martedì 31 maggio 2016

Lorenzo Bianco – La casa sul fondo

La nostra prima casa era la tua: in un vicolo scuro che dalla piazza centrale raggiunge una piccola chiesa, il numero 3, uno stretto giro di scale, un balcone di cemento triangolare, come la prua di una nave. Lo scafo immaginario traversava la forra tra palazzi polverosi, come se lo sguardo navigasse lento in un passaggio stretto, il nostro piccolo canale di Suez.
La luce penetrava una volta sola al giorno, tra le dodici e le dodici e venti, all’ora in cui di sabato ci alzavamo e mettevi la caffettiera sul fuoco.
Dalla balconata si poteva spiare l’interno di un’antica pasticceria, una delle sale, quella dei ricevimenti, dove si era servito il re e dove ora talvolta si espongono quadretti di pittura provinciale con ortensie, azalee, rododendri.
Oggi sono dall’altra parte e dalla vetrata della pasticceria osservo la casa: un cespuglio d’edera si getta dal balcone senza afferrarlo, la nebbia e la luce arancio dei lampioni la rendono misteriosa come se volesse sfuggire allo sguardo.
Prima di te ci viveva una maga che aveva dipinto le pareti di viola, come una canzone di Prince. Tu la ripitturasti tutta a tinte chiare, con un battiscopa azzurro, ghirigori rosa e bellissimi che giravano per le stanze. Nei giorni di pioggia il porpora trasudava dai muri come l’apparizione maligna della strega nelle fiabe. La maga poi - si dice – finì in carcere, probabilmente non per un’errata predizione.
La porta d’ingresso sotto il balcone ha una mezzaluna che la sovrasta e che dà luce alle scale che si attorcigliano brevi fino al primo piano; si entrava poi da una portafinestra sul balcone. Una notte ci addormentammo lasciando le persiane aperte e al mattino sullo zerbino ci scrutava un nano da giardino, ritto sulla soglia. Abbiamo pensato allo scherzo di qualcuno, o che fosse caduto da qualche terrazzino del palazzo di fronte. Nessuno lo reclamò e diventò la nostra mascotte. Mammolo. Da allora lo tengo sempre vicino ai vasi delle piante perché credo sia magico e vegli su di loro. Le piante apprezzano.
Una volta nevicava e siamo usciti di corsa per il vicolo raggiungendo la piazza, io col montgomery blu, tu con la giacca di pelle bordeaux, volteggiavi allargando le braccia – abbiamo ancora le foto – erano anni che non nevicava ma era il primo anno che stavamo insieme. In centro alla piazza, Cavour aveva già un parrucchino gelato e i fiocchi cadevano fitti, come crepitii bianchi su una vecchia pellicola.
La stessa piazza il martedì e il venerdì ospita il mercato, venditori urlano, le signore contrattano; noi ci sedevamo al bar, riparati dal sole, ma deliziati da una brezza leggera che scuoteva le bancarelle e agitava gli abiti appesi facendoli dondolare. Sul fondo della piazza i palazzi e dietro di loro immaginare che ci fosse il mare. Chiudendo gli occhi e concentrandoci, oltre lo sventolare degli ombrelloni, oltre il vociare e le ordinazioni si potevano sentire le onde, prima come un respiro lontano, poi come un ruggito che tracimando i tetti si riversava impetuoso nel nostro vicolo e raggiungeva la piazza. Così giocavamo a inventare il mare nella nostra città che non si affaccia sul mare.
La casa aveva strani rumori, per esempio la caldaia di notte si spegneva e tossiva. Noi dicevamo che era il fantasma della caldaia fantasticando su di lui. Di certo era un fantasma bambino e giocava soffiando sul fuoco cercando di spegnerlo. D’estate dormivamo con la finestra aperta e sentivamo il televisore ad alto volume del vicino sordo del palazzo di fronte.  Spesso le battute dei film notturni, i jingle degli spot, gli sceneggiati si mischiavano con le urla dell’amore  dalla nostra finestra aperta.
La cucina era piccola con il lavello pieno di pentole e piatti, i barattoli in vista, un tavolo stretto e le sedie pieghevoli in legno di moda nei bar di paese. Una libreria disegnava il soggiorno nella stessa stanza, un delizioso divano rosa, usato, degli anni cinquanta, una televisione di pochi pollici ma che includeva il videoregistratore, foto e quadri tuoi appesi dappertutto. Sopra la libreria, per un po’, abbiamo avuto la boccia di vetro di Abramo, prima che abbandonasse l’acqua e in volo si gettasse sul pavimento, nel primo suicidio conosciuto di pesce rosso. Il bagno era piccolo, con la doccia senza vasca e i bagnoschiuma al peperone, zucchero filato e cardamomo. In camera da letto dormivamo in terra su due materassi avvicinati a formare un tatami sfondato ma morbido; al mattino ci svegliava il Titanic, una radiosveglia desintonizzata che rombava come la sirena di una nave che sta per inabissarsi.
La prima volta che sono entrato a casa tua non era con te. Infatti quando mi hai accompagnato e ci siamo entrati insieme, mi veniva da ridere e ti ho spiegato perché solo molti anni dopo. Qualche mese prima che ci conoscessimo ospitavi un amico, che una sera ha voluto ospitare me. Tu non c’eri. L’amico perse immediatamente il mio interesse, perché a incuriosirmi era la casa e di riflesso tu, che eri ovunque.
In cucina c'erano delle foto. Tu che scolpivi e la maglietta che scopriva il bicipite, un tuo primo piano, un autoritratto.
-                     Io ti vedrò per sempre – ad un tratto pensai e avevo ragione.
Chiesi all’amico:
-                     Chi è quello in foto?
-                     E’ quello che abita qui, è biondo, è un artista.
-                     Ah! E poi?
-                     Che cosa “e poi”?
Lui ovviamente non aveva in programma di parlare di te, ma io già sognavo il padrone di casa, scalzo mentre cucinava, o spogliarsi nel bagno, che dormiva.
L'ultima immagine sollevò un quesito:
-                     Dorme dove sei tu?
-                     No, sta dalla tua parte.
Fu l’ultima volta che presi il tuo posto. Grandi crisalidi di vari colori, sculture che tu - a me allora sconosciuto - avevi cucito, si arrampicavano sul muro vicino al letto, fino al soffitto, come presagio di una  vita nuova che stava per schiudersi.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme trovammo una nuova casa con le finestre sul tetto e tanti gatti, vicino al fiume. Dovevamo partire.
Prima di andarcene siamo entrati insieme nella casa spoglia. Avevano portato via tutto.  I mobili , i quadri, le foto avevano lasciato le loro ombre sui muri e così noi.
Diedi un ultimo sguardo alla camera da letto, senza più crisalidi e tatami e libri accatastati a fare comodini.
-                     Io ti vedrò per sempre – pensai.
E anche questa volta fu così. Solo che è come scavare nel profondo: ci si immerge per frammenti, breve immagini, ricordi (bisogna riemergere per brevi boccate di ossigeno) e poi reimmergersi, nuotare, fino a non sentirla più, ma a vederla, la casa lì sul fondo.

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