martedì 31 maggio 2016

Mattia Deidonè – Squali e delfini

L’oceano era casa sua. Libero era cresciuto in un villino a due passi da Bronte Beach e suo cugino Joe l’aveva educato a vela e surf. Da quelle parti le onde erano abbastanza forti, di certo non consigliabili per un bambino di dieci anni alle prime armi. Ma Libero nell’acqua si sentiva al sicuro, e non solo perché aveva le braccia forti di Joe a cui aggrapparsi. Madre di Sydney e padre di Rimini: il mare ce l’aveva nel DNA. Aveva visto molte volte i guardaspiaggia salvare qualche bagnante che si era lasciato sopraffare dalla Bronte Express, la subdola corrente tipica di quella spiaggia. Ma Libero non si faceva impressionare molto facilmente, anzi guardava con sguardo commiserevole i grandi temerari della domenica che, per non affrontare la corrente, se ne stavano tranquillamente a mollo nella piscina d’acqua salata costruita alla fine della spiaggia, circondata da aree picnic, caffè e tutto quanto potesse essere contrario alla vera natura di quel posto. Anche se si sentiva australiano al cento per cento, essendo nato e cresciuto a Sydney, finito il liceo aveva voluto conoscere l’altra metà delle sue origini e se n’era andato a Milano a studiare Marketing e Comunicazione d’Impresa. Era stato uno strazio. Non tanto per l’atteggiamento delle persone, il tempo cupo o la mancanza di spazi verdi in cui respirare aria con la “A” maiuscola. Il suo problema era stato abituarsi a non sentire il profumo dell’acqua salata ogni volta che usciva di casa. Poteva fare a meno dello sciabordio delle onde nel silenzio della notte, e poteva anche non vederlo, il mare, ma l’odore di salsedine era per lui come una droga e dopo una settimana in cui non lo sentiva era già andato in astinenza. Per questo quando poteva si spostava sulla costa ligure o toscana, o dai nonni in Romagna, per poter tornare nel suo ambiente naturale. Si era sempre immaginato come un delfino che lontano dall’acqua lentamente si disidrata e si spegne, ma una volta rimesso a contatto col mare rientra in sé, la sua pelle ritorna lucida e gli occhi riprendono vita. La stessa cosa doveva succedere anche a lui. Finita la laurea, era tornato a Sydney e, non appena il taxi l’aveva accompagnato sulla soglia di casa, non aveva nemmeno voluto entrare per mettere giù le valige, ma aveva lasciato tutto sulla porta e si era lanciato verso la spiaggia. Via la maglietta e via i pantaloni, le scarpe erano già state abbandonate in giardino, si era immerso nella fredda acqua dell’oceano e, sotto lo sguardo divertito dei passanti, correva e sguazzava nell’acqua. Come una bambino che, dopo un lungo giorno di scuola passato seduto su una sedia ad ascoltare in silenzio la sua maestra, può finalmente correre felice e urlare, una volta tornato a casa.
Da quell’esperienza Libero non aveva più voluto separarsi dal mare e, anche allora che aveva trent’anni ed era il delfino di un importante direttore d’azienda, uno squalo dell’alta finanza, non aveva mai perso la spensieratezza che era in lui, genuina e frizzante come la schiuma delle onde.
Quel martedì di giugno stava facendo un’escursione sulle spiagge settentrionali della baia di Sydney. Aveva avuto la fortuna di trovare tre amici che avevano la sua stessa passione per la vita all’aria aperta e non si tiravano mai indietro se c’era da visitare qualche nuovo spazio selvaggio. Ormai in zona era rimasto poco che i quattro non avessero ancora esplorato, ma il bello della natura è proprio quello: quando viene lasciata vivere col suo ritmo è un mutamento continuo e ogni volta che visiti un posto troverai sempre qualcosa di diverso rispetto all’occasione precedente. È solo l’uomo che ha paura dei cambiamenti e tenta di legare cose e persone affinché rimangano uguali per sempre.
Per pranzo si erano fermati a Manly, centro troppo turistico per i loro gusti, ma in cui le occasioni per mangiare bene non mancavano di certo. Ma la spiaggia più frequentata, dopo Bondi, dai cittadini di Sydney era troppo “commerciale” per loro. Volevano qualcosa di più intimo. E lo trovarono a Collins Beach, venti minuti di camminata più a sud. Non la classica spiaggia da vacanze famiglia, lunghissima e stretta con centinaia di persone che si ammassano solamente per rimanere sdraiati a prendere la tintarella. Collins Beach si trova in un’insenatura, circondata da terra incontaminata in cui le rocce e l’ingombrante vegetazione servono da scudo per il resto della civiltà. Oddio, la presenza degli yacht dei visitatori di Manly ormeggiati a qualche centinaio di metri sembrava un controsenso, ma a vederli impotenti, silenziosi e dondolanti mentre seguivano il ritmo delle onde, sembrava che anche loro fossero diventati parte integrante dello spirito della baia. Poco distante c’è un piccolo promontorio, Jump Rock, da cui i giovani si tuffano per dimostrare il loro coraggio. Una sorta di “Game of Chicken” australiano, in cui i modelli James Dean si lanciano pregando di evitare le rocce ai piedi del promontorio. Le autorità avevano installato delle ringhiere per porre fine a quelle pericolose abitudini, ma non era servito a molto. E Libero e i suoi amici, quando erano da quelle parti, non si lasciavano mai sfuggire l’occasione di provare un tuffo da sei metri d’altezza.
Così Libero si lanciò. Mentre stava precipitando nell’oceano, pensò per un nanosecondo alla possibilità che quell’abbuffata di libertà potesse essere l’ultima sensazione della sua vita. Non gli era mai successo prima, non aveva mai considerato che il suo continuo susseguirsi di emozioni forti potesse giungere a un termine, ma quella volta la sua mente si offuscò proprio nel momento più bello. Poi l’impatto con l’acqua, fragoroso e grandioso come sempre, la caduta verso il fondo come un tutt’uno con il mare, e la riemersione da vincitore alla luce del sole. Quei brutti pensieri erano già spariti, ma ora c’era qualcos’altro di strano. Nell’acqua aveva percepito una strana energia, la presenza di qualche misteriosa forza attrattiva. Quando tornò a galla, i suoi amici si stavano sbracciando in maniera insolita. In un primo momento non capì cosa stessero dicendo perché le loro parole erano coperte dal suo respiro affannoso, ma poi, una volta che si fu calmato, capì chiaramente le loro urla. «Shark, shark!».
Libero guardò d’istinto dietro di sé ma non avvistò nulla, si immerse e allora sì, lo vide: un enorme squalo bianco che si avvicinava a lui. Gli sfrecciò accanto, poté sentire lo spostamento d’acqua provocato dal movimento della sua coda, ma l’animale non sembrava essersi nemmeno accorto di lui. O forse non gli dava la minima importanza.
Al contrario della maggioranza delle persone, a Libero lo squalo bianco era sempre piaciuto. Di più, lo stimava. Era il padrone assoluto degli oceani e tutti gli altri animali lo temevano, era lo spauracchio persino dell’uomo che si credeva l’essere superiore della Terra. Rappresentava, ai suoi occhi, la rivincita della natura sull’umanità, il suo monito per farci capire che potremmo anche aver raggiunto il culmine dell’innovazione tecnologica nella nostra breve storia, ma in una lotta corpo a corpo senza altri trucchi la natura selvaggia ha ancora la meglio su di noi, non siamo ancora riusciti a sottometterla. Strano da dirsi per un ragazzo australiano, ma fino ad allora non aveva mai visto uno squalo dal vivo. Nemmeno in un acquario perché si era sempre rifiutato di andare a vedere dei pesci costretti in una gabbia per il piacere di qualche bambino viziato. 
E ora era lì, a pochi passi dal Signore dei Mari. Iniziò a nuotare verso riva, ma non sapeva bene nemmeno lui cosa stesse facendo. I suoi amici continuavano a gridare spaventati e lui non li sentiva. Il suo corpo era mosso dallo spirito di sopravvivenza, mentre la sua mente era attratta dallo squalo, sedotta dall’energia che la sua sola presenza propagava in tutta l’acqua. A un certo punto si immerse nuovamente. Non aveva più visto lo squalo, ma sapeva benissimo che era ancora nelle vicinanze. Anzi, era vicinissimo a lui, lo percepiva chiaramente. Se avesse voluto attaccarlo, la sua nuotata disperata verso riva sarebbe stata inutile, una battaglia ad armi impari. Se doveva morire, voleva almeno guardarlo un’ultima volta e non finire la sua vita scappando. Si immerse e, dopo aver guardato qualche secondo intorno a sé, lo vide arrivare dalla sua destra. Era bellissimo. Non poteva non essere terrorizzato dai denti triangolari che sporgevano dalla sua bocca e che presto l’avrebbero probabilmente dilaniato, ma il suo sguardo lo immobilizzò. Non era lo sguardo assassino di un predatore, era regale e orgoglioso. Lo squalo si stava dirigendo velocemente contro di lui e per un attimo Libero smise di vivere. Quando lo racconta dice sempre che il suo cuore si fermò e che sentì che tutti i suoi organi si erano letteralmente bloccati. All’ultimo momento lo squalo cambiò direzione e passò sotto i piedi di Libero, e questa volta lo sfiorò veramente. Il ragazzo si voltò per vederlo andarsene un’ultima volta e ammirare quella combinazione sublime di eleganza e potenza che si inoltrava verso il profondo oceano. Sapeva che non sarebbe tornato, l’aveva graziato. Riemerse in superficie e nuotò tranquillamente verso la riva, mentre i suoi amici si stavano contorcendo disperati perché non vedevano più lo squalo e Libero stava nuotando con un’andatura da settantenne in riabilitazione. Corsero giù dalla scogliera per andargli incontro e lo trovarono immerso in uno stato estasiato, quasi come fosse stato il testimone di un’apparizione.
Il mattino dopo, prima di andare al lavoro, Libero si fermò a fare colazione in un bar vicino a casa. Sfogliò di sfuggita il giornale e trovò una notizia che lo fece sorridere. Il giorno prima era stata fermata una banda di pescatori di frodo che tentava di catturare squali al largo di Sydney. Le autorità australiane erano intervenute appena in tempo per liberare uno squalo bianco di cinque metri che i pescatori stavano per uccidere. Libero sapeva che era lo stesso squalo che aveva incontrato il giorno prima.
In fondo erano uguali. Amavano tutti e due la libertà e cercavano tutti e due di tenersela stretta in un mondo che invece li spingeva nella direzione opposta. E per il momento ci stavano riuscendo alla grande.

Lorenzo Bianco – La casa sul fondo

La nostra prima casa era la tua: in un vicolo scuro che dalla piazza centrale raggiunge una piccola chiesa, il numero 3, uno stretto giro di scale, un balcone di cemento triangolare, come la prua di una nave. Lo scafo immaginario traversava la forra tra palazzi polverosi, come se lo sguardo navigasse lento in un passaggio stretto, il nostro piccolo canale di Suez.
La luce penetrava una volta sola al giorno, tra le dodici e le dodici e venti, all’ora in cui di sabato ci alzavamo e mettevi la caffettiera sul fuoco.
Dalla balconata si poteva spiare l’interno di un’antica pasticceria, una delle sale, quella dei ricevimenti, dove si era servito il re e dove ora talvolta si espongono quadretti di pittura provinciale con ortensie, azalee, rododendri.
Oggi sono dall’altra parte e dalla vetrata della pasticceria osservo la casa: un cespuglio d’edera si getta dal balcone senza afferrarlo, la nebbia e la luce arancio dei lampioni la rendono misteriosa come se volesse sfuggire allo sguardo.
Prima di te ci viveva una maga che aveva dipinto le pareti di viola, come una canzone di Prince. Tu la ripitturasti tutta a tinte chiare, con un battiscopa azzurro, ghirigori rosa e bellissimi che giravano per le stanze. Nei giorni di pioggia il porpora trasudava dai muri come l’apparizione maligna della strega nelle fiabe. La maga poi - si dice – finì in carcere, probabilmente non per un’errata predizione.
La porta d’ingresso sotto il balcone ha una mezzaluna che la sovrasta e che dà luce alle scale che si attorcigliano brevi fino al primo piano; si entrava poi da una portafinestra sul balcone. Una notte ci addormentammo lasciando le persiane aperte e al mattino sullo zerbino ci scrutava un nano da giardino, ritto sulla soglia. Abbiamo pensato allo scherzo di qualcuno, o che fosse caduto da qualche terrazzino del palazzo di fronte. Nessuno lo reclamò e diventò la nostra mascotte. Mammolo. Da allora lo tengo sempre vicino ai vasi delle piante perché credo sia magico e vegli su di loro. Le piante apprezzano.
Una volta nevicava e siamo usciti di corsa per il vicolo raggiungendo la piazza, io col montgomery blu, tu con la giacca di pelle bordeaux, volteggiavi allargando le braccia – abbiamo ancora le foto – erano anni che non nevicava ma era il primo anno che stavamo insieme. In centro alla piazza, Cavour aveva già un parrucchino gelato e i fiocchi cadevano fitti, come crepitii bianchi su una vecchia pellicola.
La stessa piazza il martedì e il venerdì ospita il mercato, venditori urlano, le signore contrattano; noi ci sedevamo al bar, riparati dal sole, ma deliziati da una brezza leggera che scuoteva le bancarelle e agitava gli abiti appesi facendoli dondolare. Sul fondo della piazza i palazzi e dietro di loro immaginare che ci fosse il mare. Chiudendo gli occhi e concentrandoci, oltre lo sventolare degli ombrelloni, oltre il vociare e le ordinazioni si potevano sentire le onde, prima come un respiro lontano, poi come un ruggito che tracimando i tetti si riversava impetuoso nel nostro vicolo e raggiungeva la piazza. Così giocavamo a inventare il mare nella nostra città che non si affaccia sul mare.
La casa aveva strani rumori, per esempio la caldaia di notte si spegneva e tossiva. Noi dicevamo che era il fantasma della caldaia fantasticando su di lui. Di certo era un fantasma bambino e giocava soffiando sul fuoco cercando di spegnerlo. D’estate dormivamo con la finestra aperta e sentivamo il televisore ad alto volume del vicino sordo del palazzo di fronte.  Spesso le battute dei film notturni, i jingle degli spot, gli sceneggiati si mischiavano con le urla dell’amore  dalla nostra finestra aperta.
La cucina era piccola con il lavello pieno di pentole e piatti, i barattoli in vista, un tavolo stretto e le sedie pieghevoli in legno di moda nei bar di paese. Una libreria disegnava il soggiorno nella stessa stanza, un delizioso divano rosa, usato, degli anni cinquanta, una televisione di pochi pollici ma che includeva il videoregistratore, foto e quadri tuoi appesi dappertutto. Sopra la libreria, per un po’, abbiamo avuto la boccia di vetro di Abramo, prima che abbandonasse l’acqua e in volo si gettasse sul pavimento, nel primo suicidio conosciuto di pesce rosso. Il bagno era piccolo, con la doccia senza vasca e i bagnoschiuma al peperone, zucchero filato e cardamomo. In camera da letto dormivamo in terra su due materassi avvicinati a formare un tatami sfondato ma morbido; al mattino ci svegliava il Titanic, una radiosveglia desintonizzata che rombava come la sirena di una nave che sta per inabissarsi.
La prima volta che sono entrato a casa tua non era con te. Infatti quando mi hai accompagnato e ci siamo entrati insieme, mi veniva da ridere e ti ho spiegato perché solo molti anni dopo. Qualche mese prima che ci conoscessimo ospitavi un amico, che una sera ha voluto ospitare me. Tu non c’eri. L’amico perse immediatamente il mio interesse, perché a incuriosirmi era la casa e di riflesso tu, che eri ovunque.
In cucina c'erano delle foto. Tu che scolpivi e la maglietta che scopriva il bicipite, un tuo primo piano, un autoritratto.
-                     Io ti vedrò per sempre – ad un tratto pensai e avevo ragione.
Chiesi all’amico:
-                     Chi è quello in foto?
-                     E’ quello che abita qui, è biondo, è un artista.
-                     Ah! E poi?
-                     Che cosa “e poi”?
Lui ovviamente non aveva in programma di parlare di te, ma io già sognavo il padrone di casa, scalzo mentre cucinava, o spogliarsi nel bagno, che dormiva.
L'ultima immagine sollevò un quesito:
-                     Dorme dove sei tu?
-                     No, sta dalla tua parte.
Fu l’ultima volta che presi il tuo posto. Grandi crisalidi di vari colori, sculture che tu - a me allora sconosciuto - avevi cucito, si arrampicavano sul muro vicino al letto, fino al soffitto, come presagio di una  vita nuova che stava per schiudersi.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme trovammo una nuova casa con le finestre sul tetto e tanti gatti, vicino al fiume. Dovevamo partire.
Prima di andarcene siamo entrati insieme nella casa spoglia. Avevano portato via tutto.  I mobili , i quadri, le foto avevano lasciato le loro ombre sui muri e così noi.
Diedi un ultimo sguardo alla camera da letto, senza più crisalidi e tatami e libri accatastati a fare comodini.
-                     Io ti vedrò per sempre – pensai.
E anche questa volta fu così. Solo che è come scavare nel profondo: ci si immerge per frammenti, breve immagini, ricordi (bisogna riemergere per brevi boccate di ossigeno) e poi reimmergersi, nuotare, fino a non sentirla più, ma a vederla, la casa lì sul fondo.

Francesco Buti - Aggrappati ad un'anima in questo grande mare

Era il giorno del suo trentesimo compleanno. A Lorenzo piaceva festeggiare i compleanni e stare in mezzo alla gente. Il fratello e i suoi colleghi di lavoro, gli organizzarono una festa a sorpresa. Cena e poi discoteca. Al mattino, in fabbrica ringraziò tutti gli operai della magnifica sorpresa, anche quelli che non avevano potuto partecipare. Era un tipo di poche parole, ma quando parlava sapeva cosa dire. Lorenzo era laureato in lettere ed era finito a lavorare in fabbrica per colpa della crisi. Lui di lasciare l’Italia proprio non ne voleva sentir parlare. Dopo il lavoro si ritrovava sempre al bar con il suo miglior amico Jago. Jago invece era l’esatto contrario di Lorenzo. Era una persona estroversa e con la sua laurea era riuscito a trovare anche il posto di lavoro. Lavorava in ospedale come infermiere. Jago e Lorenzo erano cresciuti insieme perché erano sempre stati in classe insieme, dalle elementari fino all’università. Lorenzo non aveva una donna fissa da circa cinque anni, mentre Jago era felicemente fidanzato con Sofia da quasi nove anni e stavo pensando anche al grande passo. Ogni sera, davanti ad una birra Lorenzo si sentiva fare da Jago la stessa domanda: ”Hai incontrato la tua ragazza interessante?” e Lorenzo gli rispondeva: “ Me lo hai chiesto ieri sera” e sorridendo gli rispondeva: “Non si sa mai, potresti incontrare la ragazza giusta quando meno te lo aspetti”. Passarono due mesi e nella fabbrica di Lorenzo tra licenziamenti, rinnovi e nuovi contratti arrivò una nuova operaia. La affidarono a Lorenzo per imparare velocemente il da farsi. Si chiamava Carlotta. Aveva 28 anni e anche lei come lui, era finita li per colpa della crisi. Era laureata in marketing e stava cercando di mettere via un po’ di soldi per prendere una seconda laurea o un secondo master all’estero. “Che cosa vorresti fare nella vita?” Le chiese Lorenzo mentre le faceva vedere il lavoro da svolgere: “Non vorrei fare tutta la vita questo lavoro” gli rispose sorridendo. “Neanche io, ma se questo paese non ci da nient’altro. Io prendo questo” le rispose sorridendogli. “Io non mi accontento…”, poi continuò “io mi chiamo Carlotta!”. “Piacere Lorenzo” disse lui. Dopo qualche settimana che erano tutti i giorni spalla a spalla a lavorare cominciarono a conoscersi anche un po’meglio, a capire che non erano poi così diversi. Così un giorno Lorenzo decise di invitarla a cena, visto che un caffè lo prendevano insieme tutti i giorni durante il lavoro. Lorenzo prenotò ad un ristorante non lontano da casa di Carlotta. Uscito dal lavoro andò a prepararsi e poi la passò a prendere. Passò una serata che era tanto tempo che non passava. Poi finito di mangiare, andarono nel centro della città, camminando e continuando a parlare. Ritornando alla macchina, si dettero appuntamento per il mattino seguente. A lavoro. “Come dicevi, che l’amore lo si incontra proprio quando meno te lo aspetti?” scrisse per messaggio a Jago appena rientrò a casa. “L’hai trovato?” gli rispose Jago “Si chiama Carlotta” “Domani mi racconti” rispose l’amico. ”Al solito bar per colazione e ti racconto tutto.” Di buon mattino, davanti ad un caffè e un tramezzino, Lorenzo raccontava a Jago che splendida ragazza stava scoprendo. Jago lo guardava, nei suoi occhi c’era una nuova luce, questa volta sapeva che era la donna giusta da amare. Le uscite con Carlotta si facevano più assidue. Jago invece era qualche settimana che non si faceva vedere al bar. Lorenzo nella pausa pranzo del lavoro, aveva provato a chiamarlo. Senza risposta. Pensò che stesse lavorando. Quindi riprovò la sera quando era con Carlotta. Ancora senza risposta. Erano passati due mesi e da Jago nessuna risposta. Lorenzo venne a sapere da altri ragazzi del bar che era in crisi con Sofia. “Da quanto tempo è in crisi con Sofia?” chiese Lorenzo ad uno di quelli: “Mah, da che so io saranno un paio di mesi, perché te non sapevi niente? Sei o non sei il suo migliore amico?!”. Lorenzo se ne andò sbattendo la porta deciso ad andare a casa di Jago, ma Carlotta lo fermò: “Avrà avuto i suoi motivi, dagli tempo…vedrai che si farà risentire”. Lorenzo abbassò gli occhi e scosse la testa. Sapeva che Jago non si sarebbe mai comportato così. Intanto la storia tra Lorenzo e Carlotta ormai era ufficiale. I mesi passarono e arrivò l’estate. Arrivò il tempo di chiedere le ferie. “Dove andiamo?” chiese Lorenzo mentre era al computer a guardare un po’ di viaggi low cost. “Non lo so. Grecia?” Rispose Carlotta mentre era distesa sul letto con le gambe lungo il muro. “Grecia!”. Prenotò e dopo ancora un mese di lavoro, partirono per la Grecia. Mentre era in aeroporto, Lorenzo ripensò al viaggio con Jago. Fu il primo viaggio fatto loro due, soli. I festini sulle spiagge, le sbronze, i baci con le greche, le spagnole e le italiane. Ripensò al suo silenzio e alla sua assenza. Carlotta gli chiese: ”Che stai pensando?” “A niente, scusa. Gli aeroporti mi mettono tristezza.” Rispose Lorenzo. “Gli aeroporti o Jago ti mette tristezza?” Lorenzo sorrise senza risponderle e la baciò. Quando arrivarono in Grecia era tardo pomeriggio il tempo non era bello e faceva un gran caldo. Decisero di farsi una doccia ed aspettare la cena in albergo. Al mattino, sarebbero dovuti andare a visitare il tempio di Zeus. Mentre la guida mostrava le rovine del tempio vide in lontananza una figura a lui familiare. Poi si disse: “E’ solo il caldo, è il sole!”. Il giorno seguente si spostarono a Santorini. Dopo aver fatto colazione andarono a visitare l’isola. Lorenzo quella persona che vide al tempio di Zeus la vide di nuovo. Era di fronte a lui alla reception. “Jago!” Lo chiamò. Carlotta vide il miglior amico di Lorenzo di cui aveva tanto aveva sentito parlare. Jago si girò lentamente: “Lorenzo! Ma che bella sorpresa! Ma che ci fai qui?” “Io sono in ferie, te invece?” rispose Lorenzo. Presero le chiavi e salirono nelle loro camere senza dirsi nessun’ altra parola. Carlotta vide che l’umore di Lorenzo era cambiato. Provò a chiedergli perché l’incontro con il suo amico lo aveva fatto così arrabbiare. Lui le rispose: “Non sono arrabbiato, sono triste. Mi dispiace si comporti in questo modo.” Lei gli accarezzò la testa: “Lo so che è difficile per te, visto che è il tuo migliore amico. Ma dagli tempo. Avrà dei motivi perché si comporta così anche con te. Il tempo certe volte aggiusta le cose, certe volte invece siamo solo noi che abbiamo bisogno di fermarci. Così Jago.” Sorrise. Decisero di non cenare in albergo. Jago al mattino non si vide e non lo videro per il resto della vacanza. Quando rientrarono in Italia Lorenzo, decise di seguire il consiglio di Carlotta. Quando passava dal bar non chiedeva notizie di Jago. Però sentiva che gli mancava qualcosa. Voleva raccontare al mondo che finalmente era felice. Ed a parte suo fratello, aveva solo Jago. Alle porte si cominciavano ad attaccare gli addobbi per Natale, quando a Lorenzo arrivò un messaggio: “Vorrei parlarti. Questa sera sei impegnato?” era il suo migliore amico. “No” rispose Lorenzo. “Ci vediamo al bar, prendiamo una birra. Alle 21?”. Lorenzo ci pensò un po’ poi gli rispose: “Al bar no. Facciamo alla lavanderia 24 h della Miranda, stasera vado a fare un po’ di lavatrici.” Nella pausa pranzo andò a dire del messaggio a Carlotta. “Che ti avevo detto, aveva bisogno di tempo…”. Dopo il lavoro, mentre Lorenzo si faceva una doccia, Carlotta preparava la cena. Lorenzo portò via i panni da lavare, quelli del lavoro e anche un po’ di biancheria intima. Jago era già arrivato ed era sulla porta che stava fumando. Nessuno dei due disse niente. Nella lavanderia non c’era nessuno, solo il profumo del detersivo che si espandeva in tutta la sua fragranza. Lorenzo prese le ceste con i panni e entrò nella lavanderia lasciando fuori Jago. Dopo pochi istanti lo vide entrare. Si mise a sedere su un tavolino, ma nessuno dei due diceva niente. Appena finito di caricare la lavatrice e infilato il gettone lo guardò: ”Qui c’è da aspettare un po’ che fai mi fai compagnia?” Jago infilò la mano in tasca e gli disse: “Ci fumiamo una sigaretta…”e saltò giù dal tavolino. Lorenzo uscì dalla lavanderia e avrebbe voluto fargli mille domande, ma non disse niente. Accese solo la sigaretta e lasciò la parola a Jago con un gesto della testa. Jago disse: “Mentre venivo qui, stavo ascoltando una canzone di Lucio Dalla” “Non ci vediamo da quanto tempo? E parli di canzoni di Lucio Dalla?”. “Come è profondo il mare. L’hai presente?” “si l’ho sentita” facendo un tiro di sigaretta e spalancando gl’occhi. “E’ come se parlasse un po’ di me, un po’ di noi..” poi abbassando la testa, continuò “ ad un certo punto dice: è inutile, non c’è più lavoro, non c’è più decoro Dio o chi per lui, Sta cercando di dividerci, di farci del male, di farci annegare…” guardandolo fisso negli occhi. Lorenzo face un tiro della sigaretta: “Sei tu che sei voluto annegare. Sei tu che sei sparito…Il lavoro non c’è più?” abbassando la testa Jago gli rispose: “Già oltre a Sofia che se n’è andata ho perso anche il lavoro. Sono sei mesi che non lavoro. Io non sono come te…” Lorenzo sorpreso delle ultime parole: “Che vuol dire come me?” “Si, tu hai un lavoro. Tu hai una donna. Tu hai una casa tutta tua. Tu adesso sei felice. A te questo ti basta.” Lorenzo sorrise e buttando via la sigaretta: “ E a te questo non basterebbe? Quando hai una donna che ti ama, fai un lavoro che ti permette di andare avanti con un tetto sopra la testa. Cosa cerchi? Avere sempre di più senza poterlo condivide con nessuno? Ne’ con una donna, ne’ con la tua famiglia, ne’ con i tuoi amici se ancora ti è rimasto qualcuno…pensaci.” Jago rimase in silenzio. Poi Lorenzo continuò: “Pensaci se ne vale davvero la pena buttare via un’amicizia, un amore o la famiglia per il tuo lavoro che è solo una questione di soldi. La felicità non si compra così…io ho scelto di fare una vita normale, ma felice, ma so che in quella felicità ci rientri anche tu perché sei il mio migliore amico. Pensaci.” Detto questo rientrò nella lavanderia. Jago dai vetri continuò ad osservare Lorenzo che ripiegava i panni. Quando Lorenzo uscì dalla lavanderia, Jago se n’era già andato. Al mattino appena alzato, come primo pensiero fu per il suo amico: “Speriamo Jago si faccia risentire” dando un bacio a Carlotta che stiracchiandosi nel letto: “Buongiorno!” e ricambiando il bacio: ”Lo sai che si farà risentire… ma adesso non ci pensare è domenica”. Dandogli un altro bacio si accoccolarono di nuovo sotto le coperte e suonarono le campane di mezzogiorno. Qualche giorno dopo suonò anche il telefono di Lorenzo. Era Jago. Lo aspettava al bar nel pomeriggio. “Vi siete conosciuti in Grecia, ricordi?” disse Lorenzo quando arrivò con Carlotta all’appuntamento. Jago rise. Parlarono del tempo che Jago si era perso e che ormai non poteva più recuperare. Carlotta lo ascoltava che sembrava quasi incantata su come raccontava di come era finita la sua storia d’amore con Sofia. Lorenzo, lo rincuorò e gli chiese: “Che farai, adesso?” Jago gli rispose sorridendogli “Cercherò la mia felicità, cercherò un altro lavoro e chi lo sa…” poi continuò: ““Hai ragione. Bisogna lottare per quello che amiamo e se quello che amiamo non è sempre possibile ottenerlo bisogna essere felici. Felici come vedo voi due adesso…” Lorenzo guardò Carlotta. Si dettero un bacio sulla bocca. Jago si alzò dalla sedia e canticchiando: “…Com'è profondo il mare, Com'è profondo il mare” Lorenzo si alzò e rise. Si abbracciarono e Jago gli disse: “Grazie di esserci sempre stato. Sei tu la mia ancora in questo grande mare” e Lorenzo canticchiando: “…perché lo protegge il mare, come è profondo il mare”. Risero ancora.

Rosa Romano – Vino e Delfina

Com’è profondo il mare!
La voce espressiva di Dalla invade l’intero spazio quasi a voler scomporre l'immobile puzzle di stelle.

Sulla terrazza del ristorante Marechiaro alcuni clienti celebrano con sussiego il rito della cena e, cullati dal lento sciabordio delle acque, si sforzano di essere felici.
Brindano. 
A cosa non lo dichiarano, forse alla scampata noia, o forse al bisogno di una pausa diversa, da intercalare nel susseguirsi di giornate fragili, affannate, in corsa verso una direzione imprecisa.

Tra questi, seduto al tavolo centrale, uno degli uomini più chiacchierati.  Luigi Lavori, cassa di risonanza e perfetto esecutore dei capricci del capo.
Luigi è un caso esemplare. Figlio di una società che da povera e ossequiosa in un batter d’occhio si è ritrovata smemorata e benestante, si è adattato con facilità al nuovo stato, ma non ha mai smesso di sentirsi povero dentro. E per salvaguardare la temporanea ricchezza ha costruito barriere e confini, da difendere con i denti e con le unghie.
Di fronte a lui c’è Maria la sua giovane compagna. Bella, anzi bellissima, così bella che per diritto di nascita e di avvenenza si aspetta un futuro lussuoso e di successo.

Nella penombra ovattata del ristorante, Il cameriere, in giacca nera e papillon rosso, con discrezione si avvicina ai tavoli, elenca i piatti del giorno, suggerisce e consiglia gli abbinamenti. Racconta di umori, di coltivazioni protette, di vigneti unici per la loro particolare esposizione e di altrettanti particolari conservazioni.
Il cibo è cultura che occorre conoscere.
Il cibo è arte e ben lo sanno i frequentatori abituali. 
Lo sa anche Luigi che però oggi rifiuta ogni aiuto e con un gesto deciso interrompe il cameriere. “Vorrei“, dice, “un pesce, un pescato fresco, meglio se spigola, cucinato al forno, con pochi aromi e tutta la fragranza del mare nostrum". Mentre parla si accende di entusiasmo per le cose che riesce a dire e per la capacità che ha di esprimere un pensiero tutto suo. Non sono desideri del capo questi, ma suoi e sue le considerazioni con cui soddisfatto conclude “Vuole mettere il valore di un pesce del mediterraneo rispetto a un pesce cl he so, pescato nell’oceano indiano, pieno di mercurio e sostanze inquinanti?””
Poi, nell'attesa della spigola mediterranea, si dedica alla sua dolce e bella Maria, figlia di una spezzina e di un siciliano e le regala una rosa rossa, contrattata al ribasso, al marocchino che tutte le sere gira per bar e ristoranti con un mazzo congelato di rose, cercando di guadagnarsi la cena.

Trecento metri più sotto, c’è un via vai indescrivibile. Pesci di tutti i tipi e di tutte le dimensioni, raggruppati in banchi, si muovono verso una fossa dove la corrente sta trascinando i corpi di un barcone affondato la notte prima. I pesci non parlano, ma la notizia è arrivata veloce, e ancora più velocemente si è diffusa. Da banco a banco è passata in un baleno e ora tutti corrono per vedere e accaparrarsi del cibo tra quell’ammasso di corpi sbattuti qua e là.
“Anche se non è granché...”, dicono alcuni cetacei. Questi barconi portano solo gente ossuta, magra e asciutta. Altro non c'è. Si mangia poco, e quel poco è legnoso”.
“Va bene anche così, risponde un argenteo banco di sardine. Quando finiranno i neri, se mai finiranno, non ci resterà molto. L’inquinamento sta distruggendo I fondali, alcuni oceani incominciano a soffrire, con le scorie nucleari e il mercurio. Prima o poi questa sorte toccherà anche al Mediterraneo“.
Mentre il gruppo commenta, discute e ricorda i bei tempi andati quando a fondo ci andavano i bianchi, con le loro ricche e fornite navi crociere, una giovane e giocosa delfina lascia il gruppo per rincorrere un fagotto che la corrente sta sballottando di qua e di là.
Cos'è? si domanda la delfina.  Non può essere una persona, è troppo rotondo, e sempre più incuriosita lo segue. Ma man mano che si avvicina, però, ha l’impressione che il fagotto nasconda un corpo, anche se quella che dovrebbe essere la pancia ha le dimensione di una grosso pallone.
Un istante ed eccolo. E’ così vicino che lo può toccare. La delfina lo guarda di nuovo, gli gira intorno, ispeziona con cura ogni particolare, finché controvoglia ammette che no, non si sbaglia, è’ proprio il corpo di una persona, anzi una donna. Giovane, per lo più, con la pelle e capelli neri,
Usa le pinne per spostarle i capelli bagnati, il viso doveva essere bello, poi le sfiora il ventre, gonfio e rotondo, un mappamondo, più che una palla.
Non le ci vuole molto per capire che quella pancia trattiene un bambino. Morto.
Intanto dietro la delfina sopraggiunge un capodoglio che, avendola vista muoversi in tondo, l’ha seguita; altrettanto fa un piccolo squalo, ed ecco che arriva anche un tonno, inseguito da un banco di spigole.
I pesci si guardano, boccheggiando si parlano.
Pochi fonemi per capire ciò che non serve spiegare, finché, insieme e senza una precisa regia improvvisano una danza, la danza funebre in onore della giovane madre. Le girano intorno, le sfiorano il volto, le labbra nere, il ventre gonfio, battendo le pinne a tempo di nenia cantano la ninna nanna del mare. Qualche spigola inciampa nei resti della veste, quasi si arrotola dentro, ma nessuno osa toccare la donna.
“Che tristezza” dice la delfina ad un tratto. “Portiamola giù nell’abisso, veneriamola, come fanno gli uomini con il Cristo del Mare”.
“Ma è una femmina!” dice lo squalo.
“E allora sarà la Madonna Nera degli affondati”

Il cameriere, con religioso sussiego, versa poche gocce di vino e le porge a Luigi perché proceda all’assaggio. Lui porta il bicchiere alle labbra, anche se in verità non è un vero amante dei vini.
Ma deve. Il ruolo e la società in cui è stato catapultato lo esigono.
Maria intanto giocherella col cellulare. Facebook. Scorre veloce i vari post, trattano tutti di cibo, moda e aforismi. Cerca informazioni su provini, spettacoli e selezioni televisive, quand’ecco una foto. Come le sia capitata non si può sapere, certo è una foto diversa da quelle che lei e i suoi amici hanno il vezzo di condividere. Non esalta bellezze né lusso, ma racconta un fatto di miseria e commozione.
Un uomo bianco di mezza età, medico volontario a Lampedusa, crocevia di disperazione e solidarietà, stringe tra le braccia una bambina di colore.  E sotto lo stralcio di un articolo.
Nel barcone sono seicento, il barcone si rovescia e affonda, alcuni muoiono, più di cinquecento sono tratti in salvo a Lampedusa, e poi c’è anche la piccola: ha nove mesi, la mamma è morta, la piccola è sola. Ha nove mesi: un piccolo corpo che si teneva stretto al grande ma scavato corpo della madre per proteggersi.

Aggrappata alla mamma con le braccine di una bimba di nove mesi, nell’incavo del seno e delle braccia e del ventre, con uno scialletto sulla testa, con il latte della madre se ancora la disperazione glielo faceva avere, senza capire e senza chiedere, i bambini e le bambine di nove mesi non fanno domande: ti guardano e si stringono a te in cerca di amore. E ora è sola, la piccola Favour...” .

Maria legge, all’inizio è incuriosita, poi qualcosa la irrita e con un certo fastidio passa oltre.
Che c’entra questo? Dice a se stessa, come se la foto, svelando una realtà a lei sconosciuta, arrivasse di colpo a disturbare il suo mondo di celluloide e di sogni. Via, via, non è questo ciò che lei va cercando, ma quel qualcosa che l’aveva irritata non smette di pungere, anzi, s’incunea di più tra la sua mente e i suoi occhi. Non serve andare oltre, quegli occhi fissi di bimba la rincorrono.
E così torna indietro, cerca il post con il medico e Favour, la bambina. Rilegge e bisbiglia.
Nove mesi, la madre è morta, terribile, come farà? e perché poi?  E mentre si fa la domanda dice di no con il capo e stringe strette le labbra.
Luigi la vede e si rabbuia.
“Che c’è? Brutte notizie? “.
“No, guardavo questa bambina…. Risponde Maria e gli porge il cellulare con la foto e l’articolo.
“Hai visto cos’è successo? Poveretta! Ora è orfana…” continua.  
Luigi, guarda, legge si e no poche righe, poi scuote la testa.  “E allora? Che c’è di strano? Ormai succede sempre più spesso” risponde.
Poi, senza aggiungere altro, riempie di vino il bicchiere e lo ingoia tutto d’un fiato. 

lunedì 30 maggio 2016

Fabiola Ferrandi - Pezzi di mare

Sapete c’è una domanda che mi attanaglia sin dalla prima volta che ho visto dai mille colori e sfumature, molte impercettibili per un occhio non allenato.
La domanda potrà sembrarvi stupida o infantile, basterebbe cercare sui libri od i motori di ricerca, dipende dal metodo che preferite. Eppure a volte questa domanda mi ha salvato, mi ha fatto tornare ad essere sereno, mi ha tratto in salvo dalle maree di ricordi spiacevoli, dia rimpianti, dai dubbi che attanagliano ogni uomo quando è solo.
In tanti anno non ho mai avuto una risposta completa, ma sempre frammenti, pensieri da incollare e da assemblare.
La mia ricerca cominciò un giorno, mi ricordo solo che era Maggio e faceva vagamente caldo per essere primavera, non ricordo esattamente dov’ero diretto, ricordo soltanto che c’era qualcosa dentro di me che mi spingeva all’avventura, a salpare verso l’orizzonte, a spingermi in mare.
Era più forte di me, ogni fibra del mio essere voleva andare in mare, ognitempo era buono, ogni mese era ideale per navigare se fosse dipeso da me, ma il capitano preferiva fermarsi d’inverno e non sfidare oltre il volubile mare che in inverno assomigliava sempre di più ad una donna ed è così che la chiamano tutti gli uomini di mare “La mia donna”:
Ed è ad essa che loro si affidano, sperando di tornare ogni volta o di rincasare tutti interi con tutti i pezzi al loro posto.
Mi sono affidato anch’io a lei molto spesso e l’ho pregata di essere un’amante clemente e benevola, cosa che generalmente ha fatto.
Come tutte le donne è stupenda ed è difficile stargli lontano, per molti è un dramma tornare a terra, per molti è liberazione andare in mare e se non fosse per le provviste starebbero sempre lontano dalla costa, per me è si una sofferenza mache poi svanisce quando mi rimetto fra le sue braccia schiumose dai mille colori.
Fra esse ho visto cose fantastiche, difficilmente comprensibili se espresse solo a voce, o tramite immagine. Io stesso ho avuto il piacere di ammirare spettacoli che ora è possibile vedere solo al largo, lontano dalla confusione, dall’andirivieni di quelli come me, dalle luci che progressivamente sono sempre più aumentate durante questo periodo.
Ho potuto assistere ad eventi straordinari come alle piogge di stelle cadenti, alla rotazione dei pianeti e al loro allineamento, ho ammirato la vita lattea abbracciare e accarezzare questo piccolo pianeta pieno di distese d’acqua, sulle quali è piacevole scivolare lenti verso un punto imprecisato delle mappe.
Una volta mi è sembrato di vedere una sirena, aveva gli occhi blu e luminosi come l’immenso mare di cui faceva parte, quel meraviglioso e poco esplorato mondo così profondo e alieno di cui ho potuto raccogliere solo dei frammenti, gli stessi che sbattevano contro la mia chiglia, quelli che dolcemente accarezzavano la mia pelle di duro metallo, almeno fino a quando ero giovane.
Il mio nome è Vecchio Lupo Di Mare e come tale ora giaccio in un parco nautico in un luogo lontano da ogni distesa d’acqua salata, lago o fiume; eppure quella domanda continua ad attanagliarmi e a rimbombare nelle parti più remote del mio essere: Ma quanto è profondo il mare?

Beatrice Massaini – Il centro del disegno

Caro diario,
dopo tre giorni di tentennamenti e paure, tre giorni in cui non ho fatto altro che starmene chiusa nella mia cabina a rimuginare, finalmente ho preso il coraggio a due mani e sono uscita. “Anna” mi sono detta guardandomi nello specchio “dopo tutto il daffare che ti sei data per ottenere il biglietto per questa nave, dopo che hai smosso mari e monti e hai dovuto anche vendere l’anello di fidanzamento della tua povera mamma per racimolare la somma necessaria, non puoi, semplicemente non puoi pensare di fare tutto il viaggio standotene rintanata qui. E’ ora di agire, santo cielo!”
E così l’ho fatto. Mi sono vestita di tutto punto, mi sono truccata, mi sono acconciata i capelli come meglio potevo e poi sono scesa nel grande salone a cenare.
Oh, caro diario, vorrei che tu avessi visto la sontuosità di quella sala, l’eleganza di quei tavoli riccamente imbanditi, perfino nel mio stato d’animo alterato non ho potuto fare a meno di ammirarli. E poi la cortesia con la quale sono stata accolta. Pensa che, al mio ingresso, un maitre impettito come un generale mi ha accompagnata al tavolo e poi  ha scostato la sedia per farmi accomodare. Scostato la sedia, hai capito? Scostato la sedia a me! Confesso che mi sono sentita una vera regina, dato che mio marito a casa è già tanto se tiene la porta aperta per farmi passare e quindi non sono abituata a simili gentilezze.
Quanto al menù poi … cosa dire? Un elenco di portate dai nomi esotici e misteriosi, composte da ingredienti di cui non sospettavo nemmeno l’esistenza. Te lo devo proprio confidare in quel momento ho provato un po’ di imbarazzo, perché non sapevo davvero cosa scegliere. Dopo però, ho sbirciato i miei vicini di tavolo (una donna anziana alla mia destra e un uomo più o meno della mia età alla mia sinistra) e ho visto che stavano degustando con evidente soddisfazione delle ostriche e allora le ho ordinate anch’io, anche se non ero sicura che quelle cose mollicce e grigie mi sarebbero piaciute.
Ecco è stato qui che il mio stato d’animo ha cominciato a cambiare, cambiare in peggio voglio dire, perché il cameriere, dopo aver preso la mia ordinazione, mi ha rivolto un breve  inchino ed è stato quel gesto deferente, e per me del tutto inusuale, a mostrarmi la follia di questo viaggio, a far sì che l’incantesimo cominciasse a svanire.
“Cosa ci faccio qui?” ho preso a domandarmi, sentendomi un po’ una truffatrice che agisce sotto mentite spoglie “Le donne come me non sono fatte per i saloni sontuosi, le donne come me non pasteggiano a ostriche e champagne e, soprattutto, non ricevono inchini. Le donne come me se ne stanno a casa ad aspettare che il loro uomo faccia ritorno. Tranquille, paciose e grate al destino per la vita monotona e priva di scosse che conducono. Però … se le donne come me continuano a sentire sui suoi vestiti il profumo di un’altra? Se scoprono tracce di rossetto sulle sue camice? Se trovano due biglietti per una nave nascosti in una tasca interna della sua giacca? Allora cosa fanno?” “Non questo” mi ha alitato una voce nell’orecchio “Non questa pazzia”.
Ho scrollato le spalle e ho cominciato a guardarmi in giro, anche se avevo paura di quello che i miei occhi avrebbero potuto mostrarmi. Il mio sguardo è scivolato tra i tavoli, ha sfiorato le scollature delle belle signore ingioiellate, ha vagato tra gli uomini eleganti che le accompagnavano, pregando e sperando di essermi sbagliata, ma in fondo al mio cuore io lo sapevo che l’avrei visto, lo sapevo che lui era lì. E infatti eccolo, seduto all’altro capo della sala, il mio bel marito che non mi guardava e non mi toccava più da mesi, il mio bel marito che non cercava più nemmeno scuse per giustificare le sue lunghe assenze e che adesso se ne stava lì, avviluppato come un serpente boa, a una ragazza che avrà avuto la metà dei suoi anni.
In quel momento tutto quello che mi stava intorno è diventato inconsistente e vano e una grande stanchezza si è impossessata di me. Inadatto il mio cuore a pompare sangue e vita nelle vene, inadatte le mie dita a reggere le posate che brandivo.
Per dissimulare il loro tremore mi sono nascosta le mani in grembo mentre,  con apatico disinteresse,   ascoltavo i miei commensali parlare degli argomenti più disparati, dal cibo al tempo, dalla comodità delle cabine ai motivi che li avevano spinti a intraprendere questo viaggio. Oh cielo, come diventa molesta e prolissa la gente quando comincia a parlare di sé stessa! Nessuno di loro si è reso conto di quale castigo fosse per la mia anima sconvolta ascoltare i resoconti delle loro vite spensierate e appaganti. Non se ne è accorta la vecchia signora che mi sedeva accanto, che è andata avanti per mezz’ora a parlare della sua allegra vedovanza  e del fatto che adesso si godeva l’eredità girando il mondo, né i due sposini innamorati e felici in viaggio di nozze, per non parlare dei due coniugi che avevano ricevuto il biglietto in regalo e che erano stati fino all’ultimo indecisi se partire o meno, perché il loro bambino era raffreddato e non erano sicuri se i nonni, ai quali lo avevano affidato, si sarebbero presi cura di lui in modo adeguato. 
Caro diario, non ti so dire quanto si sono dilungati quei due con la faccenda del bambino. Neanche fossero stati gli unici esseri sulla terra che avessero mai procreato. Il nostro bambino di su e il nostro bambino di giù, il nostro bambino così bello, così intelligente, così perfetto.
Ti giuro che avrei dato tutto quello che possedevo perché la smettessero, ma è più facile fermare un fiume in piena che due genitori orgogliosi, quando parlano del proprio figlio e così sono andati avanti ancora e ancora, fino a concludere (probabilmente per mancanza di fiato) con un trionfante “Bisogna provare a essere mamma per capire” da parte di lei.
L’ho odiata, so che non avrei dovuto, ma l’ho odiata, un po’ per la sua presunzione, un po’ per l’invidia che mi ispirava  e molto perché le sue parole mi avevano colpita diritta al cuore
 Sì., lo so, quello non era il momento per mettermi a rivangare dei fatti tanto tristi. Ero già abbastanza infelice di mio senza bisogno di caricarmi di ulteriori angosce, ma le immagini sono emerse dal posto buio dove le avevo seppellite e mi hanno circondata come tanti fantasmi cattivi e non è servito a niente serrare le palpebre strette, strette, l’ho visto lo stesso quel bambino minuscolo e pallido che è nato  troppo presto e che troppo presto è volato via e li ho sentiti ugualmente i medici che mi toglievano ogni speranza, che mi dicevano che c’erano state complicazioni durante il parto e che non ci sarebbe mai più stato nessun bambino dentro di me.
Io non sono una persona fortunata, caro diario, non so se te ne sei già accorto.
Comunque,  per tornare alla cronaca della mia serata, ti dirò che, a quel punto ho capito che non sarei potuta restare a quel tavolo nemmeno un minuto in più. Mi sentivo soffocare e avevo un disperato bisogno di aria,  così mi sono alzata di scatto, ho biascicato a mezza voce delle scuse e mi sono precipitata fuori dalla sala.
Non so se fossero stati quei brutti ricordi a scatenare la mia reazione, ma mi sentivo come se fossi stata in preda a un raptus “Il ponte” continuavo a dirmi ansimando “devo salire sul ponte ”. Forse pensavo davvero che, ritrovarmi in uno spazio aperto, avrebbe dato pace alla mia anima angosciata, invece, una volta che ci sono arrivata, mi sono sentita più sola e depressa di quanto già non fossi.
“Qual è il mio posto nel mondo?” ho cominciato a pensare mentre fissavo la volta stellata “Dov’è la mia collocazione esatta? E’ su questa nave? E’ a casa ad aspettare un uomo che non vuole tornare? Oppure da nessuna parte? Ma allora se non c’è un posto per me da nessuna parte … se non c’è …”
La profondità del mare sembrava chiamarmi “Basterebbe niente” mi sono detta “un tuffo a testa in giù, qualche breve istante di terrore e poi la pace, finalmente”.
Non ho dato seguito alla mia tentazione, naturalmente (questo lo puoi evincere anche dal fatto che sono qui a scrivere) e, lo vuoi sapere? Ho fatto bene a non farlo.
Tutti quelli che hanno in animo di compiere un gesto disperato dovrebbero aspettare, dare modo al destino di mostrare loro il suo lato più benigno.
Come è successo a me poco dopo. Quando ormai ero tornata nella mia cabina e l’uomo che mi sedeva accanto a tavola, l’uomo di cui, durante la cena, avevo avuto modo di apprezzare l’educazione e la riservatezza, è venuto a bussare alla mia porta.
“Credo che sia sua questa” mi ha detto porgendomi la borsetta da sera che, nella concitazione del momento, avevo dimenticato sul tavolo. Mormorando un ringraziamento ho allungato la mano per afferrarla e  forse è stato il momento particolare che stavo vivendo (devo pensare che sia stato quello perché in vita mia, te lo giuro, non ho mai avuto pensieri simili) però, sfiorando le sue dita, ho cominciato a immaginare a come sarebbe stato toccargli altre parti del corpo, e poi ho pensato anche che lui aveva un bel sorriso, uno sguardo affascinante e dei modi gentili.  
Così gli ho sorriso a mia volta, l’ho invitato a entrare e …
Insomma ne avevo bisogno caro diario, avevo bisogno di contatto umano, avevo bisogno di un po’ d’amore e, più di tutto, avevo bisogno di sentire che qualcuno mi voleva, che c’era ancora chi apprezzava questo mio corpo rifiutato e offeso.
Certo, lo so benissimo che questa esaltazione non durerà, che non supererà la prova del giorno dopo, quando ci  sveglieremo, ci guarderemo in faccia e scopriremo che siamo solo due estranei che hanno condiviso dei bei momenti, però questa esperienza mi è servita. Mi ha fatto riguadagnare un po’ dell’autostima perduta, e questo non è poco.
Adesso lui sta dormendo nel mio letto, io invece non ci riesco, troppi i pensieri che mi attraversano la mente, troppi i programmi per il futuro che mi sono messa a elaborare.
Ho deciso caro diario, non appena tornerò a casa lascerò mio marito. Non penso che lui mi creerà problemi, vista la situazione attuale. Anzi, sono abbastanza convinta che sarà ben felice di liberarsi di me.
Dopo andrò a vivere in campagna e mi godrò la pace e il silenzio. Ho una piccola rendita, lasciatami dai miei genitori. Non moltissimo, ma più che sufficiente per mantenermi se ci sto attenta, senza contare che potrei anche tirare fuori il mio polveroso diploma da maestra e, perché no? Mettermi a lavorare in qualche piccola scuola di paese.
Lo vedi caro diario come va la vita? Un momento prima sei tanto disperata da pensare di farla finita e, un momento dopo, sei felice e grata al destino per averti messa in grado di dipingere  quello che sembra un disegno perfetto.
Eppure …
Eppure c’è qualcosa che mi pungola il fondo dell’anima. Forse una macchia nera proprio al centro del disegno. Probabilmente sarà l’abitudine alla sfortuna che mi rende diffidente, che non mi consente di godere appieno di questo momento di entusiasmo, ma il fatto è che, poco fa, ho avuto una specie di visione.
Mentre cercavo di immaginare il futuro, nella mia mente non sono apparsi  prati o alberi, né cespugli fioriti o linde casette coi tetti rossi. No, è qualcos’altro quello che ho visto, qualcosa di vasto, gelido e liquido che si chiudeva sopra la mia testa.
Sì, lo so che sono tutte sciocchezze e che domani ne riderò, ma è stato orribile osservare quel mare nero dalle profondità abissali inghiottirmi. Tuttavia, dopo ci ho ragionato su e mi sono tranquillizzata. Voglio dire, questa non è una nave qualsiasi, no? Questo è il Titanic, la nave più sicura del mondo.
E allora cosa mai mi potrebbe capitare?

domenica 29 maggio 2016

Patrizia Braghiroli - Non hai visto ancora niente

Per quante ore avevo dormito?
Girandomi verso il comodino, avevo afferrato il cellulare e visto sul display  una serie di asterischi. Avevo provato a spegnerlo e riaccenderlo, a scuoterlo, ma lo schermo era annerito del tutto. Non intendevo lasciarmi innervosire da quel guasto imprevisto, e avevo deciso che me se ne sarei occupata nel pomeriggio.  
Dagli scuri accostati filtrava un raggio di luce costellato da un pulviscolo dorato in lento movimento. Con un gesto rapido avevo spalancato la finestra e spinto le ante: il mare, intravisto fuggevolmente quando avevo parcheggiato l’automobile e scaricato i bagagli, si allargava a perdita d’occhio nella sua perfezione turchese.                                                                             
Immediatamente l’impulso irrefrenabile di immergermi, galleggiare e diventare una sola cosa con l’acqua, si era impadronito di me.
La valigia aperta stava sul pavimento, accanto al letto. Frugando tra gli abiti, avevo individuato il costume da bagno e un prendisole di lino bianco. Avevo quindi buttato nel borsone un asciugamano, la crema solare, e mi ero affrettata ad uscire incamminandomi verso la spiaggia.
Avevo notato con un certo stupore che in giro non c’era nessuno e non si udiva alcun rumore. Il silenzio era però a tratti interrotto da un suono tintinnante e, seguendo la crescente intensità di quelle note per rintracciarne la provenienza, mi ero trovata di fronte al bungalow della reception. Mentre me ne stavo in attesa davanti al bancone dell’ufficio deserto, il tintinnio era ripreso. Scrutando l’interno, avevo scorto sul fondo della stanza, accanto alla finestra, una sorta di trespolo con appeso un sonaglio a vento, formato da sottili bastoncini metallici. Il suono era ammaliante, quasi ipnotico, e avevo avvertito un forte stordimento che sembrava annullare ogni mia percezione.                                          Riscuotendomi da quello strano torpore, avevo osservato un particolare che suscitava in me perplessità: sulla parete di fronte al bancone era collocato il pannello che conteneva in ordine numerico le chiavi degli alloggi, ma risultava vuoto solo lo spazio occupato da quella del mio monolocale. Eppure ero certa di avere incrociato all’arrivo numerose persone che scaricavano i bagagli. Si dovevano forse riconsegnare le chiavi ad ogni uscita?                 
Lasciando l’ufficio, il mio sguardo aveva ancora vagato a trecentosessanta gradi  in cerca di un essere umano. Congetture assurde stavano prendendo forma nella mia mente, ma avevo deciso di riprendere il percorso verso la spiaggia, cercando di ignorare la sottile inquietudine che si era insinuata in me.   
Dopo aver sceso una gradinata formata da pietroni irregolari, avevo seguito un sentiero tra i pini marittimi, che svettavano imponenti e rassicuranti. Respirando a fondo il profumo di resina mischiato a quello della salsedine, mi ero lasciata pervadere dall’entusiasmo quasi infantile dell’imminente incontro con il mare.
Alla fine del percorso, il mio sguardo aveva abbracciato l’intera estensione della distesa d’acqua: le sfumature di colore, dal verde all’azzurro, si proponevano in una nuova variante dove la linea dell’orizzonte tracciava il confine d’inizio del cielo, perfettamente terso. Avevo accelerato il passo, avvertendo la sabbia morbida sotto i piedi, e mi ero seduta in estatica contemplazione. Poco alla volta il  respiro si era sincronizzato con il ritmo della risacca e la mia mente si era placata. 
Trascorso qualche minuto, un rumore mi aveva fatto trasalire. Avevo voltato la testa, emergendo a fatica da quella dimensione meditativa, e nel mio campo visivo si era materializzato un uomo. Mentre avanzava, avevo notato stretta nella sua mano destra una valigia di cartone: ad ogni movimento urtava la sua gamba, producendo il rumore che aveva attratto la mia attenzione. Giunto ad un passo da me, si era bloccato scrutando a lungo il mare, poi aveva posato la valigia e si era seduto a gambe incrociate.    
Era la prima persona che irrompeva in quella mattina di solitudine misteriosa e compatta, occasione concreta per avviare una conversazione, ma non riuscivo a fare altro che osservare ogni dettaglio del suo aspetto. Indossava un paio di jeans tagliati sopra al ginocchio e una maglietta bianca con la scritta Lifeguard. Poteva avere all’incirca quarant’anni, era molto alto e abbronzato. I capelli neri, mossi dalla brezza leggera, gli sfioravano le spalle, e con un gesto rapido li aveva legati raccogliendoli sulla sommità del capo. Quando si era girato verso di me, avevo incontrato i suoi occhi dal taglio orientale, supponendo per questo che fosse straniero.
<Riesci a sentire le parole del mare?> mi aveva chiesto all’improvviso.
La domanda inattesa, così particolare, mi aveva colta alla sprovvista, tanto che mi ero sentita in imbarazzo, e lo avevo fissato continuando a tacere.
< Eppure so che per te rappresenta qualcosa di speciale. Sei qui per questo motivo in fondo, per consacrare davanti ad esso un nuovo inizio.>
Dopo quelle parole, mi ero sentita disorientata. Annaspavo, cercando nella mia mente appigli razionali che potessero motivare la sua strana affermazione e un approccio tanto insolito.
< Perché mi dici queste cose? Chi sei?> gli avevo domandato cercando di dissimulare il mio disagio.
Invece di rispondere, lo sconosciuto aveva cominciato ad armeggiare con i ganci della valigia e, dopo averla aperta, ne aveva estratto un voluminoso album da disegno, alcune matite e dei sassi bianchi. Quindi aveva sollevato l’album mostrandomi la copertina. Al centro c’era una scritta: La  Storia.
<Sfoglialo > mi aveva detto porgendomelo.
Con l’album posato sulle gambe, avevo cominciato a girare le pagine. Mi ero subito soffermata ad ammirare il primo disegno, una gigantesca conchiglia a forma di spirale che occupava tutto il foglio. Mentre ne percorrevo affascinata il perimetro con il dito, lui mi aveva sorriso.
<Bella, vero? È un’ammonite, un mollusco estinto milioni di anni fa.
Possiamo dire che tutto il mondo allora era energia dirompente in costante evoluzione, una sorta di armonia pura non ancora contaminata dalle azioni dell’uomo. Per questo viva, piena di potere e magia.>
Ascoltando le sue parole, mi ero chiesta se fosse un pazzo, oppure un artista dai pensieri molto eccentrici.
<Sei un illustratore?> avevo chiesto.
<Più che altro osservo l’esistenza e ne fisso alcuni particolari salienti. E’ il mio compito.>
C’era qualcosa in lui che mi spiazzava, perciò avevo preferito tornare a sfogliare le pagine concentrandomi sulle immagini, che sembravano seguire un ordine  cronologico in cui avevo iniziato ad orientarmi. I disegni, tutti rigorosamente in bianco e nero, ritraevano scene che risultavano accomunate dal medesimo filo conduttore. C’erano schiavi frustati durante la costruzione di una piramide, soldati romani riversi su un campo di battaglia, cavalieri medievali che si protendevano con le spade sguainate nell’atto di attaccare: potevo riconoscere il susseguirsi delle varie epoche storiche esaminando le fogge degli abiti e delle armature. Ma in una successiva immagine avevo scorto un ammasso di corpi nudi dentro ad una fossa, perciò mi ero girata verso di lui con aria interrogativa.
<Ebrei trucidati ad Auschwitz> aveva risposto in tono severo. <Guarda questa adesso.>
C’erano uomini e donne, addossati ad un muro ricoperto di graffiti, che tentavano di arrampicarsi aiutandosi l’un l’altro. Alcuni brandivano martelli o picconi, e lo stavano demolendo.
<Muro di Berlino, forse?> avevo azzardato.
<Sì, brava. L’uomo divide, uccide. Mi chiedo perché la pace e la libertà debbano passare attraverso l’esperienza della guerra e della violenza per essere apprezzate. Confini da difendere, religioni per esercitare il potere sugli altri. Dio ha molti nomi, ma  una sola essenza, e non ha nulla a che vedere con la soppressione della vita.>
<E questa?> gli avevo chiesto indicando un altro disegno in cui c’erano corpi accatastati in uno spazio angusto.
<Cadaveri nella stiva di un barcone recuperato al largo di Lampedusa, uno dei tanti. Questa è La storia. Ma anche tu sei La storia, con le tue scelte, le tue azioni. Che bilancio puoi fare della tua esistenza?>
Avevo abbassato il capo, avvertendo un’ inquietudine crescente e il forte impulso di fuggire.
<Aspetta> mi aveva detto scegliendo uno dei sassi bianchi che aveva tolto dalla  valigia. <Prendilo, è per te> e me lo aveva appoggiato sul palmo. Quindi si era allungato verso l’album e, sfogliandolo velocemente, mi aveva indicato l’ultima immagine: c’era una donna seduta sulla sabbia, con un braccio teso verso il mare e un sasso bianco posato sul palmo. Con stupore avevo riconosciuto le mie sembianze e mi ero sentita sconcertata, incapace di comprendere cosa stesse accadendo.
<Ecco, adesso chiudi gli occhi. Puoi sentire l’anima della terra pulsare dentro la pietra? È una parte dell’energia dell’universo. Anche tu le appartieni, ed ora puoi ricongiungerti ad essa.>
<Cosa sta succedendo?> avevo gridato con la voce incrinata lasciando cadere il sasso.
<Alzati> mi aveva ordinato tendendomi la mano.
Stringendola con titubanza, mi ero messa in piedi e avevo iniziato a camminare con lui sulla spiaggia per un lungo tratto, piangendo sommessamente.
<Ora voltati, guarda a terra> aveva detto.
Girandomi avevo scrutato la sabbia, e mi ero accorta che i nostri piedi non avevano lasciato alcuna impronta.
<E questo cosa significa? Sto sognando, vero?> avevo chiesto allarmata, continuando ad osservare con stupore l’assenza di tracce sulla battigia.
<Bentornata a casa> aveva risposto. <Prima sognavi, dormivi. Ora sei sveglia.>  Poi, trascinandomi verso il mare, si era fermato un istante mettendosi dietro le mie spalle, e mi aveva coperto gli occhi con le mani.
<Non hai visto ancora niente> mi aveva sussurrato. <Ma ti stupirai, e sarà bellissimo. Tutto comincia adesso.>   
Asciugandomi le lacrime, mi ero lasciata condurre fra le onde. Quando l’acqua stava per sommergermi, avevo lasciato la sua mano, e mi ero abbandonata all’abbraccio del mare cominciando a galleggiare. Mentre il sole, come un diamante abbacinante incastonato nell’azzurro, pervadeva il mio sguardo, mi ero sentiva di nuovo afferrare la mano. Facendo ruotare il mio corpo, avevo infilato la testa sott’acqua e ci eravamo inabissati.
Guizzando velocissimi in quella dimensione liquida, avevo sentito la nostra essenza fondersi. Tutto era moto incessante, tra meraviglie acquatiche e respiri di corallo. E noi soltanto anime blu, in una discesa senza limiti, verso il fondo che non avremmo mai incontrato. Perché l’infinito abita chi lo cerca.

Stefania Paganelli - A voi che amate il mare…

Lena vagava tra le stanze della casa. Quella casa che amava tanto, adesso era sua.
“La casa e tutto il contenuto vanno alla mia cara nipote Lena Laudati” questo diceva il testamento. La ragazza era grata alla zia per questo dono inaspettato, ma non sapeva come fare. La villetta aveva bisogno di lavori urgenti. Il tetto era pericolante da tempo e l’impianto elettrico andava rifatto.
“Vendila” le dicevano tutti “i lavori sono troppo costosi, non te lo puoi permettere”.
Non sarebbero mancati di certo i clienti. La villetta era vecchia, ma la sua posizione invidiabile.
“Vista mare” avrebbero citato le agenzie immobiliari. Ma che vista! Stava nella parte alta del paese e dominava il promontorio e il mare, con una grande terrazza per godere di tutto ciò.
Le si spezzava io cuore all’idea che ormai per lei, non ci sarebbero più state estati in questa casa, niente più passeggiate solitarie sulla spiaggia all’alba, niente più uscite in barca, la notte con Peppino il pescatore e niente più pomeriggi in terrazza con zia Lina a tenere d’occhio il mare e ad ascoltarsi l’un l’altra.
Le mancava tanto zia Lina... le mancavano il suo sorriso dolce e la sua semplicità.
“Ci vorrebbe un miracolo per trovare il denaro necessario” pensò la ragazza, appoggiandosi al muretto della terrazza. La vista del mare e gli schiamazzi dei gabbiani di solito riuscivano a rasserenarla, ma non quel giorno. Ci voleva ben altro. Un miracolo appunto!
Lena si riscosse dai suoi pensieri e guardò l’orologio. Stava aspettando la sua amica Lara, in ritardo come al solito. “La puntualità non è certo una delle tue doti migliori cara mia”.
Lara era un’ottima restauratrice e gestiva il negozio di antichità più rinomato della riviera ligure. Lena aveva la segreta speranza che, tra le mille cianfrusaglie accumulate dalla zia nella sua lunga vita, ci fosse qualcosa di prezioso da vendere e magari ricavare il denaro necessario per le ristrutturazioni.
Il suono del clacson la colse di sorpresa, subito si alzò e uscì ad accogliere l’amica. Non si vedevano molto spesso, ma non mancavano mai di ritrovarsi appena Lena tornava dalla zia e, come sempre tra loro, bastarono pochi secondi per ritrovare la confidenza di un tempo.
“Forza, prima il dovere poi il piacere; ti devo proprio portare nel nuovo negozio che hanno aperto in centro, assolutamente meraviglioso non te lo puoi perdere. Parola mia!”
“Cara amica” pensò Lena “ecco la tua dote migliore! La tua vitalità mi contagia ed è proprio quello di cui ho bisogno adesso”.
Lara salì velocemente il vialetto fino alla porta d’ingresso, entrò e iniziò a girare per la casa osservando e valutando con occhio esperto.
“C’è qualche mobile di un certo pregio, con una piccola sistemata te li vendo di sicuro; questa lampada non è male, basta una pulita, considerala già venduta. Tutto l’insieme però non ti frutterà certo la cifra di cui hai bisogno” le disse alla fine.
“Ma adesso portami in soffitta. Io adoro le soffitte”.
“Non è un gran che, è piena di ciarpame e vecchi bauli”.
“Lascia giudicare a me. Le soffitte, a volte, riservano delle sorprese che neanche ti immagini. Senti che profumo, adoro l’odore delle vecchie soffitte”.
Lena stava per replicare che, a parer suo, quella era proprio puzza: di polvere, di ragnatele, di vecchio, ma “i gusti son gusti” meditò.
“I bauli sono molto ben conservati, questo tipo di oggetto va a ruba, te li venderò a un buon prezzo e ora vediamo cosa c’è dentro”.
Il primo baule, conteneva stoffe con ricami delicati e pizzi d’altri tempi. Poteva essere un corredo nuziale, i tessuti sembravano di pregio, ma nessuno li aveva probabilmente mai usati.
Il secondo baule era pieno di libri, parecchi libri, volumi dalle copertine lussuose e ben conservati, alcuni sembravano essere molto vecchi con le pagine fragili e quasi trasparenti.
Le due ragazze si scambiarono uno sguardo di intesa. L’amore per i libri era la base della loro amicizia. Le estati passate lì insieme, erano sempre state piene di libri, condivisi, prestati, scambiati.
“Che libro stai leggendo?” era la domanda di rito che ancora adesso si rivolgevano incontrandosi”.
Per Lena questa passione era diventata una professione, lavorava in una piccola casa editrice in città e sognava di aprirne una tutta sua un giorno.
Li guardarono uno ad uno: c’era una vecchia bibbia consunta, un libro di ricette di inizio secolo e parecchi classici. “Te li pulisco tutti per bene, faranno un figurone nella libreria di casa tua” promise Lara.
Il terzo baule conteneva vecchi album di fotografie e pacchi di lettere legati con nastri colorati.
“Che meraviglia” disse Lena “questo me lo porto a casa, chissà chi le avrà scritte queste lettere, forse un vecchio ammiratore o magari un fidanzato segreto, non vedo l’ora di dargli un’occhiata”.
In fondo al baule, trovarono un pacco di fogli ben ordinati e trattenuti da un nastro di raso rosso. Lo presero con delicatezza, sul foglio che faceva da copertina c’era un disegno ad acquarello. Erano riconoscibili il promontorio con la torre diroccata e le pareti scoscese a picco sul mare e uno scorcio della loro piccola spiaggia.
 “Com’è profondo il mare” di Lina Laudati, stava scritto in rosso con una calligrafia elegante e raffinata.
“Sembra un manoscritto” mormorò Lena “sapevo che Zia Lina si divertiva a scrivere poesie, ne aveva un libricino pieno e qualche volta me ne ha letta qualcuna, ma non sapevo avesse scritto un romanzo”.
Tolsero il nastro, sulla prima pagina c’era una dedica: “A voi che amate il mare, così come l’ho amato io, sopra ogni altra cosa”.
Si sedettero una acconto all’altra, spalla a spalla come ai vecchi tempi, con il pacco sulle ginocchia ed iniziarono a leggere:
“Me ne sto qui sulla spiaggia, mentre il vento mi accarezza il viso e porta a me il profumo del mare, voglio ricordare per sempre questo profumo...” recitò Lena a voce alta, poi continuarono sottovoce, senza quasi respirare.
Quando l’ultimo raggio di sole sparì dietro la collina e nella soffitta calò la penombra, si alzarono di scatto, raccolsero tutto e corsero al piano di sotto, si sistemarono sul divano del salotto e continuarono a leggere, tutto d’un fiato fino alla fine.

…salì fino alla cima della scogliera, guardò per l’ultima volta la sua casa, si girò verso il mare e si lasciò cadere.

Le due ragazze alzarono il capo, il loro sguardo era velato da lacrime che non tentavano nemmeno di trattenere. Ricomposero il manoscritto rimanendo in silenzio per un lungo istante.
Lena chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale “è meraviglioso…” sussurrò.
Poi le due ragazze iniziarono a parlare rubandosi quasi le parole l’un l’altra: “è bellissimo… la tecnica è perfetta… il linguaggio è fresco e leggero, sembra scritto adesso... La trama è affascinante, la protagonista poi… Il finale, io adoro il finale”.
“Questo libro è un capolavoro. Non ho mai letto niente di simile prima d’ora” dichiarò Lara
“Neanch’io, zia Lina sei un mito! Lunedì andrò dal mio capo, dovrà ascoltarmi, voglio farlo pubblicare immediatamente, questo libro uscirà dal baule e farà il giro del mondo”.

Il lunedì mattina Lena si alzò all’alba, si recò subito in ufficio, era impaziente di far leggere il manoscritto a Gironi, il suo capo. Era certa che il romanzo avrebbe conquistato anche lui. Per prima cosa fotocopiò tutte le pagine, voleva conservare per sé l’originale, poi, appena finito, bussò alla porta del suo ufficio.
Senza aspettare una risposta entrò e posò i fogli sul tavolo: “lo legga per favore, lo legga subito” disse perentoria.
“Lena fai la brava, ho una mattinata piena e anche tu, poi leggere i manoscritti non è compito mio, pago te per farlo.
“Lo so, e infatti l’ho già letto, adesso deve leggerlo anche lei. Deve avere la priorità su tutto il resto”.
L’uomo prese il pacco dei fogli e lesse ad alta voce: “Com’è profondo il mare di Lina Laudati. Che bella grafia d’altri tempi. Chi sarebbe costei?” “E’ mia zia”
“Ah beh, la zietta scrittrice insiste e noi vogliamo far contenti la zietta. Lena ti prego, sii più professionale!”.
“Mia zia è morta da poco, ho trovato il manoscritto nascosto tra le sue cose. La prego non dica altro, lo legga e poi mi faccia sapere”.
L’uomo sbuffando, cercò gli occhiali, congedò con un gesto la ragazza e prese il plico in mano.
Non si fece vedere per l’ora di pranzo, non si fece vedere nemmeno per la solita pausa caffè. Nel tardo pomeriggio uscì dall’ufficio e chiamò Lena, la ragazza si precipitò da lui con il cuore in gola.
Non ebbe bisogno di sentire una parola, lo sguardo e il viso dell’uomo avevano già detto tutto.
“Lena, questo libro è un capolavoro, non ho altro da dire”.
“Possiamo pubblicarlo?”
“Immediatamente, avvia tutta la procedura, correggi le bozze, ma non cambiare niente, è perfetto così.
Chiama gli eredi di tua zia che stendiamo un contratto”.
Lena realizzò per la prima volta che, essendo lei l’unica erede, erano suoi anche i diritti del libro.
“Se questo libro avrà successo…” l’emozione della scoperta le aveva fatto dimenticare questi aspetti tecnici. Con i proventi della vendita del libro, forse avrebbe potuto sistemare la casa. “Lena non correre troppo con la fantasia, pensiamo prima a pubblicarlo e poi si vedrà” si disse la ragazza, uscendo dall’ufficio con le ali ai piedi.

Sono passati pochi mesi, da quel pomeriggio, Lena e Lara si sono date appuntamento al loro ristorantino preferito, proprio sulla spiaggia. Tra le mani tengono il libro di zia Lina, fresco di stampa. Non possono non pensare all’emozione provata il pomeriggio della sua scoperta.
“Te l’avevo detto che le soffitte, a volte, riservano sorprese imprevedibili” ricorda Lara.
Il manoscritto è stato pubblicato in tempo record. Gironi ha messo in campo tutte le sue conoscenze per pubblicizzarlo, ma già ora il libro cammina con le proprie gambe, anzi vola.
 “Com’è profondo il mare è l’evento letterario dell’anno”. “Peccato sia rimasto sepolto in un baule per tutto questo tempo” “Lina Laudati vorremmo tu avessi scritto di più”.
Questi sono solo alcuni dei titoli apparsi sui giornali nazionali. Il libro stava scalando velocemente le classifiche di vendita.
Sedute in attesa di gustarsi un promettente piatto di spaghetti allo scoglio, le due amiche sorseggiano un buon bicchiere di vino.
“Ho voluto che fosse mantenuto lo stesso titolo scelto da zia Lina, ho fatto in modo che fosse riprodotto anche il suo disegno, così come lo aveva dipinto lei. Penso di avere fatto un buon lavoro, spero che da lassù mia zia sia soddisfatta”. Lena è al settimo cielo: la piccola casa editrice è decollata grazie a questo romanzo e a lei sono toccati un aumento di stipendio e una promozione.
A completare il tutto la prossima settimana inizieranno i lavori di ristrutturazione della casa.
“Zia Lina, grazie a te non devo venderla, sarà mia, anzi nostra, per sempre” afferma Lena alzando il calice verso il mare…