mare, sentito solo il mare. Alle nostre spalle, ormai invisibile al di là dell'orizzonte ondulato delle onde schiumose, c’era la nostra terra dove, in alcuni casi, avevamo lasciato i nostri genitori, troppo deboli per tentare l'impresa, o le nostre mogli, sepolte sotto le coperte dove si trovavano, addormentate, quando la bomba le ha sorprese. Davanti a noi (e ormai non poteva mancare molto, non doveva mancare molto), la nostra nuova speranza. A dividerci da essa, il mare. Mare di fronte a noi, mare dietro di noi, mare sotto di noi. E chissà come è profondo il mare… da qui, forse, potrei riuscire a capirlo… D’improvviso apro gli occhi, e lo vedo. Il mare è anche sopra di me. E non è nero, ma è pieno di sfumature azzurre, verde acqua, blu inteso, bianco schiuma…

Scendo lentamente, giù, giù. Chissà quando toccherò il fondale. Chissà se me ne accorgerò o se, quando i miei piedi si mischieranno alla sabbia, avrò già perso coscienza. Se, addirittura, sarà già finita. Una discesa nell’oblio, lunga. Vedo ancora la luce del sole, scomposta, riflessa in schegge di dimensioni varie e indefinite. Mentre il mare mi avvolge con il suo abbraccio soffocante, la sagoma della barca che si allontana. Da questa prospettiva, così rovesciata, sembra un’enorme bara nera.
Qui sotto non si sentono nemmeno i lamenti. Tutto è silenzio, tutto è riposo.
Ma io non voglio il silenzio, non voglio la “pace”. Io voglio la vita. Mi dimeno con forza, risalgo di un poco. Batto i piedi, ma il sangue mi pulsa nelle orecchie, le tempie picchiano, i polmoni mi scoppiano...
Una forza, dall’alto, mi recupera. Mi trascina verso il cielo, a riprendere fiato. Il mare, in superficie, è di un colore azzurro chiaro. Un’altra mano mi afferra, mi stringe, mi issa. Alzo lo sguardo. Un uomo. Anche i suoi occhi sono azzurro chiaro. I suoi occhi hanno il colore del mare. 

Chiara Pelossi Angelucci – Dall’alba al tramonto

Oggi mi sveglio presto, gli uccellini cinguettano senza sosta, ma il sole non è ancora sorto all’orizzonte. Lui all’alba e io al tramonto di questo effimero passaggio che è la vita terrena. Una folata di vento spalanca la finestra e porta con sé profumo di ricordi, una nota dolce-amara pervade la stanza. Respiro a fondo, vorrei catturarla, farla mia, portarla nel mio cuore stanco e invece lei se ne va. Me ne sto qui a fissare il soffitto sperando che la memoria mi conduca lontano, le mie gambe non possono più farlo. Sono vecchio, con la pelle di cuoio e lo sguardo slavato. Aspetto paziente, ormai il tempo non è più un problema, malandrino scorre avanti e indietro senza curarsi di rallegrarmi o rattristarmi. Ed eccole arrivare, prepotenti, le emozioni. Quanto vorrei tornar bambino, con il gelato che mi cola sul mento, sul petto, nella sabbia. Le mani appiccicose e i capelli al vento, il profumo delle creme da sole che aleggia nell’aria cristallina di una mattina di giugno. La mamma che mi sgrida se le faccio ombra e i miei fratelli che preparano la pista delle biglie. La certezza che la vita sarà per sempre così e che nulla ci turberà mai. Mi sento forte, invincibile, immortale. Guardo le ragazzette che, con le loro gambe smilze e i reggiseni decorativi, credono di possedere il sapere, mentre chiacchierano fra loro con fare saputello, senza mai degnarci di un’occhiata. L’unico costantemente al centro della loro attenzione è il fratellino piccolo di qualcuno, il tenero della spiaggia. Guardo il mare che placido va avanti e indietro da sempre, senza sosta ogni giorno da quando esiste il mondo. Sarà mai stanco? Mi chiedo grattandomi il naso, sul quale si è posata una zanzarina affamata. Corro verso la distesa d’acqua più affascinante che esista e glielo chiedo sussurrandole piano, in una lingua sconosciuta che mi sono inventato per non farla capire agli altri. Entro gentile fra le onde sul bagnasciuga, faremo male all’acqua quando la calpestiamo? Chissà se le piacciamo o se invece le diamo fastidio? Chissà da dove arriva e dove finirà una volta evaporata? Annaffierà dei fiori grazie alla pioggia, disseterà un bambino come me da un’altra parte del globo o finirà imbottigliata su un tavolo di un ristorante sconosciuto? Mentre mi allontano dalla riva camminando tranquillo ne accarezzo la superficie increspata dal vento. Come faranno i pesci a nuotare se il mare si muove così tanto? Le correnti li trasporteranno a destra e a manca senza il loro volere poverini. Tuffo la testa sott’acqua e osservo. Mi bruciano gli occhi, ma non me ne curo, resto sotto tutto il tempo che il respiro mi permette. Mi immergo ancora, ancora e ancora. Qui pesci non ce ne sono, esco di corsa a prendere il materassino che giace incustodito vicino alla sdraio di Marta, la bambina più bella che abbia mai visto: soffici ricci rossi le incorniciano un viso sul quale sembra abbiano macinato del pepe. Alza lo sguardo dall’enigmistica di sua nonna senza realmente vedermi, disturbata forse dal rumore che produco trascinando via il materassino giallo. Nessuno sembra notarmi e io ne sono ben felice, non desidero condividere i miei pensieri con nessuno, ho una missione in testa. Entro di nuovo nell’acqua e salgo sul materassino, mi spingo con le braccia; le gambe non arrivano in fondo alla plastica gialla gonfiata dal fiato di papà prima di tornare in città. Immergo di nuovo la testa e mi spingo sempre più forte, sempre più al largo. Le braccia sono indolenzite e i pesci non si fanno vedere, starò facendo troppo baccano, me lo dice sempre la mamma e forse ha ragione anche stavolta. Sposto le braccia a lato del corpo e nel farlo scivolo, l’acqua qui è gelida me ne rendo conto subito. Stavolta sono sicuro di averle fatto male, sono entrato con prepotenza e senza riguardo, proprio come sottolinea spesso papà quando arrivo a tavola: affamato, con la lingua penzoloni e le gambe che scalpitano. Me ne resto fermo lì, senza più forza per rimontare sulla zattera gonfia, sulla salvezza che a volte ci sta accanto e nemmeno ce ne accorgiamo. Mi lascio attrarre dalle spire dell’acqua, forse ora che sono tanto fermo qualche pesce verrà a salutarmi. Scendo, scendo sempre più a fondo. Com’è profondo il mare, mi dico guardandolo per la prima volta negli occhi. Lo sento intorno a me e finalmente lo vedo: un branco di pesci nuota placido. Risalgo in superficie sputacchiando, le onde la increspano, ma sotto regna la tranquillità, la pace. Vorrei tornare sotto, ma è meglio che esca sennò poi mamma chi la sente? Appoggio il materasso vicino a Marta e mi siedo accanto a lei sulla sdraio. Aver rischiato una sgridata mi rende audace, le tiro i capelli e le schiocco un bacio sulla guancia. Da allora di baci ce ne siamo dati tanti negli anni a venire. Ne abbiamo vissute di avventure! Me la sono sposata quella fanciulla con la fissa per le parole crociate, per le crêpes alla marmellata e per l’ordine. Insieme una vita intera, il tempo giusto per coltivare la telepatia, l’amore oltre le apparenze, la felicità nella malattia. Sulle montagne russe della vita ho pensato spesso alla profondità del mare, al suo placido cuore sereno, alla sua capacità di non scomporsi anche quando la superficie è strapazzata dal vento e dalle correnti, quando perfino la luna sembra volerlo trascinare avanti e indietro.  Ci ho riflettuto quando tutto intorno a me sembrava andare a rotoli, quando impazzivo cercando il bandolo della matassa, quando le emozioni frustavano la mia superficie come il vento fa con il mare, rischiando di mandarmi alla deriva. Ho richiamato spesso alla mente i pesci che nuotavano tranquilli in quel giorno di giugno, ignari di ciò che si consumava in superficie. Quella breve esperienza ha avuto il potere di segnare la mia vita: mi sono prodigato per diventare come il mare, per sviluppare la necessaria profondità per affrontare le avversità della vita senza scompormi.  Ce l’ho fatta? Forse sì, ma quel che mi rende fiero è aver tentato di trasmetterlo alle persone che hanno vissuto intorno a me ricordando loro che: “Anche quando le onde ti sbatacchiano c’è sempre un posto dove potrai rifugiarti: dentro di te, nel tuo imperturbabile animo, che può essere profondo, profondo come il mare.

Giuseppe Armenio - Clara

È una bella notte, chiara, con la luna piena.
Remando a fatica, il vecchio si dirige verso il largo. Getta le reti ed aspetta. Stappa una bottiglia di vino e guarda il riflesso della luna sull’acqua, bevendo piccoli sorsi. Riesce quasi a distinguerne i crateri. Sorride e le profonde rughe del suo viso si rilassano. Il pensiero vaga, con la mente torna al passato, alla giovinezza ed alla morte della moglie, dieci anni prima.
Clara…
Un lumicino lontano lo riporta alla realtà. Sforza la vista e vede una fiammella brillare in fondo al mare, sotto di lui.
Curioso.
È ora di tirare a bordo le reti. C’è solo un piccolo pesce che si dibatte sul fondo.
Magro bottino.
 “Ti prego, lasciami andare.” Lo supplica con occhi disperati il pesce.
“Lumi in fondo al mare e pesci che parlano, ma che serata!” Esclama il vecchio.
“E perché dovei lasciarti andare, pesce parlante?” Chiede, decidendo di assecondare gli eventi.
“Vuoi la fiamma della giovinezza? Te la posso portare!” Risponde il pesce, speranzoso.
Quella sarebbe la fiamma della giovinezza? Ma non era una fontana?
“Ti posso insegnare come usarla. In cambio mi lascerai andare.” Continua il pesce parlante.
Mah, hai visto mai?
“Affare fatto, portamela qui” risponde il vecchio e lo rigetta in acqua.
Il pesce parlante raggiunge rapidamente il fondo e fa scomparire la fiammella in bocca.
Ancora più rapidamente raggiunge il bordo della barca e gli indica la bottiglia di vino.
Il vecchio capisce, beve l’ultimo sorso e la porge al pesce parlante che la riempie d’acqua di mare e ci soffia dentro la fiammella, che ricomincia a brillare.
“Ecco. Adesso possiedi la fiamma della giovinezza. Per tornare giovane devi berla e sarai di nuovo bello e forte.” Spiega il pesce parlante.
“Bene!” Esclama il vecchio, contento.
“C’è però una regola” continua il pesce.
 Lo sapevo. Arriva la fregatura.
“Non potrai più vedere il mare. Altrimenti la fiamma ne sentirà il richiamo e ti brucerà da dentro, cercando di uscire” conclude.
Beh. Niente mare, niente reti, niente lavoro né pesci. Mi sembra un vantaggio.
Un po’ brillo, guarda la luna riflessa nell’acqua e ne conta i crateri. Sorride.
Poi, senza dire una parola, afferra il pesce e lo getta nuovamente in fondo alla barca, ignorando le sue suppliche. La fiammella esce dalla bottiglia e torna a brillare in fondo al mare.
 Il vecchio getta di nuovo le reti e ricomincia a fissare il riflesso della luna ed i suoi crateri.
Clara…

martedì 31 maggio 2016

Mattia Deidonè – Squali e delfini

L’oceano era casa sua. Libero era cresciuto in un villino a due passi da Bronte Beach e suo cugino Joe l’aveva educato a vela e surf. Da quelle parti le onde erano abbastanza forti, di certo non consigliabili per un bambino di dieci anni alle prime armi. Ma Libero nell’acqua si sentiva al sicuro, e non solo perché aveva le braccia forti di Joe a cui aggrapparsi. Madre di Sydney e padre di Rimini: il mare ce l’aveva nel DNA. Aveva visto molte volte i guardaspiaggia salvare qualche bagnante che si era lasciato sopraffare dalla Bronte Express, la subdola corrente tipica di quella spiaggia. Ma Libero non si faceva impressionare molto facilmente, anzi guardava con sguardo commiserevole i grandi temerari della domenica che, per non affrontare la corrente, se ne stavano tranquillamente a mollo nella piscina d’acqua salata costruita alla fine della spiaggia, circondata da aree picnic, caffè e tutto quanto potesse essere contrario alla vera natura di quel posto. Anche se si sentiva australiano al cento per cento, essendo nato e cresciuto a Sydney, finito il liceo aveva voluto conoscere l’altra metà delle sue origini e se n’era andato a Milano a studiare Marketing e Comunicazione d’Impresa. Era stato uno strazio. Non tanto per l’atteggiamento delle persone, il tempo cupo o la mancanza di spazi verdi in cui respirare aria con la “A” maiuscola. Il suo problema era stato abituarsi a non sentire il profumo dell’acqua salata ogni volta che usciva di casa. Poteva fare a meno dello sciabordio delle onde nel silenzio della notte, e poteva anche non vederlo, il mare, ma l’odore di salsedine era per lui come una droga e dopo una settimana in cui non lo sentiva era già andato in astinenza. Per questo quando poteva si spostava sulla costa ligure o toscana, o dai nonni in Romagna, per poter tornare nel suo ambiente naturale. Si era sempre immaginato come un delfino che lontano dall’acqua lentamente si disidrata e si spegne, ma una volta rimesso a contatto col mare rientra in sé, la sua pelle ritorna lucida e gli occhi riprendono vita. La stessa cosa doveva succedere anche a lui. Finita la laurea, era tornato a Sydney e, non appena il taxi l’aveva accompagnato sulla soglia di casa, non aveva nemmeno voluto entrare per mettere giù le valige, ma aveva lasciato tutto sulla porta e si era lanciato verso la spiaggia. Via la maglietta e via i pantaloni, le scarpe erano già state abbandonate in giardino, si era immerso nella fredda acqua dell’oceano e, sotto lo sguardo divertito dei passanti, correva e sguazzava nell’acqua. Come una bambino che, dopo un lungo giorno di scuola passato seduto su una sedia ad ascoltare in silenzio la sua maestra, può finalmente correre felice e urlare, una volta tornato a casa.
Da quell’esperienza Libero non aveva più voluto separarsi dal mare e, anche allora che aveva trent’anni ed era il delfino di un importante direttore d’azienda, uno squalo dell’alta finanza, non aveva mai perso la spensieratezza che era in lui, genuina e frizzante come la schiuma delle onde.
Quel martedì di giugno stava facendo un’escursione sulle spiagge settentrionali della baia di Sydney. Aveva avuto la fortuna di trovare tre amici che avevano la sua stessa passione per la vita all’aria aperta e non si tiravano mai indietro se c’era da visitare qualche nuovo spazio selvaggio. Ormai in zona era rimasto poco che i quattro non avessero ancora esplorato, ma il bello della natura è proprio quello: quando viene lasciata vivere col suo ritmo è un mutamento continuo e ogni volta che visiti un posto troverai sempre qualcosa di diverso rispetto all’occasione precedente. È solo l’uomo che ha paura dei cambiamenti e tenta di legare cose e persone affinché rimangano uguali per sempre.
Per pranzo si erano fermati a Manly, centro troppo turistico per i loro gusti, ma in cui le occasioni per mangiare bene non mancavano di certo. Ma la spiaggia più frequentata, dopo Bondi, dai cittadini di Sydney era troppo “commerciale” per loro. Volevano qualcosa di più intimo. E lo trovarono a Collins Beach, venti minuti di camminata più a sud. Non la classica spiaggia da vacanze famiglia, lunghissima e stretta con centinaia di persone che si ammassano solamente per rimanere sdraiati a prendere la tintarella. Collins Beach si trova in un’insenatura, circondata da terra incontaminata in cui le rocce e l’ingombrante vegetazione servono da scudo per il resto della civiltà. Oddio, la presenza degli yacht dei visitatori di Manly ormeggiati a qualche centinaio di metri sembrava un controsenso, ma a vederli impotenti, silenziosi e dondolanti mentre seguivano il ritmo delle onde, sembrava che anche loro fossero diventati parte integrante dello spirito della baia. Poco distante c’è un piccolo promontorio, Jump Rock, da cui i giovani si tuffano per dimostrare il loro coraggio. Una sorta di “Game of Chicken” australiano, in cui i modelli James Dean si lanciano pregando di evitare le rocce ai piedi del promontorio. Le autorità avevano installato delle ringhiere per porre fine a quelle pericolose abitudini, ma non era servito a molto. E Libero e i suoi amici, quando erano da quelle parti, non si lasciavano mai sfuggire l’occasione di provare un tuffo da sei metri d’altezza.
Così Libero si lanciò. Mentre stava precipitando nell’oceano, pensò per un nanosecondo alla possibilità che quell’abbuffata di libertà potesse essere l’ultima sensazione della sua vita. Non gli era mai successo prima, non aveva mai considerato che il suo continuo susseguirsi di emozioni forti potesse giungere a un termine, ma quella volta la sua mente si offuscò proprio nel momento più bello. Poi l’impatto con l’acqua, fragoroso e grandioso come sempre, la caduta verso il fondo come un tutt’uno con il mare, e la riemersione da vincitore alla luce del sole. Quei brutti pensieri erano già spariti, ma ora c’era qualcos’altro di strano. Nell’acqua aveva percepito una strana energia, la presenza di qualche misteriosa forza attrattiva. Quando tornò a galla, i suoi amici si stavano sbracciando in maniera insolita. In un primo momento non capì cosa stessero dicendo perché le loro parole erano coperte dal suo respiro affannoso, ma poi, una volta che si fu calmato, capì chiaramente le loro urla. «Shark, shark!».
Libero guardò d’istinto dietro di sé ma non avvistò nulla, si immerse e allora sì, lo vide: un enorme squalo bianco che si avvicinava a lui. Gli sfrecciò accanto, poté sentire lo spostamento d’acqua provocato dal movimento della sua coda, ma l’animale non sembrava essersi nemmeno accorto di lui. O forse non gli dava la minima importanza.
Al contrario della maggioranza delle persone, a Libero lo squalo bianco era sempre piaciuto. Di più, lo stimava. Era il padrone assoluto degli oceani e tutti gli altri animali lo temevano, era lo spauracchio persino dell’uomo che si credeva l’essere superiore della Terra. Rappresentava, ai suoi occhi, la rivincita della natura sull’umanità, il suo monito per farci capire che potremmo anche aver raggiunto il culmine dell’innovazione tecnologica nella nostra breve storia, ma in una lotta corpo a corpo senza altri trucchi la natura selvaggia ha ancora la meglio su di noi, non siamo ancora riusciti a sottometterla. Strano da dirsi per un ragazzo australiano, ma fino ad allora non aveva mai visto uno squalo dal vivo. Nemmeno in un acquario perché si era sempre rifiutato di andare a vedere dei pesci costretti in una gabbia per il piacere di qualche bambino viziato. 
E ora era lì, a pochi passi dal Signore dei Mari. Iniziò a nuotare verso riva, ma non sapeva bene nemmeno lui cosa stesse facendo. I suoi amici continuavano a gridare spaventati e lui non li sentiva. Il suo corpo era mosso dallo spirito di sopravvivenza, mentre la sua mente era attratta dallo squalo, sedotta dall’energia che la sua sola presenza propagava in tutta l’acqua. A un certo punto si immerse nuovamente. Non aveva più visto lo squalo, ma sapeva benissimo che era ancora nelle vicinanze. Anzi, era vicinissimo a lui, lo percepiva chiaramente. Se avesse voluto attaccarlo, la sua nuotata disperata verso riva sarebbe stata inutile, una battaglia ad armi impari. Se doveva morire, voleva almeno guardarlo un’ultima volta e non finire la sua vita scappando. Si immerse e, dopo aver guardato qualche secondo intorno a sé, lo vide arrivare dalla sua destra. Era bellissimo. Non poteva non essere terrorizzato dai denti triangolari che sporgevano dalla sua bocca e che presto l’avrebbero probabilmente dilaniato, ma il suo sguardo lo immobilizzò. Non era lo sguardo assassino di un predatore, era regale e orgoglioso. Lo squalo si stava dirigendo velocemente contro di lui e per un attimo Libero smise di vivere. Quando lo racconta dice sempre che il suo cuore si fermò e che sentì che tutti i suoi organi si erano letteralmente bloccati. All’ultimo momento lo squalo cambiò direzione e passò sotto i piedi di Libero, e questa volta lo sfiorò veramente. Il ragazzo si voltò per vederlo andarsene un’ultima volta e ammirare quella combinazione sublime di eleganza e potenza che si inoltrava verso il profondo oceano. Sapeva che non sarebbe tornato, l’aveva graziato. Riemerse in superficie e nuotò tranquillamente verso la riva, mentre i suoi amici si stavano contorcendo disperati perché non vedevano più lo squalo e Libero stava nuotando con un’andatura da settantenne in riabilitazione. Corsero giù dalla scogliera per andargli incontro e lo trovarono immerso in uno stato estasiato, quasi come fosse stato il testimone di un’apparizione.
Il mattino dopo, prima di andare al lavoro, Libero si fermò a fare colazione in un bar vicino a casa. Sfogliò di sfuggita il giornale e trovò una notizia che lo fece sorridere. Il giorno prima era stata fermata una banda di pescatori di frodo che tentava di catturare squali al largo di Sydney. Le autorità australiane erano intervenute appena in tempo per liberare uno squalo bianco di cinque metri che i pescatori stavano per uccidere. Libero sapeva che era lo stesso squalo che aveva incontrato il giorno prima.
In fondo erano uguali. Amavano tutti e due la libertà e cercavano tutti e due di tenersela stretta in un mondo che invece li spingeva nella direzione opposta. E per il momento ci stavano riuscendo alla grande.

Lorenzo Bianco – La casa sul fondo

La nostra prima casa era la tua: in un vicolo scuro che dalla piazza centrale raggiunge una piccola chiesa, il numero 3, uno stretto giro di scale, un balcone di cemento triangolare, come la prua di una nave. Lo scafo immaginario traversava la forra tra palazzi polverosi, come se lo sguardo navigasse lento in un passaggio stretto, il nostro piccolo canale di Suez.
La luce penetrava una volta sola al giorno, tra le dodici e le dodici e venti, all’ora in cui di sabato ci alzavamo e mettevi la caffettiera sul fuoco.
Dalla balconata si poteva spiare l’interno di un’antica pasticceria, una delle sale, quella dei ricevimenti, dove si era servito il re e dove ora talvolta si espongono quadretti di pittura provinciale con ortensie, azalee, rododendri.
Oggi sono dall’altra parte e dalla vetrata della pasticceria osservo la casa: un cespuglio d’edera si getta dal balcone senza afferrarlo, la nebbia e la luce arancio dei lampioni la rendono misteriosa come se volesse sfuggire allo sguardo.
Prima di te ci viveva una maga che aveva dipinto le pareti di viola, come una canzone di Prince. Tu la ripitturasti tutta a tinte chiare, con un battiscopa azzurro, ghirigori rosa e bellissimi che giravano per le stanze. Nei giorni di pioggia il porpora trasudava dai muri come l’apparizione maligna della strega nelle fiabe. La maga poi - si dice – finì in carcere, probabilmente non per un’errata predizione.
La porta d’ingresso sotto il balcone ha una mezzaluna che la sovrasta e che dà luce alle scale che si attorcigliano brevi fino al primo piano; si entrava poi da una portafinestra sul balcone. Una notte ci addormentammo lasciando le persiane aperte e al mattino sullo zerbino ci scrutava un nano da giardino, ritto sulla soglia. Abbiamo pensato allo scherzo di qualcuno, o che fosse caduto da qualche terrazzino del palazzo di fronte. Nessuno lo reclamò e diventò la nostra mascotte. Mammolo. Da allora lo tengo sempre vicino ai vasi delle piante perché credo sia magico e vegli su di loro. Le piante apprezzano.
Una volta nevicava e siamo usciti di corsa per il vicolo raggiungendo la piazza, io col montgomery blu, tu con la giacca di pelle bordeaux, volteggiavi allargando le braccia – abbiamo ancora le foto – erano anni che non nevicava ma era il primo anno che stavamo insieme. In centro alla piazza, Cavour aveva già un parrucchino gelato e i fiocchi cadevano fitti, come crepitii bianchi su una vecchia pellicola.
La stessa piazza il martedì e il venerdì ospita il mercato, venditori urlano, le signore contrattano; noi ci sedevamo al bar, riparati dal sole, ma deliziati da una brezza leggera che scuoteva le bancarelle e agitava gli abiti appesi facendoli dondolare. Sul fondo della piazza i palazzi e dietro di loro immaginare che ci fosse il mare. Chiudendo gli occhi e concentrandoci, oltre lo sventolare degli ombrelloni, oltre il vociare e le ordinazioni si potevano sentire le onde, prima come un respiro lontano, poi come un ruggito che tracimando i tetti si riversava impetuoso nel nostro vicolo e raggiungeva la piazza. Così giocavamo a inventare il mare nella nostra città che non si affaccia sul mare.
La casa aveva strani rumori, per esempio la caldaia di notte si spegneva e tossiva. Noi dicevamo che era il fantasma della caldaia fantasticando su di lui. Di certo era un fantasma bambino e giocava soffiando sul fuoco cercando di spegnerlo. D’estate dormivamo con la finestra aperta e sentivamo il televisore ad alto volume del vicino sordo del palazzo di fronte.  Spesso le battute dei film notturni, i jingle degli spot, gli sceneggiati si mischiavano con le urla dell’amore  dalla nostra finestra aperta.
La cucina era piccola con il lavello pieno di pentole e piatti, i barattoli in vista, un tavolo stretto e le sedie pieghevoli in legno di moda nei bar di paese. Una libreria disegnava il soggiorno nella stessa stanza, un delizioso divano rosa, usato, degli anni cinquanta, una televisione di pochi pollici ma che includeva il videoregistratore, foto e quadri tuoi appesi dappertutto. Sopra la libreria, per un po’, abbiamo avuto la boccia di vetro di Abramo, prima che abbandonasse l’acqua e in volo si gettasse sul pavimento, nel primo suicidio conosciuto di pesce rosso. Il bagno era piccolo, con la doccia senza vasca e i bagnoschiuma al peperone, zucchero filato e cardamomo. In camera da letto dormivamo in terra su due materassi avvicinati a formare un tatami sfondato ma morbido; al mattino ci svegliava il Titanic, una radiosveglia desintonizzata che rombava come la sirena di una nave che sta per inabissarsi.
La prima volta che sono entrato a casa tua non era con te. Infatti quando mi hai accompagnato e ci siamo entrati insieme, mi veniva da ridere e ti ho spiegato perché solo molti anni dopo. Qualche mese prima che ci conoscessimo ospitavi un amico, che una sera ha voluto ospitare me. Tu non c’eri. L’amico perse immediatamente il mio interesse, perché a incuriosirmi era la casa e di riflesso tu, che eri ovunque.
In cucina c'erano delle foto. Tu che scolpivi e la maglietta che scopriva il bicipite, un tuo primo piano, un autoritratto.
-                     Io ti vedrò per sempre – ad un tratto pensai e avevo ragione.
Chiesi all’amico:
-                     Chi è quello in foto?
-                     E’ quello che abita qui, è biondo, è un artista.
-                     Ah! E poi?
-                     Che cosa “e poi”?
Lui ovviamente non aveva in programma di parlare di te, ma io già sognavo il padrone di casa, scalzo mentre cucinava, o spogliarsi nel bagno, che dormiva.
L'ultima immagine sollevò un quesito:
-                     Dorme dove sei tu?
-                     No, sta dalla tua parte.
Fu l’ultima volta che presi il tuo posto. Grandi crisalidi di vari colori, sculture che tu - a me allora sconosciuto - avevi cucito, si arrampicavano sul muro vicino al letto, fino al soffitto, come presagio di una  vita nuova che stava per schiudersi.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme trovammo una nuova casa con le finestre sul tetto e tanti gatti, vicino al fiume. Dovevamo partire.
Prima di andarcene siamo entrati insieme nella casa spoglia. Avevano portato via tutto.  I mobili , i quadri, le foto avevano lasciato le loro ombre sui muri e così noi.
Diedi un ultimo sguardo alla camera da letto, senza più crisalidi e tatami e libri accatastati a fare comodini.
-                     Io ti vedrò per sempre – pensai.
E anche questa volta fu così. Solo che è come scavare nel profondo: ci si immerge per frammenti, breve immagini, ricordi (bisogna riemergere per brevi boccate di ossigeno) e poi reimmergersi, nuotare, fino a non sentirla più, ma a vederla, la casa lì sul fondo.