Riviera Ligure, Luglio 1976
Avevo
notato per la prima volta la ragazza – splendida e giovanissima- un pomeriggio
di sabato. Stava lì, quasi immobile, seduta sulla barriera degli scogli, al
limitare del prato nel piccolo cimitero del borgo del Levante, affacciato sul
mare, in quel luglio poco dopo il giro di boa degli anni '70.
I miei genitori avevano penato
parecchio a trascinarmi, sedicenne inquieto e con gli amici tutti rimasti a Monza,
nelle loro due settimane di assolata vacanza balneare in Riviera.
Anno dopo anno, sgomitavo inquieto
per conquistare i miei spazi di libertà: fantasticavo di viaggi in treno lungo
le rotte dell'Europa col biglietto Inter-Rail. Ero sinceramente affascinato dai
racconti -spesso boccacceschi, e gonfiati senza ritegno- dei ragazzi un poco
più grandi di me, che avevano già varcato le nuove frontiere della
trasgressione. Massimo e Stefano verso la Svezia o la Danimarca. Luca,
addirittura, giunto l'anno passato fino a Capo Nord.
Vagavo per le strade interne ed
acciottolate del paesino, quindi, non sapendo che fare nel corso di pomeriggi
bollenti ed annoiati. Dovevo fra l'altro aspettare le canoniche tre ore, che
mia madre imponeva quale limite di sicurezza, dopo pranzo, per potermi
immergere, e trascorrere poi lungo tempo in acqua, a nuotare fino al largo
estremo, perdendomi nei pensieri. Ed anche, un po' annoiato, contando i giorni
che mi separavano dal rientro in città.
Nel corso di questo ciondolare
solitario, alcuni giorni prima mi ero spinto fin dentro il minuscolo
Camposanto, attratto dalle sue dimensioni inconsuete ma soprattutto dalla cura,
quasi maniacale, con cui la mano di qualche ignoto custode teneva tutto in
ordine, fiori, corone, vasi e candele.
Le lapidi scintillavano sotto il
sole a picco, mentre passeggiavo per i sentierini di ghiaia bianca, e mi
divertivo a guardare le vecchie foto ed a leggere i nomi scolpiti sui marmi.
Ignaro che, anni dopo, quello sarebbe diventato il mio mestiere, mi dilettavo ad
inventare le storie di vite sconosciute, incrociavo ed avvolgevo fra loro
quelle esistenze interrotte, simulavo trame oscure per le loro morti.
Confesso che la giovane ragazza
-avrà avuto un anno o due meno di me- rientrò fin da subito fra le attrattive
del luogo. E tornavo lì soprattutto per rivedere lei, ogni giorno dopo il
pranzo, a seguire quella prima volta in cui rimasi colpito dal suo viso sempre
rivolto verso il mare, assorta, come rapita da qualcosa che solo lei riusciva a
scorgere.
Adelaide: ero riuscito a scambiare
con lei qualche parola, e perfino a farmi dire il suo nome l'indomani, dopo uno
sforzo che mi era costato una fatica suprema ed indicibile, timido e chiuso
qual ero in quell'età. Adelaide era bellissima, ricordo, con lineamenti fini e
delicati, capelli lunghi mossi scuri, pelle di un'abbronzatura dorata e
naturale, occhi azzurro intenso.
Al terzo giorno, avevamo iniziato a
raccontarci qualcosa delle nostre vite. O meglio: ad essere sinceri, lei
raccontava. Io, adolescente imbranato con esperienza pressochè nulla dell'altro
sesso, per lo più tacevo, rapito e già perdutamente innamorato di quello
sguardo magico, dello stesso colore del mare che avevamo davanti.
Scuola, famiglia, amici, passioni,
sport. Quasi tutto, in breve tempo, sapevo di lei: Adelaide sembrava
sciogliersi giorno dopo giorno, e mi faceva partecipe della sua esistenza in
maniera torrenziale, come se fosse divorata dall'impeto di comunicarmi
l’essenza della sua vita.
Era molto brava al liceo classico,
frequentava con gli amici la parrocchia, giocava a pallavolo. Amava follemente i Beatles, scioltisi da
poco. Mi parlava di un cantautore nuovo, napoletano, che non avevo mai sentito:
Edoardo Bennato. I suoi genitori -che
gestivano una rivendita di alimentari nell'unica piazzetta del borgo- sognavano
per lei un futuro da avvocato. O da giornalista, chissà, rideva lei, quando le
confessai che a me piaceva soprattutto scrivere, e mi isolavo volentieri nella
mia cameretta, picchiando forsennato sui tasti di una Lettera22, a fissare
sulla carta il mondo che mi circondava.
Poi c'era Danilo, ad occupare il suo
cuore. Mi raccontava spesso di questo suo amore immenso, il suo angolo felice.
Lui aveva 17 anni, adorava le moto, le corse indiavolate lungo la strada
Aurelia quando -all'imbrunire- il traffico si faceva rado, e potevano mangiarsi
(disse proprio così: mangiarsi) le curve strette, sul pelo dei muretti, con lei
che lo stringeva da dietro, i capelli al vento, e non chiudeva mai gli occhi.
Neanche quando aveva paura.
Immaginarsi la mia ostilità, la
gelosia immediata da ragazzetto innamorato, verso questo malefico Danilo. Colui che mi aveva già rapito, senza neppure
saperlo, la ragazza più bella che avessi mai visto : sì, a Monza mica ce
n'erano di tanto splendide. L'unica, insomma.
Dopo circa una settimana di parole
davanti al mare, Adelaide interruppe improvvisamente i nostri pomeriggi sulla
scogliera: “Da domani non ci vedremo più, mi dispiace” e fu la prima
stilettata, a freddo, al mio giovane cuore “sai, debbo raggiungere Danilo, è
partito da un po' di tempo, mi manca tantissimo e non vedo l'ora di rivederlo,
di stendermi al sole vicino a lui, di parlargli abbracciandolo stretto”, ed
ecco la seconda lama di ghiaccio a ferirmi, spietata.
Lei sorrideva, appariva inconsapevole
di tutto questo mio dolore e felice: “Mi ha fatto piacere conoscerti, tanto,
davvero. Sei un ragazzo speciale, mi sei piaciuto moltissimo fin da subito: hai
dentro qualcosa che gli altri non hanno, come una fiamma segreta, che brucia
senza farsi vedere, ma chi sa guardarti dentro può scorgerla. Sei tanto timido,
e questo è il bello di te”.
Io, taciturno come sempre, ero
imbalsamato dal dispiacere, incapace di decidere se dovevo sentirmi fiero e
lusingato da simili parole, che nessuna ragazza mai mi aveva dedicato prima, o
se invece maledire il Cielo, perchè la creatura più bella del mondo mi stava
sfuggendo per sempre.
“Ne sono certa, un giorno diventerai
un giornalista, uno di quelli bravi e famosi”. E gli occhi iniziavano,
inevitabilmente, a riempirmisi di lacrime. Mi diede un bacio, come un soffio
leggero e caldo sulla guancia. “Ricorda, io farò il tifo per te, anche se non
mi vedi” sussurrò.
Incapace di trattenermi oltre, lì
seduto dov'ero, con la testa chiusa fra le ginocchia esplodevo, singhiozzando,
nel primo vero pianto d'amore della mia giovane vita, disperato e
profondo. Quando, alcuni minuti dopo,
rialzavo la testa, con gli occhi gonfi e rossi, Adelaide non c'era più, se
n'era andata via in silenzio.
Rientrai con un nodo doloroso a
stringermi la gola nella casetta presa in affitto dai miei, mentre loro
certamente erano ancora a rosolarsi al sole, ignari, sulla spiaggia. Mi
rifugiai verso il mio porto sicuro, alla fidata Lettera22. E lì, seduto alla mia amata tastiera, con gli
occhi velati dalle lacrime raccontai a lettori immaginari della mia storia
sventurata. Il cui ricordo era destinato -ma questo non lo potevo sapere- a
dissolversi rapido con la ripresa delle scuole, e le prime nebbie, lassù in
Brianza.
Era il 22 Luglio 1976.
* * * * * * * * * * * *
Riviera Ligure, Maggio 2015
Sbarcato dal volo Parigi -Milano, neppure il tempo di
cambiare valigia, ed eccomi – su ordine del mio Direttore- catapultato dopo un
viaggio tortuoso in treno, in un paesino che ben conoscevo, lindo e piccolissimo,
disteso sul mare, poco più a Levante di Genova.
Il mio reportage sulla banlieu
francese deve avere riscosso un notevole successo fra i lettori, se l'incarico
successivo -comunicato con una mail asettica, letta sul tablet in attesa
dell'imbarco al “Charles de Gaulle”- è
quello di raccontare di una locale Sagra
del Pesce che si ripete ogni anno in questo periodo, dalla notte dei tempi, a
quanto pare...
Quanti ricordi, però. Ricordi che affiorano,
un po' a fatica, da un passato lontano e polveroso: estati calde ed assolate. I
miei genitori, con me adolescente, seduti a tavola nella piccola casa sulla
strada principale del paese. Mia mamma giovane, sempre col sorriso ed i suoi
costumi interi a grandi fiori colorati. “Ragazzo, devi fare il pieno di sole in
queste due settimane” ripeteva in quei giorni mio padre, abbronzato da fare
paura “che poi su da noi l'inverno è maledetto e lungo, e ti entra nelle ossa”.
Sorrido, pensando a queste scene di
ordinaria vita familiare ormai sbiadite dagli anni -quanti? quaranta? forse sì-
e mi avventuro, sotto una pioggerella leggera, fra le poche stradine che s'
intersecano strette, cercando un bar aperto. Anzi, “il” bar, visto che
l'emporio nella microscopica piazzetta pare ancora essere l'epicentro del
borgo: tabaccheria, alimentari, giornalaio, e chissà cos'altro.
Entro, e mi accoglie cortese un uomo
anziano. Avrà ottant'anni se non di più. Ha la pelle cotta dal sole, le rughe
profonde a solcarla, i capelli bianchi e lucenti così come i denti,
impressionanti da quanto sono regolari ed immacolati.
Dietro il bancone, intenta a pulire
l'affettatrice con una salvietta, una vecchietta magra -certamente la
moglie- dagli occhi azzurri e lo sguardo
dimesso.
Sono un po' provato dal viaggio.
Chiedo un panino, mi siedo allo sgabello e -gesto ormai automatico ed
incondizionato- consulto la posta sull'Iphone, perennemente in mano. Appena il
tempo di borbottare qualcosa sulla linea che arriva debole, ed alzo lo sguardo,
verso la parete alle spalle della signora che sta lentamente affettando il
pane.
Una fotografia incorniciata, di
quelle con i colori ormai sbiaditi dagli anni. Il primo piano, ingrandito, di
una ragazzina di un'altra epoca, sorridente, con i capelli scuri, e gli occhi
azzurri, illuminati dal sole. Il tempo passato si sgretola, si deframmenta in
un secondo. Non può essere....
Come se, dalla vetta di un
ghiacciaio lontano, si staccasse una piccola palla di neve, silenziosa. Come se
rotolando a valle si facesse sempre più grande, e più grande ancora. Come se diventasse
una valanga, che si schianta infine, fragorosa e devastante.
Adelaide.
Si apre, lentamente, uno squarcio di
ricordo, dentro di me. La signora, anziana e gentile, si accorge di qualcosa.
Certamente nota il mio sguardo fisso sulla foto, ed il suo aspetto si fa ancor
più triste.
“E' la mia bambina, vede? Sono
passati tanti e tanti anni, ma per me è come se ne avesse sempre 14... “le si
inumidivano gli occhi “aveva tutta una vita davanti, era bravissima a scuola e
tutti gli insegnanti ci dicevano che avrebbe avuto un grande futuro Ed
invece...”inizia a piangere sommessa.
Suo marito, che ascolta poco
distante riordinando uno scaffale, si torce le mani ed annuisce in silenzio.
“Cosa le è successo, signora?”
chiedo. E mentre pronuncio queste poche parole, mi ascolto la voce, e neppure
la riconosco, da come esce tremante ed insicura.
“Mi fa ancora male, male, parlarne,
sa... Adelaide era giovane, innamorata di un ragazzo di un paese vicino,
Danilo, bravo e bello come lei. Insieme erano una coppia meravigliosa,
sembravano nati per incontrarsi e stare insieme felici. Danilo era appassionato di corse in moto,
spericolato come tutti i ragazzi a quell'età. Non sapeva cosa fosse la paura.
Una notte, era marzo e pioveva a dirotto, lo hanno trovato schiantato in un
burrone, morto sul colpo, a pochi chilometri da qui, sulla strada Aurelia”.
Interviene il marito, quasi in
soccorso della povera donna, che ormai singhiozza, incapace di proseguire, con
un fazzoletto ad asciugarsi il viso.
“Adelaide era troppo giovane ancora,
per un amore tanto grande. Non ce l'ha fatta, a sopportare il dolore. Mia
moglie ed io abbiamo provato in ogni modo a consolarla, a farla distrarre, a
spiegarle che il suo ragazzo avrebbe voluto vederla di nuovo felice e col suo
bel sorriso. Ma i giorni ed i mesi passavano, inutilmente. Sfioriva sempre più,
i suoi occhi azzurri erano divenuti sbiaditi, sempre persi a guardare nel
vuoto. Diceva che Danilo la stava aspettando, che la notte poteva sentire la
sua voce, e sarebbero tornati presto insieme”.
Mio Dio.
“Cercavamo di restare sempre con
lei, di non lasciarla mai sola. Ha approfittato di uno dei pochi momenti in cui
abbiamo abbassato la guardia... e... “deglutisce nervosamente, le mani sempre
tormentate “una sera buia, senza luna, l'abbiamo trovata impiccata nel
giardino, ad una trave della sua altalena”.
Lungo la schiena, brividi sulla
pelle. Mi accorgo di avere la bocca completamente asciutta, e sono incapace di
proferire parola.
“Lei non può immaginare “interviene
ancora la donna, che pareva essersi un poco ripresa “quante volte, con mio
marito, abbiamo scongiurato Dio di perdonarla, di lasciare che si riunisse al
suo Danilo, per sempre, come lei sognava. Le piaceva tanto stare distesa vicino
a lui, a leggere libri, nella spiaggetta sotto la Chiesa, ed abbronzarsi al
sole”.
Rialzo lo sguardo, sconvolto, alla fotografia
che mi sorride dalla parete. La mia bellissima Adelaide. Sulla cornice, alla
base, i genitori hanno applicato una targhetta in ottone, con la data di
nascita e quella -quanto deve essere costato a queste povere persone- della sua
tragica morte. Mi sforzo di leggere.
Era il 23 Luglio 1976.
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