1965.
Non è merito mio l’esser nato in
una famiglia agiata. Merito mio sarebbe eventualmente utilizzare i beni di cui
dispongo per migliorare l’ambiente in cui vivo e le condizioni di chi si trova
a lavorare per me.
Sono nato in una famiglia che
cent’anni fa si distingueva per nobiltà e, ora che i titoli nobiliari non
contano più, l’unico modo che abbiamo per misurare quello che siamo è dato
dalla nostra disponibilità di denaro. Durante le guerre, la nostra città si è
mantenuta in vita anche grazie alla filatura avviata nel secolo scorso dai miei
antenati, ottenendo perfino che alcuni dei nostri salariati venissero
dispensati dall’impiego militare. La benedizione della nostra condizione agiata
ha permesso di salvare alcune vite che non avrebbero potuto scegliere nulla di
per sé. Ma anche questo non è un merito: è solo il frutto di un volere più
grande.
Quello che ora voglio fare è
prendere atto dei nuovi mezzi di produzione e delle rinnovate necessità della
popolazione di cui mi sento responsabile, e sperimentare un’innovativa
tipologia di fabbrica. Partiremo dalla nostra tradizione tessile per costruire
un centro lavorativo perfettamente integrato nell’ambiente urbano. Più che una
fabbrica, la nostra sarà una vera e propria città, con negozi e mercati appena
fuori dai reparti in cui i nostri dipendenti svolgeranno il proprio lavoro. Ci
sarà una foresteria che accoglierà i nuovi assunti che arrivano da lontano. Un
grande parco attrezzato regalerà luce e serenità a chi vorrà trascorrere con la
propria famiglia le pause lavorative. Ci saranno ambulatori medici, scuole,
perfino una chiesa per chi vorrà pregare. A regime, il nostro centro darà
lavoro direttamente o indirettamente a quindicimila persone e tutte vivranno a
pochi metri dal luogo in cui troveranno impiego. Ed ognuno vivrà la propria condizione
come un privilegio.
Applicheremo le più innovative
soluzioni della tecnica per creare un ambiente lavorativo in cui saranno
ridotte al minimo le azioni ripetitive. I nostri operai si trasformeranno
gradualmente in tecnici e specialisti delle apparecchiature che costituiranno
il loro patrimonio lavorativo. Gli orari saranno flessibili, per conciliare la
vita lavorativa con quella familiare.
Ma questo non è tutto. Sappiamo
che il futuro riserverà sempre maggior spazio alle macchine e che verranno a
mancare molti dei ruoli adesso ricoperti dalle nostre persone. Per questo vogliamo
cominciare già da ora a valorizzare in tutti gli ambiti la crescita di chi lavora
per noi. Alcuni imprenditori generosi, dei quali ho la fortuna di essere amico,
si sono offerti di concedere gratuitamente ai nostri dipendenti e alle loro
famiglie l’accesso gratuito alle migliori proposte educative, agli spettacoli
teatrali e cinematografici, alle scuole di specializzazione, ai corsi
formativi, alle mostre d’arte e di tecnica, alle borse di studio, ai campeggi e
agli alloggi di vacanza, ai percorsi di crescita professionale ed umana. E’ la
speranza nel futuro e nelle nuove generazioni ciò che ci muove. Per questo la
nostra non sarà solo la costruzione di una fabbrica ma la costruzione di un
amore.
1991.
Nove anni fa ho abbandonato il
mio paese per venire a lavorare qui nella fabbrica. Quando sono arrivato
parlavo solo in dialetto ed ero impaurito dalle usanze del posto in cui ora mi
trovo. Eppure cercavo di essere forte, perché volevo sollevare i miei genitori
dalla responsabilità di crescermi in una terra povera di lavoro e di
opportunità. Mio padre e mia madre erano felici per me e un po’ alla volta stavano
iniziando ad abbandonare i pianti e le malinconie iniziali. Certo all’inizio
non ho trovato un ambiente facile, e sono stato spesso deriso per il mio
accento, ma non ho mai visto una vera cattiveria nelle azioni altrui. Anzi, c’era
nei miei colleghi una sorta di spirito di appartenenza, qualcosa che sapevo che
avrei potuto provare anch’io un giorno.
Il proprietario della fabbrica è
un uomo d’altri tempi. Una mente illuminata. Ho avuto il piacere di incontrarlo
personalmente più volte e si è sempre fatto carico della mia situazione. Ha
voluto che andassi a scuola, spesso dandomi dei permessi retribuiti in orario
lavorativo, perché ci teneva che imparassi a parlare e scrivere correttamente
nella lingua grazie alla quale tutti possiamo comunicare, lasciando da parte i
dialetti che creano solo divisioni. E quel senso di appartenenza al quale
ambivo così tanto mi ha infine pervaso quando ho conosciuto Laura, quella che
due anni fa è diventata mia moglie. Sono entrato anch’io a far parte di una
grande comunità.
Laura faceva la commessa in uno
dei negozi che si trovavano subito al di fuori dei reparti della fabbrica. Vivendo
da solo, trovavo comodo poter reperire in pochi minuti quelle poche cose che mi
servivano per la cena. La mia noncuranza nel fare la spesa, così come la mia
provenienza, non erano passate inosservate agli occhi di Laura, una ragazza
bella e alla moda, che era nata e vissuta a pochi metri dalla fabbrica e che quindi
si sentiva più che mai integrata in quel mondo che per me era tanto lontano da
casa. Era stata lei a cercare di parlare con me e di farmi sentire a mio agio.
Era in pena per me, voleva farmi sentire parte del suo mondo e allo stesso
tempo vedeva nella mia storia e nella mia provenienza una via di fuga dalla sua
vita preconfezionata.
Pochi mesi dopo il nostro matrimonio,
il negozio in cui Laura lavorava ha chiuso: il numero di lavoratori della
fabbrica, in costante diminuzione negli anni, così come la costruzione di un
nuovo supermercato appena fuori dal perimetro aziendale, hanno fatto sì che le
aree commerciali interne alla fabbrica si riducessero sempre più. Erano anni di
desolazione: era scomparso il parco giochi, gli ambulatori non erano più
presidiati, l’erba era incolta e l’illuminazione sempre più scarsa. Era
arrivato il declino.
Laura mi aveva annunciato di
aspettare un bambino proprio pochi giorni prima di perdere il lavoro, ma
confidavamo di riuscire a tirare avanti anche soltanto con il mio stipendio. Poi
un giorno il proprietario della fabbrica ha fatto il giro dei reparti e il suo
volto era coperto di lacrime. Nel giro di poche ore mi è stata consegnata
quella maledetta lettera che ha cambiato la mia vita e quella della famiglia
che stavo creando. Una sera Laura si è sentita male e da quella volta non mi ha
più parlato del figlio che aveva in grembo. La mia vita, i miei sogni, le mie
aspettative, l’amore che avevo dentro di me per la realtà che stavamo amorevolmente
costruendo, sono stati chiusi a chiave come i lucchetti intorno ai cancelli di
accesso alla fabbrica.
2017.
Sono nata poco più di vent’anni
fa in una cittadina dell’Est Europa nella quale la famiglia di mio nonno si è
autoesiliata per evitare di finire in miseria. Qui dove vivo sembra esserci
tanta povertà ma io non ne sono mai venuta in contatto, poiché in città c’è
un’altra dozzina di famiglie agiate come la mia e ci frequentiamo solo tra di
noi. Ho alcuni interessi: arte, giardinaggio, ma non so dire se l’aspetto di
bellezza del mondo che ho intorno l’avrei colto anche se fossi nata e cresciuta
al di fuori della mia attuale condizione agiata.
Quello che so dell’attività di famiglia
proviene da qualche racconto dei miei genitori. So delle mie antiche origini nobili
e del desiderio di mio nonno di restituire ai più umili, sottoforma di lavoro,
almeno una parte del benessere di cui aveva goduto in vita. La sua idea di
fabbrica, che inglobava un’intera città, al giorno d’oggi sarebbe inquietante.
L’elemento antropico che sovrasta la presenza umana. L’uomo che vive in
funzione delle macchine alle quali è asservito. Eppure la costruzione di mio
nonno aveva in sé qualcosa di romantico: rappresentava una sorta di amore sia
materno che paterno, un confine familiare all’interno del quale si svolgevano
in modo protetto e sorvegliato tutte le umane attività, sotto l’occhio vigile
del patriarca che per nessuna ragione avrebbe fatto mancare ai propri figli i mezzi
per crescere serenamente.
Mio marito appartiene ad una
famiglia con una storia simile alla mia. Siamo stati spinti a frequentarci sin
dalla più giovane età ed avevo solo vent’anni quando mi sono avventurata in un
matrimonio che aveva lo scopo di salvaguardare la condizione di entrambe le
famiglie. Un’unione che mi ha vincolato ancora di più ad un mondo completamente
etereo, liquido, così distante dalla concretezza del perimetro in cemento della
fabbrica di mio nonno. Eppure è un mondo che ne costituisce semplicemente
l’evoluzione.
Mio nonno ha dato lavoro a tanta
gente: si può dire che abbia salvato alcune vite. Quando il suo modello
imprenditoriale non è stato più sostenibile, si è ritirato, in modo da
salvaguardare la condizione della propria famiglia, attento a non disperdere
quanto aveva egli stesso ricevuto. I suoi operai trovavano in lui una natura
quasi divina, in quanto poteva determinare nel bene o nel male le vite dei
propri sottoposti. Il giorno in cui ha dovuto dire addio alla sua creazione ha
sofferto e pianto. Ma non capiva che quell’istante sanciva la sua trasformazione
in vera e propria divinità: gli dei di oggi non legittimano la propria
esistenza grazie alle riverenze di chi li venera. L’odierno Olimpo, mai toccato
da povertà e ristrettezza, poggia le proprie basi su giganteschi movimenti di
numeri all’interno di un complesso apparato finanziario slegato dal mondo
reale. Quello in cui mi ritrovo quasi costretta a vivere è un mondo da sogno,
fatto per rimanere quasi segreto. Certamente possiede alcuni elementi di
bellezza, che è mio compito cogliere e ai quali mi aggrappo con tutte le mie
forze, altrimenti so che potrei non sopportarne il peso. Ma è un mondo totalmente
vuoto, manca di concretezza, è poco più di un’illusione.
Sembra irrispettoso nei confronti
della realtà in cui vivo, ma avrei tanto voluto lavorare nella fabbrica di mio
nonno e lì conoscere ed amare un giovane proveniente da una famiglia modesta.
Avrei apprezzato i suoi sforzi, la sua concretezza nella costruzione di un
amore. Forse avrei vissuto tutta la vita con lui in un mondo fatto di ostacoli tangibili
e spesso superabili. Solo al raggiungimento della pensione avrei messo mano ad
una parte del capitale a mia disposizione e l’avrei usato per donare al mio
compagno qualche anno di meritato riposo. O forse, ancora in giovane età, gli
avrei rivelato di essere la nipote del proprietario della fabbrica e gli avrei
dato accesso ad un inatteso mondo di agio, di benessere, di interazioni
sociali. E ne sarebbe stato felice, ma per motivi diversi da quelli che si
possono immaginare. Sì, perché chi ha dovuto badare alla propria sussistenza
per tanti anni non gode per il ribaltamento dei ruoli di oppresso ed
oppressore, ammesso che io stessa possa considerare mio nonno come appartenente
a quest’ultima categoria. Ciò che avrebbe reso felice il mio uomo mai
conosciuto sarebbe stata la comprensione dell’amore che muoveva l’intero
progetto. Un intero microcosmo esistente grazie a chi ha condiviso il proprio
benessere per migliorare la condizione di tutti, o almeno dei più prossimi, finché
ha avuto senso farlo.
Ma quello che è stato non si può
cambiare, e quindi le mie parole rimarranno liquide come questa società in cui
vivo. Rimarrò confinata in questo Olimpo molto più crudele di una fabbrica. Con
i miei legami familiari, dettati dalla logica, ma privi dell’amore che avrebbe
dato ad essi una finalità. Ad occuparmi di come disporre di giardini ed oggetti
d’arte, perché sono le uniche cose belle che vedo intorno a me e sulle quali
posso agire in modo determinante. Vivrò in questo spazio etereo senza aver mai
conosciuto un mondo lontano, fatto di arbusti selvatici che bucano il cemento
di costruzioni abbandonate, di polvere che avvolge macchinari non più in uso, di
luoghi che perdono identità e di famiglie che si estinguono come rami secchi
per salvaguardare la pianta a cui appartengono.
Noi siamo la pianta, e continueremo
a vivere, se non saremo troppo annoiati per farlo.
Ma a che prezzo?
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