sabato 29 aprile 2017

Andrea Martini - Parole, davanti al mare

Riviera Ligure, Luglio 1976
Avevo notato per la prima volta la ragazza – splendida e giovanissima- un pomeriggio di sabato. Stava lì, quasi immobile, seduta sulla barriera degli scogli, al limitare del prato nel piccolo cimitero del borgo del Levante, affacciato sul mare, in quel luglio poco dopo il giro di boa degli anni '70.
            I miei genitori avevano penato parecchio a trascinarmi, sedicenne inquieto e con gli amici tutti rimasti a Monza, nelle loro due settimane di assolata vacanza balneare in Riviera.
            Anno dopo anno, sgomitavo inquieto per conquistare i miei spazi di libertà: fantasticavo di viaggi in treno lungo le rotte dell'Europa col biglietto Inter-Rail. Ero sinceramente affascinato dai racconti -spesso boccacceschi, e gonfiati senza ritegno- dei ragazzi un poco più grandi di me, che avevano già varcato le nuove frontiere della trasgressione. Massimo e Stefano verso la Svezia o la Danimarca. Luca, addirittura, giunto l'anno passato fino a Capo Nord.
            Vagavo per le strade interne ed acciottolate del paesino, quindi, non sapendo che fare nel corso di pomeriggi bollenti ed annoiati. Dovevo fra l'altro aspettare le canoniche tre ore, che mia madre imponeva quale limite di sicurezza, dopo pranzo, per potermi immergere, e trascorrere poi lungo tempo in acqua, a nuotare fino al largo estremo, perdendomi nei pensieri. Ed anche, un po' annoiato, contando i giorni che mi separavano dal rientro in città.
            Nel corso di questo ciondolare solitario, alcuni giorni prima mi ero spinto fin dentro il minuscolo Camposanto, attratto dalle sue dimensioni inconsuete ma soprattutto dalla cura, quasi maniacale, con cui la mano di qualche ignoto custode teneva tutto in ordine, fiori, corone, vasi e candele.
            Le lapidi scintillavano sotto il sole a picco, mentre passeggiavo per i sentierini di ghiaia bianca, e mi divertivo a guardare le vecchie foto ed a leggere i nomi scolpiti sui marmi. Ignaro che, anni dopo, quello sarebbe diventato il mio mestiere, mi dilettavo ad inventare le storie di vite sconosciute, incrociavo ed avvolgevo fra loro quelle esistenze interrotte, simulavo trame oscure per le loro morti.
            Confesso che la giovane ragazza -avrà avuto un anno o due meno di me- rientrò fin da subito fra le attrattive del luogo. E tornavo lì soprattutto per rivedere lei, ogni giorno dopo il pranzo, a seguire quella prima volta in cui rimasi colpito dal suo viso sempre rivolto verso il mare, assorta, come rapita da qualcosa che solo lei riusciva a scorgere.
            Adelaide: ero riuscito a scambiare con lei qualche parola, e perfino a farmi dire il suo nome l'indomani, dopo uno sforzo che mi era costato una fatica suprema ed indicibile, timido e chiuso qual ero in quell'età. Adelaide era bellissima, ricordo, con lineamenti fini e delicati, capelli lunghi mossi scuri, pelle di un'abbronzatura dorata e naturale, occhi azzurro intenso.
            Al terzo giorno, avevamo iniziato a raccontarci qualcosa delle nostre vite. O meglio: ad essere sinceri, lei raccontava. Io, adolescente imbranato con esperienza pressochè nulla dell'altro sesso, per lo più tacevo, rapito e già perdutamente innamorato di quello sguardo magico, dello stesso colore del mare che avevamo davanti.
            Scuola, famiglia, amici, passioni, sport. Quasi tutto, in breve tempo, sapevo di lei: Adelaide sembrava sciogliersi giorno dopo giorno, e mi faceva partecipe della sua esistenza in maniera torrenziale, come se fosse divorata dall'impeto di comunicarmi l’essenza della sua vita.
            Era molto brava al liceo classico, frequentava con gli amici la parrocchia, giocava a pallavolo.  Amava follemente i Beatles, scioltisi da poco. Mi parlava di un cantautore nuovo, napoletano, che non avevo mai sentito: Edoardo Bennato.  I suoi genitori -che gestivano una rivendita di alimentari nell'unica piazzetta del borgo- sognavano per lei un futuro da avvocato. O da giornalista, chissà, rideva lei, quando le confessai che a me piaceva soprattutto scrivere, e mi isolavo volentieri nella mia cameretta, picchiando forsennato sui tasti di una Lettera22, a fissare sulla carta il mondo che mi circondava.
            Poi c'era Danilo, ad occupare il suo cuore. Mi raccontava spesso di questo suo amore immenso, il suo angolo felice. Lui aveva 17 anni, adorava le moto, le corse indiavolate lungo la strada Aurelia quando -all'imbrunire- il traffico si faceva rado, e potevano mangiarsi (disse proprio così: mangiarsi) le curve strette, sul pelo dei muretti, con lei che lo stringeva da dietro, i capelli al vento, e non chiudeva mai gli occhi. Neanche quando aveva paura.
            Immaginarsi la mia ostilità, la gelosia immediata da ragazzetto innamorato, verso questo malefico Danilo.  Colui che mi aveva già rapito, senza neppure saperlo, la ragazza più bella che avessi mai visto : sì, a Monza mica ce n'erano di tanto splendide. L'unica, insomma.
            Dopo circa una settimana di parole davanti al mare, Adelaide interruppe improvvisamente i nostri pomeriggi sulla scogliera: “Da domani non ci vedremo più, mi dispiace” e fu la prima stilettata, a freddo, al mio giovane cuore “sai, debbo raggiungere Danilo, è partito da un po' di tempo, mi manca tantissimo e non vedo l'ora di rivederlo, di stendermi al sole vicino a lui, di parlargli abbracciandolo stretto”, ed ecco la seconda lama di ghiaccio a ferirmi, spietata.
            Lei sorrideva, appariva inconsapevole di tutto questo mio dolore e felice: “Mi ha fatto piacere conoscerti, tanto, davvero. Sei un ragazzo speciale, mi sei piaciuto moltissimo fin da subito: hai dentro qualcosa che gli altri non hanno, come una fiamma segreta, che brucia senza farsi vedere, ma chi sa guardarti dentro può scorgerla. Sei tanto timido, e questo è il bello di te”.
            Io, taciturno come sempre, ero imbalsamato dal dispiacere, incapace di decidere se dovevo sentirmi fiero e lusingato da simili parole, che nessuna ragazza mai mi aveva dedicato prima, o se invece maledire il Cielo, perchè la creatura più bella del mondo mi stava sfuggendo per sempre.
            “Ne sono certa, un giorno diventerai un giornalista, uno di quelli bravi e famosi”. E gli occhi iniziavano, inevitabilmente, a riempirmisi di lacrime. Mi diede un bacio, come un soffio leggero e caldo sulla guancia. “Ricorda, io farò il tifo per te, anche se non mi vedi” sussurrò.
            Incapace di trattenermi oltre, lì seduto dov'ero, con la testa chiusa fra le ginocchia esplodevo, singhiozzando, nel primo vero pianto d'amore della mia giovane vita, disperato e profondo.  Quando, alcuni minuti dopo, rialzavo la testa, con gli occhi gonfi e rossi, Adelaide non c'era più, se n'era andata via in silenzio.
            Rientrai con un nodo doloroso a stringermi la gola nella casetta presa in affitto dai miei, mentre loro certamente erano ancora a rosolarsi al sole, ignari, sulla spiaggia. Mi rifugiai verso il mio porto sicuro, alla fidata Lettera22.  E lì, seduto alla mia amata tastiera, con gli occhi velati dalle lacrime raccontai a lettori immaginari della mia storia sventurata. Il cui ricordo era destinato -ma questo non lo potevo sapere- a dissolversi rapido con la ripresa delle scuole, e le prime nebbie, lassù in Brianza.
            Era il 22 Luglio 1976.
* * * * * * * * * * * *
Riviera Ligure, Maggio 2015
            Sbarcato dal volo Parigi -Milano, neppure il tempo di cambiare valigia, ed eccomi – su ordine del mio Direttore- catapultato dopo un viaggio tortuoso in treno, in un paesino che ben conoscevo, lindo e piccolissimo, disteso sul mare, poco più a Levante di Genova.
            Il mio reportage sulla banlieu francese deve avere riscosso un notevole successo fra i lettori, se l'incarico successivo -comunicato con una mail asettica, letta sul tablet in attesa dell'imbarco al “Charles de Gaulle”-  è quello di raccontare di una locale  Sagra del Pesce che si ripete ogni anno in questo periodo, dalla notte dei tempi, a quanto pare...
             Quanti ricordi, però. Ricordi che affiorano, un po' a fatica, da un passato lontano e polveroso: estati calde ed assolate. I miei genitori, con me adolescente, seduti a tavola nella piccola casa sulla strada principale del paese. Mia mamma giovane, sempre col sorriso ed i suoi costumi interi a grandi fiori colorati. “Ragazzo, devi fare il pieno di sole in queste due settimane” ripeteva in quei giorni mio padre, abbronzato da fare paura “che poi su da noi l'inverno è maledetto e lungo, e ti entra nelle ossa”.
            Sorrido, pensando a queste scene di ordinaria vita familiare ormai sbiadite dagli anni -quanti? quaranta? forse sì- e mi avventuro, sotto una pioggerella leggera, fra le poche stradine che s' intersecano strette, cercando un bar aperto. Anzi, “il” bar, visto che l'emporio nella microscopica piazzetta pare ancora essere l'epicentro del borgo: tabaccheria, alimentari, giornalaio, e chissà cos'altro.
            Entro, e mi accoglie cortese un uomo anziano. Avrà ottant'anni se non di più. Ha la pelle cotta dal sole, le rughe profonde a solcarla, i capelli bianchi e lucenti così come i denti, impressionanti da quanto sono regolari ed immacolati.
            Dietro il bancone, intenta a pulire l'affettatrice con una salvietta, una vecchietta magra -certamente la moglie-  dagli occhi azzurri e lo sguardo dimesso.
            Sono un po' provato dal viaggio. Chiedo un panino, mi siedo allo sgabello e -gesto ormai automatico ed incondizionato- consulto la posta sull'Iphone, perennemente in mano. Appena il tempo di borbottare qualcosa sulla linea che arriva debole, ed alzo lo sguardo, verso la parete alle spalle della signora che sta lentamente affettando il pane.
            Una fotografia incorniciata, di quelle con i colori ormai sbiaditi dagli anni. Il primo piano, ingrandito, di una ragazzina di un'altra epoca, sorridente, con i capelli scuri, e gli occhi azzurri, illuminati dal sole. Il tempo passato si sgretola, si deframmenta in un secondo. Non può essere....
            Come se, dalla vetta di un ghiacciaio lontano, si staccasse una piccola palla di neve, silenziosa. Come se rotolando a valle si facesse sempre più grande, e più grande ancora. Come se diventasse una valanga, che si schianta infine, fragorosa e devastante.
            Adelaide.
            Si apre, lentamente, uno squarcio di ricordo, dentro di me. La signora, anziana e gentile, si accorge di qualcosa. Certamente nota il mio sguardo fisso sulla foto, ed il suo aspetto si fa ancor più triste.
            “E' la mia bambina, vede? Sono passati tanti e tanti anni, ma per me è come se ne avesse sempre 14... “le si inumidivano gli occhi “aveva tutta una vita davanti, era bravissima a scuola e tutti gli insegnanti ci dicevano che avrebbe avuto un grande futuro Ed invece...”inizia a piangere sommessa.
            Suo marito, che ascolta poco distante riordinando uno scaffale, si torce le mani ed annuisce in silenzio.
            “Cosa le è successo, signora?” chiedo. E mentre pronuncio queste poche parole, mi ascolto la voce, e neppure la riconosco, da come esce tremante ed insicura.
            “Mi fa ancora male, male, parlarne, sa... Adelaide era giovane, innamorata di un ragazzo di un paese vicino, Danilo, bravo e bello come lei. Insieme erano una coppia meravigliosa, sembravano nati per incontrarsi e stare insieme felici.  Danilo era appassionato di corse in moto, spericolato come tutti i ragazzi a quell'età. Non sapeva cosa fosse la paura. Una notte, era marzo e pioveva a dirotto, lo hanno trovato schiantato in un burrone, morto sul colpo, a pochi chilometri da qui, sulla strada Aurelia”.
            Interviene il marito, quasi in soccorso della povera donna, che ormai singhiozza, incapace di proseguire, con un fazzoletto ad asciugarsi il viso.
            “Adelaide era troppo giovane ancora, per un amore tanto grande. Non ce l'ha fatta, a sopportare il dolore. Mia moglie ed io abbiamo provato in ogni modo a consolarla, a farla distrarre, a spiegarle che il suo ragazzo avrebbe voluto vederla di nuovo felice e col suo bel sorriso. Ma i giorni ed i mesi passavano, inutilmente. Sfioriva sempre più, i suoi occhi azzurri erano divenuti sbiaditi, sempre persi a guardare nel vuoto. Diceva che Danilo la stava aspettando, che la notte poteva sentire la sua voce, e sarebbero tornati presto insieme”.
            Mio Dio.
            “Cercavamo di restare sempre con lei, di non lasciarla mai sola. Ha approfittato di uno dei pochi momenti in cui abbiamo abbassato la guardia... e... “deglutisce nervosamente, le mani sempre tormentate “una sera buia, senza luna, l'abbiamo trovata impiccata nel giardino, ad una trave della sua altalena”.
            Lungo la schiena, brividi sulla pelle. Mi accorgo di avere la bocca completamente asciutta, e sono incapace di proferire parola.
            “Lei non può immaginare “interviene ancora la donna, che pareva essersi un poco ripresa “quante volte, con mio marito, abbiamo scongiurato Dio di perdonarla, di lasciare che si riunisse al suo Danilo, per sempre, come lei sognava. Le piaceva tanto stare distesa vicino a lui, a leggere libri, nella spiaggetta sotto la Chiesa, ed abbronzarsi al sole”.
             Rialzo lo sguardo, sconvolto, alla fotografia che mi sorride dalla parete. La mia bellissima Adelaide. Sulla cornice, alla base, i genitori hanno applicato una targhetta in ottone, con la data di nascita e quella -quanto deve essere costato a queste povere persone- della sua tragica morte. Mi sforzo di leggere.



            Era il 23 Luglio 1976.

Marco Maresca - Genesi ed epilogo di una fabbrica

1965.
Non è merito mio l’esser nato in una famiglia agiata. Merito mio sarebbe eventualmente utilizzare i beni di cui dispongo per migliorare l’ambiente in cui vivo e le condizioni di chi si trova a lavorare per me.
Sono nato in una famiglia che cent’anni fa si distingueva per nobiltà e, ora che i titoli nobiliari non contano più, l’unico modo che abbiamo per misurare quello che siamo è dato dalla nostra disponibilità di denaro. Durante le guerre, la nostra città si è mantenuta in vita anche grazie alla filatura avviata nel secolo scorso dai miei antenati, ottenendo perfino che alcuni dei nostri salariati venissero dispensati dall’impiego militare. La benedizione della nostra condizione agiata ha permesso di salvare alcune vite che non avrebbero potuto scegliere nulla di per sé. Ma anche questo non è un merito: è solo il frutto di un volere più grande.
Quello che ora voglio fare è prendere atto dei nuovi mezzi di produzione e delle rinnovate necessità della popolazione di cui mi sento responsabile, e sperimentare un’innovativa tipologia di fabbrica. Partiremo dalla nostra tradizione tessile per costruire un centro lavorativo perfettamente integrato nell’ambiente urbano. Più che una fabbrica, la nostra sarà una vera e propria città, con negozi e mercati appena fuori dai reparti in cui i nostri dipendenti svolgeranno il proprio lavoro. Ci sarà una foresteria che accoglierà i nuovi assunti che arrivano da lontano. Un grande parco attrezzato regalerà luce e serenità a chi vorrà trascorrere con la propria famiglia le pause lavorative. Ci saranno ambulatori medici, scuole, perfino una chiesa per chi vorrà pregare. A regime, il nostro centro darà lavoro direttamente o indirettamente a quindicimila persone e tutte vivranno a pochi metri dal luogo in cui troveranno impiego. Ed ognuno vivrà la propria condizione come un privilegio.
Applicheremo le più innovative soluzioni della tecnica per creare un ambiente lavorativo in cui saranno ridotte al minimo le azioni ripetitive. I nostri operai si trasformeranno gradualmente in tecnici e specialisti delle apparecchiature che costituiranno il loro patrimonio lavorativo. Gli orari saranno flessibili, per conciliare la vita lavorativa con quella familiare.
Ma questo non è tutto. Sappiamo che il futuro riserverà sempre maggior spazio alle macchine e che verranno a mancare molti dei ruoli adesso ricoperti dalle nostre persone. Per questo vogliamo cominciare già da ora a valorizzare in tutti gli ambiti la crescita di chi lavora per noi. Alcuni imprenditori generosi, dei quali ho la fortuna di essere amico, si sono offerti di concedere gratuitamente ai nostri dipendenti e alle loro famiglie l’accesso gratuito alle migliori proposte educative, agli spettacoli teatrali e cinematografici, alle scuole di specializzazione, ai corsi formativi, alle mostre d’arte e di tecnica, alle borse di studio, ai campeggi e agli alloggi di vacanza, ai percorsi di crescita professionale ed umana. E’ la speranza nel futuro e nelle nuove generazioni ciò che ci muove. Per questo la nostra non sarà solo la costruzione di una fabbrica ma la costruzione di un amore.

1991.
Nove anni fa ho abbandonato il mio paese per venire a lavorare qui nella fabbrica. Quando sono arrivato parlavo solo in dialetto ed ero impaurito dalle usanze del posto in cui ora mi trovo. Eppure cercavo di essere forte, perché volevo sollevare i miei genitori dalla responsabilità di crescermi in una terra povera di lavoro e di opportunità. Mio padre e mia madre erano felici per me e un po’ alla volta stavano iniziando ad abbandonare i pianti e le malinconie iniziali. Certo all’inizio non ho trovato un ambiente facile, e sono stato spesso deriso per il mio accento, ma non ho mai visto una vera cattiveria nelle azioni altrui. Anzi, c’era nei miei colleghi una sorta di spirito di appartenenza, qualcosa che sapevo che avrei potuto provare anch’io un giorno.
Il proprietario della fabbrica è un uomo d’altri tempi. Una mente illuminata. Ho avuto il piacere di incontrarlo personalmente più volte e si è sempre fatto carico della mia situazione. Ha voluto che andassi a scuola, spesso dandomi dei permessi retribuiti in orario lavorativo, perché ci teneva che imparassi a parlare e scrivere correttamente nella lingua grazie alla quale tutti possiamo comunicare, lasciando da parte i dialetti che creano solo divisioni. E quel senso di appartenenza al quale ambivo così tanto mi ha infine pervaso quando ho conosciuto Laura, quella che due anni fa è diventata mia moglie. Sono entrato anch’io a far parte di una grande comunità.
Laura faceva la commessa in uno dei negozi che si trovavano subito al di fuori dei reparti della fabbrica. Vivendo da solo, trovavo comodo poter reperire in pochi minuti quelle poche cose che mi servivano per la cena. La mia noncuranza nel fare la spesa, così come la mia provenienza, non erano passate inosservate agli occhi di Laura, una ragazza bella e alla moda, che era nata e vissuta a pochi metri dalla fabbrica e che quindi si sentiva più che mai integrata in quel mondo che per me era tanto lontano da casa. Era stata lei a cercare di parlare con me e di farmi sentire a mio agio. Era in pena per me, voleva farmi sentire parte del suo mondo e allo stesso tempo vedeva nella mia storia e nella mia provenienza una via di fuga dalla sua vita preconfezionata.
Pochi mesi dopo il nostro matrimonio, il negozio in cui Laura lavorava ha chiuso: il numero di lavoratori della fabbrica, in costante diminuzione negli anni, così come la costruzione di un nuovo supermercato appena fuori dal perimetro aziendale, hanno fatto sì che le aree commerciali interne alla fabbrica si riducessero sempre più. Erano anni di desolazione: era scomparso il parco giochi, gli ambulatori non erano più presidiati, l’erba era incolta e l’illuminazione sempre più scarsa. Era arrivato il declino.
Laura mi aveva annunciato di aspettare un bambino proprio pochi giorni prima di perdere il lavoro, ma confidavamo di riuscire a tirare avanti anche soltanto con il mio stipendio. Poi un giorno il proprietario della fabbrica ha fatto il giro dei reparti e il suo volto era coperto di lacrime. Nel giro di poche ore mi è stata consegnata quella maledetta lettera che ha cambiato la mia vita e quella della famiglia che stavo creando. Una sera Laura si è sentita male e da quella volta non mi ha più parlato del figlio che aveva in grembo. La mia vita, i miei sogni, le mie aspettative, l’amore che avevo dentro di me per la realtà che stavamo amorevolmente costruendo, sono stati chiusi a chiave come i lucchetti intorno ai cancelli di accesso alla fabbrica.

2017.
Sono nata poco più di vent’anni fa in una cittadina dell’Est Europa nella quale la famiglia di mio nonno si è autoesiliata per evitare di finire in miseria. Qui dove vivo sembra esserci tanta povertà ma io non ne sono mai venuta in contatto, poiché in città c’è un’altra dozzina di famiglie agiate come la mia e ci frequentiamo solo tra di noi. Ho alcuni interessi: arte, giardinaggio, ma non so dire se l’aspetto di bellezza del mondo che ho intorno l’avrei colto anche se fossi nata e cresciuta al di fuori della mia attuale condizione agiata.
Quello che so dell’attività di famiglia proviene da qualche racconto dei miei genitori. So delle mie antiche origini nobili e del desiderio di mio nonno di restituire ai più umili, sottoforma di lavoro, almeno una parte del benessere di cui aveva goduto in vita. La sua idea di fabbrica, che inglobava un’intera città, al giorno d’oggi sarebbe inquietante. L’elemento antropico che sovrasta la presenza umana. L’uomo che vive in funzione delle macchine alle quali è asservito. Eppure la costruzione di mio nonno aveva in sé qualcosa di romantico: rappresentava una sorta di amore sia materno che paterno, un confine familiare all’interno del quale si svolgevano in modo protetto e sorvegliato tutte le umane attività, sotto l’occhio vigile del patriarca che per nessuna ragione avrebbe fatto mancare ai propri figli i mezzi per crescere serenamente.
Mio marito appartiene ad una famiglia con una storia simile alla mia. Siamo stati spinti a frequentarci sin dalla più giovane età ed avevo solo vent’anni quando mi sono avventurata in un matrimonio che aveva lo scopo di salvaguardare la condizione di entrambe le famiglie. Un’unione che mi ha vincolato ancora di più ad un mondo completamente etereo, liquido, così distante dalla concretezza del perimetro in cemento della fabbrica di mio nonno. Eppure è un mondo che ne costituisce semplicemente l’evoluzione.
Mio nonno ha dato lavoro a tanta gente: si può dire che abbia salvato alcune vite. Quando il suo modello imprenditoriale non è stato più sostenibile, si è ritirato, in modo da salvaguardare la condizione della propria famiglia, attento a non disperdere quanto aveva egli stesso ricevuto. I suoi operai trovavano in lui una natura quasi divina, in quanto poteva determinare nel bene o nel male le vite dei propri sottoposti. Il giorno in cui ha dovuto dire addio alla sua creazione ha sofferto e pianto. Ma non capiva che quell’istante sanciva la sua trasformazione in vera e propria divinità: gli dei di oggi non legittimano la propria esistenza grazie alle riverenze di chi li venera. L’odierno Olimpo, mai toccato da povertà e ristrettezza, poggia le proprie basi su giganteschi movimenti di numeri all’interno di un complesso apparato finanziario slegato dal mondo reale. Quello in cui mi ritrovo quasi costretta a vivere è un mondo da sogno, fatto per rimanere quasi segreto. Certamente possiede alcuni elementi di bellezza, che è mio compito cogliere e ai quali mi aggrappo con tutte le mie forze, altrimenti so che potrei non sopportarne il peso. Ma è un mondo totalmente vuoto, manca di concretezza, è poco più di un’illusione.
Sembra irrispettoso nei confronti della realtà in cui vivo, ma avrei tanto voluto lavorare nella fabbrica di mio nonno e lì conoscere ed amare un giovane proveniente da una famiglia modesta. Avrei apprezzato i suoi sforzi, la sua concretezza nella costruzione di un amore. Forse avrei vissuto tutta la vita con lui in un mondo fatto di ostacoli tangibili e spesso superabili. Solo al raggiungimento della pensione avrei messo mano ad una parte del capitale a mia disposizione e l’avrei usato per donare al mio compagno qualche anno di meritato riposo. O forse, ancora in giovane età, gli avrei rivelato di essere la nipote del proprietario della fabbrica e gli avrei dato accesso ad un inatteso mondo di agio, di benessere, di interazioni sociali. E ne sarebbe stato felice, ma per motivi diversi da quelli che si possono immaginare. Sì, perché chi ha dovuto badare alla propria sussistenza per tanti anni non gode per il ribaltamento dei ruoli di oppresso ed oppressore, ammesso che io stessa possa considerare mio nonno come appartenente a quest’ultima categoria. Ciò che avrebbe reso felice il mio uomo mai conosciuto sarebbe stata la comprensione dell’amore che muoveva l’intero progetto. Un intero microcosmo esistente grazie a chi ha condiviso il proprio benessere per migliorare la condizione di tutti, o almeno dei più prossimi, finché ha avuto senso farlo.
Ma quello che è stato non si può cambiare, e quindi le mie parole rimarranno liquide come questa società in cui vivo. Rimarrò confinata in questo Olimpo molto più crudele di una fabbrica. Con i miei legami familiari, dettati dalla logica, ma privi dell’amore che avrebbe dato ad essi una finalità. Ad occuparmi di come disporre di giardini ed oggetti d’arte, perché sono le uniche cose belle che vedo intorno a me e sulle quali posso agire in modo determinante. Vivrò in questo spazio etereo senza aver mai conosciuto un mondo lontano, fatto di arbusti selvatici che bucano il cemento di costruzioni abbandonate, di polvere che avvolge macchinari non più in uso, di luoghi che perdono identità e di famiglie che si estinguono come rami secchi per salvaguardare la pianta a cui appartengono.
Noi siamo la pianta, e continueremo a vivere, se non saremo troppo annoiati per farlo.

Ma a che prezzo?