La
nostra prima casa era la tua: in un vicolo scuro che dalla piazza centrale
raggiunge una piccola chiesa, il numero 3, uno stretto giro di scale, un
balcone di cemento triangolare, come la prua di una nave. Lo scafo immaginario
traversava la forra tra palazzi polverosi, come se lo sguardo navigasse lento
in un passaggio stretto, il nostro piccolo canale di Suez.
La
luce penetrava una volta sola al giorno, tra le dodici e le dodici e venti,
all’ora in cui di sabato ci alzavamo e mettevi la caffettiera sul fuoco.
Dalla
balconata si poteva spiare l’interno di un’antica pasticceria, una delle sale,
quella dei ricevimenti, dove si era servito il re e dove ora talvolta si
espongono quadretti di pittura provinciale con ortensie, azalee, rododendri.
Oggi
sono dall’altra parte e dalla vetrata della pasticceria osservo la casa: un
cespuglio d’edera si getta dal balcone senza afferrarlo, la nebbia e la luce
arancio dei lampioni la rendono misteriosa come se volesse sfuggire allo sguardo.
Prima
di te ci viveva una maga che aveva dipinto le pareti di viola, come una canzone
di Prince. Tu la ripitturasti tutta a tinte chiare, con un battiscopa azzurro, ghirigori
rosa e bellissimi che giravano per le stanze. Nei giorni di pioggia il porpora trasudava
dai muri come l’apparizione maligna della strega nelle fiabe. La maga poi - si
dice – finì in carcere, probabilmente non per un’errata predizione.
La
porta d’ingresso sotto il balcone ha una mezzaluna che la sovrasta e che dà
luce alle scale che si attorcigliano brevi fino al primo piano; si entrava poi
da una portafinestra sul balcone. Una notte ci addormentammo lasciando le
persiane aperte e al mattino sullo zerbino ci scrutava un nano da giardino,
ritto sulla soglia. Abbiamo pensato allo scherzo di qualcuno, o che fosse
caduto da qualche terrazzino del palazzo di fronte. Nessuno lo reclamò e
diventò la nostra mascotte. Mammolo. Da allora lo tengo sempre vicino ai vasi
delle piante perché credo sia magico e vegli su di loro. Le piante apprezzano.
Una
volta nevicava e siamo usciti di corsa per il vicolo raggiungendo la piazza, io
col montgomery blu, tu con la giacca di pelle bordeaux, volteggiavi allargando
le braccia – abbiamo ancora le foto – erano anni che non nevicava ma era il
primo anno che stavamo insieme. In centro alla piazza, Cavour aveva già un
parrucchino gelato e i fiocchi cadevano fitti, come crepitii bianchi su una
vecchia pellicola.
La
stessa piazza il martedì e il venerdì ospita il mercato, venditori urlano, le
signore contrattano; noi ci sedevamo al bar, riparati dal sole, ma deliziati da
una brezza leggera che scuoteva le bancarelle e agitava gli abiti appesi
facendoli dondolare. Sul fondo della piazza i palazzi e dietro di loro
immaginare che ci fosse il mare. Chiudendo gli occhi e concentrandoci, oltre lo
sventolare degli ombrelloni, oltre il vociare e le ordinazioni si potevano
sentire le onde, prima come un respiro lontano, poi come un ruggito che
tracimando i tetti si riversava impetuoso nel nostro vicolo e raggiungeva la piazza.
Così giocavamo a inventare il mare nella nostra città che non si affaccia sul
mare.
La
casa aveva strani rumori, per esempio la caldaia di notte si spegneva e
tossiva. Noi dicevamo che era il fantasma della caldaia fantasticando su di
lui. Di certo era un fantasma bambino e giocava soffiando sul fuoco cercando di
spegnerlo. D’estate dormivamo con la finestra aperta e sentivamo il televisore
ad alto volume del vicino sordo del palazzo di fronte. Spesso le battute dei film notturni, i jingle
degli spot, gli sceneggiati si mischiavano con le urla dell’amore dalla nostra finestra aperta.
La
cucina era piccola con il lavello pieno di pentole e piatti, i barattoli in
vista, un tavolo stretto e le sedie pieghevoli in legno di moda nei bar di
paese. Una libreria disegnava il soggiorno nella stessa stanza, un delizioso
divano rosa, usato, degli anni cinquanta, una televisione di pochi pollici ma
che includeva il videoregistratore, foto e quadri tuoi appesi dappertutto.
Sopra la libreria, per un po’, abbiamo avuto la boccia di vetro di Abramo,
prima che abbandonasse l’acqua e in volo si gettasse sul pavimento, nel primo
suicidio conosciuto di pesce rosso. Il bagno era piccolo, con la doccia senza
vasca e i bagnoschiuma al peperone, zucchero filato e cardamomo. In camera da
letto dormivamo in terra su due materassi avvicinati a formare un tatami
sfondato ma morbido; al mattino ci svegliava il Titanic, una radiosveglia
desintonizzata che rombava come la sirena di una nave che sta per inabissarsi.
La
prima volta che sono entrato a casa tua non era con te. Infatti quando mi hai
accompagnato e ci siamo entrati insieme, mi veniva da ridere e ti ho spiegato
perché solo molti anni dopo. Qualche mese prima che ci conoscessimo ospitavi un
amico, che una sera ha voluto ospitare me. Tu non c’eri. L’amico perse immediatamente
il mio interesse, perché a incuriosirmi era la casa e di riflesso tu, che eri
ovunque.
In cucina c'erano delle foto. Tu che scolpivi e la maglietta che
scopriva il bicipite, un tuo primo piano, un autoritratto.
-
Io ti vedrò per sempre – ad un tratto pensai e avevo ragione.
Chiesi all’amico:
-
Chi è quello in foto?
-
E’ quello che abita qui, è biondo, è un artista.
-
Ah! E poi?
-
Che cosa “e poi”?
Lui ovviamente non aveva in programma di parlare di te, ma io
già sognavo il padrone di casa, scalzo mentre cucinava, o spogliarsi nel bagno,
che dormiva.
L'ultima immagine sollevò un quesito:
-
Dorme dove sei tu?
-
No, sta dalla tua parte.
Fu l’ultima volta che presi il tuo posto. Grandi crisalidi di vari
colori, sculture che tu - a me allora sconosciuto - avevi cucito, si arrampicavano
sul muro vicino al letto, fino al soffitto, come presagio di una vita nuova che stava per schiudersi.
Quando abbiamo deciso di vivere insieme trovammo una nuova casa
con le finestre sul tetto e tanti gatti, vicino al fiume. Dovevamo partire.
Prima di andarcene siamo entrati insieme nella casa spoglia.
Avevano portato via tutto. I mobili , i
quadri, le foto avevano lasciato le loro ombre sui muri e così noi.
Diedi un ultimo sguardo alla camera da letto, senza più
crisalidi e tatami e libri accatastati a fare comodini.
-
Io ti vedrò per sempre – pensai.
E anche questa volta fu così. Solo che è come scavare nel
profondo: ci si immerge per frammenti, breve immagini, ricordi (bisogna
riemergere per brevi boccate di ossigeno) e poi reimmergersi, nuotare, fino a
non sentirla più, ma a vederla, la casa lì sul fondo.
Uau, intenso è dire poco. Complimenti!
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