mercoledì 18 maggio 2016

Ernesto Cescon - Amore mio

Amore mio stiamo arrivando; ecco il porto, la statua è lì tra la nebbia e il mare. E’ la statua della libertà.
Siamo noi, siamo in tanti ci nascondiamo di notte in questa terra lontana, straniera, nemica. Abbiamo abbandonato la nostra amara povera terra, il ritmo lento della vita. Qui è tutto velocità e motori, vedrai sarà bello, ho paura ma sarà bello. Stringimi forte spariranno pessimismo e nostalgia; queste onde, questo mare profondo e buio. Là erano tutte colline e prati e tutto si vedeva…
E’ tutto così grande qui, per me così piccolo, finalmente nuoto nell’acqua. Mi muovo dentro questo pancione grande. Arrivano alle mie orecchie storie di animali strani, di cacciatori coraggiosi. Rido e piango, non comprendo perché. Sono piccolo, molto piccolo; tutto si muove e sento qualcosa di caldo contro di me. Mi sembra di galleggiare in un mare calmo, quasi, tranquillo. Nel mare della tranquillità attaccato alla mia mamma.
Amore mio, ricordi? Siamo arrivati qui sulle parole dei nostri amici, ci avevano detto che qui c’era il lavoro, un futuro, terra per tutti. Bastava avere voglia di faticare. Bastava superare il mare e trovare il coraggio per attraversarlo. Credevamo in Dio, o chi per lui, avevamo la forza ma ora qui è tutto così diverso.
Lottiamo e ci difendiamo, battiamo i pugni contro le mura delle galere in cui ci hanno rinchiusi. Siamo arrivati con valige piene di disperazione, alcuni di noi con due valige; almeno una è finita in fondo al mare. Fischiava un forte vento freddo, freddo come il nostro animo; io l’ho visto scomparire nel limbo. L’acqua saliva lenta, poi sempre più veloce. Butta fuori, presto butta fuori; con la bottiglia, con il piatto, con le mani, presto, presto, la terra è lì ancora lontana ma si vede. L’acqua li tiene su, sono troppi, presto, presto. La terra, la terra. No la roccia e giù nel profondo del mare…
Mio padre sognava per me un futuro da aviatore, io ho paura di volare. Pensavo che se mi fossi dovuto lanciare dall’aereo non sempre sarei atterrato in un soffice prato ma sarei potuto finire in fondo al mare e io non so nuotare. Mi vedo mentre osservo uno specchio d’acqua, d’apprima calmo, persino immobile. Discreta, quasi invisibile una folata l’accarezza e lo scuote quel tanto che basta per stravolgere il mio viso. Piccole onde, piccoli cerchi distorcono la mia immagine rendendola irreale e seguendo il movimento la dilatano. Pezzi di me si staccano dal mio corpo che si allunga seguendo il ritmo irregolare dell’acqua sulla sabbia. Mi allontano da me, vado verso il largo là dove il mare è più profondo e non posso più toccare. Ecco perché non voglio volare: perché non so nuotare.
Amore mio, nonostante tutto ho grandi progetti per questo nostro figlio che deve arrivare; farà cose grandi lo sento è una sensazione troppo forte. Dicono che discendiamo dalle scimmie, io credo dai pesci. E’ dall’acqua che nasciamo.
Ho letto un libro, sì, un libro bellissimo parlava di una balena forte, invincibile. Gli uomini le davano la caccia ma nessuno era in grado di catturarla, i suoi occhi, la sua coda, la sua bocca erano enormi. Gli uomini e tutte le forze del mare si inchinavano al suo cospetto, alla sua maestà. La maestra ci raccontava di una storia fantastica in cui un’altra balena aveva inghiottito un bambino e il suo papà ma si sono salvati perché quella era una balena buona. Loro sono usciti così, senza paura.
Vieni amore mio, vedi, è da lì che sono arrivati i miei genitori. Mio padre mi parlava di un’enorme barca che sbuffava fumo nero, loro viaggiavano in terza classe sotto la linea di galleggiamento e potevano vedere solo acqua, pesci e buio. Sognavano la luce. Immaginavano il sole. Non gli era consentito salire su, sul ponte perché dicevano che puzzavano ed erano sporchi, cenciosi e mettevano paura. Alla fine però il comandante, un uomo pieno di cicatrici che incuteva più paura e rispetto di loro, dopo tanto rullare in mezzo al nulla, gli ha concesso di salire. Tutti sul ponte insieme ai marinai a guardare il grigio della città, i grattacieli e quella incredibile statua con quel nome strano: libertà. I passeggeri di quel cargo si domandavano sottovoce come facessero i marinai con le loro giubbe bianche a rimanere per così tanto tempo lontani da casa in mezzo all’oceano senza una  famiglia e una ragazza da baciare.
Vivo di attimi in cui mi sento rapito, sollevato più leggero di una piuma, sento le branchie spuntarmi dalla pelle, le squame, la pinna mi dirige, mi spinge senza paura nelle sue profondità, protetto. Ci sono momenti come ora che siamo qui abbracciati che lo osservo estasiato. Rapito. Penso a lui. Non posso fare a meno di rispettarlo e al contempo odiarlo; è incredibile vederlo così calmo, così sofferente eppure calmo. Quando decide di ribellarsi prendendo possesso di tutto ciò che gli appartiene diventa inarrestabile, invincibile, invulnerabile. Eppure nel suo profondo, così come nel sottile suo inizio quando solo l’aria lo divide dal cielo è già sconfitto. Anch’egli nella sua impressionante enormità e forza fatta di tempesta e vigore, è già vinto. Ogni suo essere vivente può essere catturato, la sua possenza imbrigliata, incanalata, addomesticata.
Quell’acqua. Impercettibili colpi di pennello; sfumature, striature d’acquerello, blu, nere, azzurre, verdi che se ti soffermi a osservarle sono quelle dei nostri occhi. Lacrime di sofferenza. Di gioia. Di dolore. Di commozione.
Sono nero, nero più della notte. Con me c’è l’orchestra dei fulmini, il turbinìo di un’infinità di gocce d’acqua, la solenne danza delle nuvole. Anche la luna è fuggita via terrorizzata, sa che sta per accadere l’irreparabile: questa notte porterò la morte. Ho mosso le mie onde, ora sono alte come palazzi, quella barca l’ho spezzata come un fuscello. L’ho sollevata in cielo su, su e poi l’ho ingoiata con tutto quello che aveva dentro. Devono continuare ad avere paura di me. Era azzurro il mio vestito, candido e limpido come uno specchio dove i pesci nuotavano a milioni, le spiagge immacolate, i coralli favolosi gioielli. Ora tutto è immondo, i miei poveri animali uccisi, depredati, soffocati dall’inquinamento, dalla pesca, uccidono le mie balene con i cannoni, le spiagge sono nere di petrolio, i coralli distrutti. Devo, per loro, devo rimanere forte, continuare a fare paura. Io sono il mare, l’oceano, non possono, non devono farcela. Devono capire, stupidi, poveri stupidi che se io muoio, muoiono anche loro.

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