lunedì 2 luglio 2018

Marco Gagliani - L'ultima notte sulla terra

Il buio non sarebbe durato a lungo, ma a lui andava bene così. Alla fine era arrivato su quella panchina del belvedere di Castelletto, aveva respirato lasciando uscire un ultimo sbuffo di vapore bianco dal naso e si era lasciato scivolare dolcemente su quella stessa panchina. La vista da lì era stupenda, di giorno si poteva ammirare la città in tutto il suo splendore, con le macchine e le persone, tutti in movimento, tutti indaffarati, senza che l'idea che qualcuno li stesse osservando potesse sfiorarli; anche se il suo sguardo veniva attratto più che da tutto il resto dal manovrare delle navi in porto. Giganti di metallo che si muovevano entrando in città con lentezza e discrezione, quasi a chiedere il permesso, trasportando al loro interno meraviglie di mondi lontani ed allora ancora irraggiugibili, o genti che si apprestavano a rendere omaggio alla superba perdendosi nelle sue meraviglie. Ora, nel silenzio delle ultime ore della notte, sotto ai suoi occhi si spiegava uno spettacolo quantomeno inusuale, il silenzio di tutta la città era interrotto solo dallo spirare del vento gelido, per il resto nulla, nessun movimento, nessun rumore molesto, solo la pace di qualche migliaio di anime che riposavano nell'attesa dell'alba. Quello era senza di dubbio il suo posto nel mondo, quella panchina per lui c'era sempre stata, ogni volta che nella sua vita si era trovato dinnanzi ad un bivio piuttosto che a una svolta il buon Giacomo era andato lì, su quella panchina a guardare il suo mondo e a pensare. Gli piaceva pensare, gli piaceva davvero tanto, non che credesse fosse utile, non sempre quanto meno, anzi, a volte il pensiero lo portava ad affacciarsi su abissi spaventosi, ma proprio quest'esercitarsi in una pratica che tutti ritenevano ormai inutile, una perdita di tempo, specialmente in un'epoca che si apprestava a superare la modernità e che avrebbe trasformato il tempo stesso in denaro, gettare al vento un paio di banconote di tanto in tanto assumeva per lui un valore catartico. Andava a saziare perfettamente quella sua necessità di viaggiare in direzione contraria rispetto al mondo, di non avere paura di alzare una voce capace di distinguersi da quella della massa, e ripeto, non che gli avesse portato qualche beneficio materiale, ma la sua anima in quell'esercizio tornava a vedere la luce.
Su quella terrazza era giunto per la prima volta un'ottantina di anni prima, in un giorno di inizio giugno, per essere precisi l'ultimo della quinta elementare. Uscito da scuola era stato colto da uno stato di profondo turbamento, come se ogni certezza fosse crollata, come se si fosse trovato esposto per la prima volta a un mondo tanto difficile da comprendere, sentì in cuor suo di avere la necessità di mettere un freno a questo disfarsi delle cose. Dopotutto la classe, il signor maestro, tutto ciò che lo aveva più o meno dolcemente cullato in quegli interminabili cinque anni si era dissolto al suono dell'ultima campana. Così passo dopo passo, nella strada verso casa, quando era giunto di fronte a quella panchina, per la prima volta aveva distolto gli occhi dalle sue scarpe blu e in quel momento aveva sentito un'attrazione quasi magnetica, nulla gli avrebbe impedito di sedersi lì, anche solo per un paio di minuti. E infatti andò così, curiosamente la visione di quell'immensità non lo spaventò e nemmeno lo meravigliò, generò semplicemente un senso di pace; se quello era solo un puntino sul mappamondo, e già era così grande, figuriamoci cosa doveva essere la fine delle scuole elementari per il mondo intero, un nulla. Sentirsi insignificante lo fece stare bene, si sentì leggero, quasi felice, tanto da scordarsi del passare del tempo, e poco importava degli schiaffi presi per essere rincasato con il buio, quella sensazione avrebbe reso sopportabile qualsiasi cosa.
Su quella stessa panchina si era concluso il primo appuntamento con la sua Maria, si erano salutati, timidamente senza baci, solo un sorriso, non aveva avuto il coraggio di andare oltre, dopotutto era ancora un ragazzino e quella cosa che gli si agitava dentro, fino a tenerlo sveglio la notte e a contorcergli le viscere non sapeva bene come gestirla. Non avrebbe mai potuto dirle esplicitamente quello che provava, troppo difficile, troppo distaccato, e poi non era una cosa da uomini, alla fine se avevano passato quel pomeriggio a parlare e camminare, da soli, voleva dire che lei sapeva, insomma era una donna, come avrebbe potuto non saperlo? Erano passati mesi, mesi e kilometri di strada fatta insieme senza che succedesse nulla, alle volte un brivdo gli correva lungo la schiena quando le mani che ciondolavano a ritmo di marcia si sfioravano, poi erano tornati lì, sul belvedere ed erano rimasti a guardare il tramonto calare sulla città. Infranta la regola di tornare prima di sera Luca pensò che avrebbe potuto anche infrangerne un'altra, e così, guardandola negli occhi, con il cuore che cavalcava all'impazzata spargendo per tutto il corpo un miscuglio di emozioni indecifrabili e il fiato cortissimo come se avesse corso una maratona, non che in quel momento respirare sarebbe servito a qualcosa, ne avrebbe potuto fare benissimo a meno, con un tremolio delle labbra che tradiva il pandemonio che lo stava travolgendo, la baciò. In quell'istante sperò ardentemente che quelle sarebbero state le uniche labbra che avrebbe baciato nella sua vita e di non dover mai smettere di baciarle. E in effetti con il passare del tempo si convinse che un dio benevolo lo avesse ascoltato quel giorno, e quando la portò all'altare pensò di aver stretto un vero e proprio patto con lui "non osi l'uomo dividere ciò che dio ha unito" tutto era perfetto, al di là delle difficoltà, dei possibili litigi, di tutto ciò che il destino gli avrebbe messo davanti, la vita insieme sarebbe stata meravigliosa.
Sarebbe stata, se una sera, al ritorno dal turno non avesse trovato un bigliettino sul tavolo della cucina, una sola parola strisciante "scusami", nulla era rimasto di lei in casa, non un oggetto, non una foto e nemmeno il suo profumo. Se n'era andata da quella casa ma non da lui, Luca non l'aveva mai dimenticata, e come si fa a dimenticare il motivo per cui si vive, nel suo mondo fiabesco la loro storia non era finita, sperava che in qualche modo si sarebbero ritrovati, anche dopo "cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni" come in quella meraviglia del Gabo Marquez, che tanto l'aveva consolato e aveva fatto ardere il fuoco della speranza. Peccato che alla fine non fosse andata così, e anzi, il buon Luca pensava che il fatto di non sognarla nemmeno più da così tanto tempo fosse indicativo del fatto che la sua storia stesse finendo, erano ben trentun giorni che non gli appariva, non gli era mai successo.
Ora la notte si tingeva di rosa e gli uccellini sugli alberi ai fianchi della panchina avevano iniziato a cantare, aveva sempre odiato quel suono che gli impediva di dormire quando distrutto dalla fatica tornava a casa dopo il turno di notte, curioso come questa volta non gli avrebbero impedito di chiudere gli occhi. Per una volta nessun potere avrebbe potuto fermarlo o impedirgli di fare ciò che voleva, anzi, forse uno sì, il solito Dio che come la vita gli aveva insegnato non era infinitamente potente e buono, esattamente come tutti i poteri esercitati dalla gente. All'inizio lui ci credeva nel potere, credeva davvero che se fosse stato ben esercitato avrebbe potuto cambiare il mondo, c'aveva creduto quella volta che aveva scritto "Antoniazzi" sulla scheda elettorale, quel suo compagno di classe un po' scalmanato ma che infondo era sempre stato un buono, credeva che non si sarebbe scordato del suo paese, delle sue origini, che non sarebbe stato fagocitato dal sistema. Al secondo mandato venne arrestato per tangenti, su qualche articolo di giornale la solita scusa "lo fanno tutti" e forse era anche vero. Aveva creduto nel potere anche quella volta che quel suo collega, ragazzino di diciannove anni, era morto, orribilmente schiacciato in cantiere, e quando i sindacati avevano alzato la voce per guidare una protesta affinchè non ci fossero più morti bianche, affinchè nessuno dovesse più sottostare a turni massacranti, affinchè nessuno fosse più sfruttato lui c'aveva creduto. Aveva pertecipato alle assemblee, all'occupazione del cantiere, aveva sfilato per la città, fin sotto la sede del comune, dove quel potere con cui pensava di poter parlare si era arroccato e sentendosi minacciato aveva delegato il dialogo ai reparti della celere; ma lui credeva in quell'utopia ed era rimasto a testa alta, in prima fila. Peccato solo che quando il potere dei manganelli fece zampillare sangue anche dalla sua testa, con lui non ci fosse nessuno dei sindacalisti che megafono in mano avevano aizzato la folla, esattamente come quando un paio di giorni dopo gli fu consegnata la lettera di licenziamento "Vede, noi vorremmo aiutarla, ma credo che lei si sia spinto davvero troppo in là". Anche quel giorno si era seduto sulla panchina a piangere con il volto tra le mani, un'altra picconata aveva fatto crollare il mondo che tanto faticosamente aveva costruito, dentro e fuori di sè, in tutti quegli anni.
Ora, con il sole che faticosamente emergeva dal mare, dopo aver fatto i conti con la propria vita, una vita che malgrado tutto non riusciva a definire amara, Giacomo pensò che la fine fosse veramente arrivata, chiuse gli occhi e sorrise. Certo non era andato tutto come aveva previsto, anzi quasi niente, ma il fatto che le cose fossero andate diversamente non doveva significare per forza che si fosse trovato male, lui alla vita aveva dato tutto, non avrebbe cambiato nulla del suo percorso, nè di ciò che era, lei non gli aveva dato poi molto ma pazienza, la vita è anche questo e forse la cosa migliore che potesse fare era lasciarla senza rimpianti.
E poi chissà, forse dall'altra parte avrebbe rincontrato quelle labbra.

Tiziana Delsale - Mandrea

Isola, terra brumale
 micro bulbo stanziale

dalle radici tue vagabonde
le idee fervono errabonde

prudono le ore gioconde
starnutisce il tempo gioviale

gocciola il cuore di bellezza
 in quel fazzoletto di gaiezza

gira nudo il cielo, il canto sale

di chiacchiera si spumeggiano le onde
sul suo cuore, stesa, la rena risponde

con l’affettato tono nasale

la voce del granello
raspa di notte l’avello.

Di Mandrea, il segreto
tesor di bosco, sul dir faceto

tace la luna, dormono le rondini
in volo, sulla verità di frassineto
              che ancora si nasconde.

Tiziana Delsale - Alan

Quello che non ho una canzoncina
qui dentro, da cantare,
nel freddo e calmo mare.

Più in basso, e ancor più giù
guizzando
balene e Pinocchi,
migranti
verso le sorgenti di fiabe
eterne,
trasportano i singhiozzi
di stelle
su minuscole barche
di luce
e la croce d’amore
con braccia
di bambino esangue
solleva
il corpicino mio, or che
s’ammuta
la taccia di clandestino.

Quello che non ho sono le paroline
del fratellino, il destino da fronteggiare
e il nostro freddo e calmo mare.

Barbara Stangalini - La casa nel viale alberato

E' quasi un bel giorno di festa, ed ancora immagino di aprire quella finestra e poter vedere davanti a me i colori e le sfumature del cielo sul far della sera, mentre ogni luce si accende dando atto a quel pittoresco paesaggio un po' surreale e un po' incantato.Era bello soffermarsi a lungo ad ascoltare il gracidare delle rane ed il vocio dei grilli mentre la sera lenta scendeva, e noi si chiacchierava animatamente perché ogni piccolo oggetto ed ogni particella del creato diventava poesia...e allora avrei voluto rimanere lì ogni giorno della mia vita e poter gioire nella sera di un luogo splendente e fatato. A volte, quando a tarda notte si alzava un filo di brezza, si udiva solo il rumore delle frasche, e l'ombra degli alberi ondeggiava un po' creando disegni più scuri, e pareva che danzassero davanti a noi,che nottambuli proseguivamo con il nostro chiacchierio a bassa voce per non spezzare l'incantesimo.
Quando il sole si destava inondando le stanze il mattino seguente, tutto appariva differente e la poesia si fermava momentaneamente, perché di giorno tutto tornava alla normalità, il tintinnio delle tazze della colazione trasmetteva buonumore, disegnando un sorriso sul volto mentre gli occhi ancora un po' stropicciati dal sonno iniziavano lentamente a svegliarsi, sereni e lieti in quella stanza dalle bianche e trasparenti tende.                       
Le ore mattutine trascorrevano così velocemente, e mentre la disco music di quegli anni suonava, io giravo impaziente e contenta canticchiando,perché tutto era così perfetto in quel luogo,e quando l'orologio scandiva quasi il mezzodì scendevo le scale correndo e lesta me ne andavo per quella strada che continuai a percorrere anche in seguito senza mai stancarmi. Entrando nel negozio di gastronomia si sentiva il profumo del pane appena sfornato, ed ogni giorno ne uscivo con un piccolo cartoncino triangolare di crema alla vaniglia, dolce come la freschezza dei sapori di quelle terre.
E' quasi un giorno di festa, e immagino di udire quel passo veloce che gira l'angolo della strada ed il campanello che suona trillante mentre sto preparando una frugale cena a base di focaccia calda con patè di olive e frutta di stagione; come sempre mi sono attardata un po' a giocare con i piedi nell'acqua ed a chiacchierare con due amici che mi portano le albicocche appena colte dalla pianta ed ho ancora la sabbia nelle ciabatte, ma la sera è lunga e quando si accendono le prime luci penso che si potrebbe andare a vedere un film in paese o a fare una passeggiata ed incontrare un po' di gente.
Era una casa all'ultimo piano, bella e splendente, e quando entravo nell'ascensore sentivo un tipico ed inconfondibile profumo, che a risentirlo oggi mi riporta sempre là mentre il cuore si stringe un poco con nostalgia, e l'allora fabbrica di detersivi in quella strada che scendeva dritta verso il centro non esiste più, e al suo posto sento così l'odore delle fronde degli alberi che si ergono ad ombreggiare il cammino.A volte mi ritrovo a passare di lì e mentre ancora non mi stanco di ammirare il dolce paesaggio, mi rivedo piccola e tenera, magrolina e poco agile, mentre siedo sul balcone soleggiato ad attendere il pranzo o la cena, e mi domando sempre perché ho dovuto andar via, mentre la brezza scuote lievemente i rami e si odono le onde miti tra gli scogli.
Penso che sarebbe così favoloso potersi svegliare al mattino con l'aria salmastra che entra dalla finestra mentre in cucina qualcuno prepara un caffè fumante da consumare a tavola prima di uscire a  sbrigare le proprie faccende. Non è diverso questo cielo dal mio e non è neppure sgombro da nubi, ma è un cielo di città, pallidamente azzurro e anche un po' afoso, e non si sente il canto dei gabbiani o la salsedine sulle braccia, ma mi è stato dipinto un po' così, e non è che si senta meno il peso di questi giorni, ma quando tutto diventa più difficile e l'animo si rattrista, penso alla casa lungo il viale ed alla felicità degli anni lontani, come se fossi ancora là, come se non me ne fossi mai andata.
Non è detto che si possa vivere una vita come vorremmo, non è detto che si possa essere felici, non è scritto da nessuna parte che staremo sempre con le persone che amiamo e neppure che staremo con loro,ma ci sono persone che segneranno la nostra esistenza, persone che hanno determinato momenti importanti e persone che abbiamo incontrato sul nostro cammino anche solo per poco tempo e che ricorderemo sempre, persone a cui abbiamo voluto bene e che non ci sono già più,e persone che preferiremo scordare perché ci hanno fatto male, ma è comunque la nostra vita, quel passaggio sulla terra di ognuno di noi che, bene o male, lascia un segno; in realtà, quando qualcuno se ne va in punta di piedi senza far rumore,è solo per non rattristarci ulteriormente e non vederci soffrire, ma sicuramente è conscio di quanto grande sarà il vuoto che lascia dentro dentro di noi.
E'un cielo di giugno, diverso dallo scorso anno, i raggi del sole non scaldano poi così tanto e non c'è chi si siede ogni tanto a quel tavolo a mangiare qualcosa e a chiacchierare un po', è tutto così vuoto e il ricordo torna ad una piccola stanzetta ed i passi sotto il caldo rovente, le frasi buttate lì ed i sorrisi tirati per non farsi vedere affranti, andarsene un'ultima volta senza più voltarsi perché anche quel tempo era finito...un attimo solo e poi più niente, e allora conto i battiti del cuore ed i giorni sul calendario, e me ne andrò un po' contenta e un po' impaziente, e ogni tanto tornerò su quel viale alberato, che contiene ancora oggi la spensieratezza di quei teneri anni.
Era una casa piena di luce, e tra tutte mi pareva la più bella forse perché era la più bella, perché in ogni luogo che amiamo c'è una parte del nostro cuore, e negli anni che seguirono non riuscii mai a scordare quel profumo che sentivo ogniqualvolta aprissi la porta d'ingresso del palazzo, un particolare che mi rimase impresso come qualcosa di indelebile ed inconfondibile.
E' quasi un giorno di festa, ma non sento quel passo veloce arrivare e la voce squillante, è quasi luglio e la città fatica a mettersi l'abito estivo, ogni tanto le vie del centro si popolano di gente ma non c'è lo spirito vacanziero di chi ha voglia di riposarsi un po' dopo tanto tempo, la sera scende senza che il tramonto sia così poetico e soave da volersi soffermare un po' ad ammirarlo, ma soprattutto non c'è chi rientra lieto dopo una lunga giornata, e allora penso alla casa nel viale alberato, che dopo tanti anni è ancora là, intatta nella sua bellezza, perché non esiste solo nei miei sogni o nei romanzi d'amore, bensì c' è sempre stata nella realtà, ed è quella che ancora oggi tutti denominerebbero “la casa della felicità”.
Quando le raccontai la vicenda, Rose mi sorrise tendendomi la mano e mi indicò un punto vicino da cui si poteva vedere la casa, cosicchè mi rasserenai un poco perché realmente significava tanto, e anche se sapevo che quei giorni non sarebbero più tornati, forse in questo modo sarei riuscita a sentirne meno la mancanza.
Nelle sere di fine estate, quando tutti se ne andavano a dormire, ci attardavamo a discorrere sui fatti del giorno, e Rose col tempo ebbe un posto importante nella mia vita, tanto che non passava giorno che non pensassi un po' a lei, ed il favoloso paesaggio lo guardavo assieme a lei da una grande terrazza, respirando l'aria a volte calda a volte più fresca, specie quando soffiava il vento di tramontana, e quando non si udiva più un suono che non fosse il gracchiare delle rane, allora ci si ritirava ognuna nella propria stanza a leggere due righe prima di dormire.
Era un giorno ancor tiepido quando, voltandomi a guardare la stanza prima di chiudere la porta dietro di me, sentii una morsa stringermi il cuore, come uno strano presagio, scesi le scale e diedi un  bacio a Rose con la promessa di sentirci al più presto, ma non appena salita sull'auto fui pervasa da un'immensa tristezza, diversa dal solito, con la netta impressione che qualcosa stesse finendo.
Non la vidi  mai più: se ne andò un giorno di primavera all'improvviso, portando con sé tutto l'entusiasmo e la tenerezza dei ricordi più belli.
Oggi guardo il suo viso che mi sorride da una foto; sento la salsedine sulla braccia e gioco un po' con la sabbia fino a quando mi va. Non ho più sentito quella voce squillante di chi con il passo deciso veniva verso di me, e non c'è il sorriso di quel volto che ogni giorno entra in casa felice e premuroso con una carezza per poter rinnovare quell'affetto, reinventando la vita ogni giorno in modo diverso per non annoiarsi mai e percorrere assieme ancora un tratto di strada, ma comunque grazie, a chi un giorno ha bussato alla porta del cuore e  con la sua amicizia ha saputo rasserenare parte della mia vita.
E' quasi un giorno di festa, c'è ancora il vento ed ho ancora tanto da fare, è un'altra volta estate e si sente nell'aria, ma ora scusate, perché l'orologio mi sta dicendo che è quasi ora di pranzo, è tardi e  devo  proprio andare, stavolta mi siedo quasi in mezzo al salone: oggi menù speciale.
- Grazie Rose, grazie di tutti quegli anni felici!

Antonio Albanese - L'attesa

Io sono a pezzi.
Ma tu stai per arrivare....
e so che, come sempre,
raccoglierai i cocci
e li rimetterai a posto
insieme con i tuoi...
Mischierai il bianco con il giallo
l'azzurro col mattino
Per le strade, l'asfalto col profumo delle arance,
e tra gli alberi le mani di mio padre
a ritrovarmi bambino.
La polvere vigliacca, confusa ed impaurita
disegnerà allegorie dentro la primavera,
come se andasse in gita.

Gli anni scivolano, e mai all'indietro
misurando ad uno a uno
con un oscuro metro
i pezzi che ciascuno porta a riparare
tra un pranzo di lavoro e una vacanza al mare.

Ma sempre qualcosa manca
in questa stanza soffocata di troppa vita che non basta mai
piena dell’assenza di un abbraccio che frantuma e scompone.
Ma tu stai per arrivare...
e per qualcosa che sfugge alla ragione
sono un tutt'uno la polvere e i mattini,
il colore e la stagione,
il fine ed i suoi mezzi:
le nostre vite
e i nostri pezzi.

Antonio Albanese - Ma qualcosa rimane

Eppure qualcosa rimane
tra le pagine del libro e le pieghe dell’anima
dopo tutte le corse affannose e milioni di parole,
un’infinita costellazione di sillabe e consonanti
e troppe lettere
prive di corrispondenza.
Sono il silenzio e l’ascolto
il segnalibro dell’Umanità
e per quanto a lungo io sia esistito,
di questo matto racconto sgangherato
solo questo ho udito:
quel che m’hai taciuto.
Quella parola non detta
l’ho appuntata su di un pezzo di carta, ingiallito dai giorni,
e poi non l’ho più letta.
Non c’è nulla che parta
nulla che ritorni;
il tempo è passato,
travolgendo tutto:
la carta, i giorni…
e persino il lutto.
Ma qualcosa rimane,
di quello che è mancato,
a riempire la pagina
e forse è questo che stanca:
che quel che resta sia poca cosa
senza quello che manca.

Carlo Tirinanzi De Medici - Il manuale che non c’è

Basta, ho finito la pazienza.
Sono anni che seguo questo disgraziato, lo accompagno ovunque, gli offro da bere e mi faccio scroccare sigarette, insomma sono anni che lo sopporto. Lui, le sue follie, le sue fissazioni, le sue reazioni abnormi. Basta una luce fioca e non capisce più niente, lo vedi stringere gli occhi a fessura come se lo stessero crocifiggendo. Mettetelo in un ambiente dove ci sia un po’ di rumore di sottofondo, che so io, un bar, con il chiacchiericcio e l’acciottolio dei bicchieri, qualche volta uno scoppio di risa e la musica pop; lo vedrete perdere il contatto con la realtà, non rispondere più alle domande, smettere, con tutta evidenza, di seguire la conversazione, perché – dice – i brandelli di discorsi altrui i rumori le melodie lo colpiscono tutti assieme; cerca di seguirli tutti e secondo la sua espressione «va in crash», manco fosse un computer.
Fategli una carezza, sfioratelo con affetto: farà un salto alto mezzo metro, perché, poverino, il tocco leggero proprio non lo sopporta. Girerà con le magliette a rovescio perché dice che l’etichetta gli dà fastidio. Spostategli un libro dalla pila che tiene sulla scrivania, o mettetegli la tazzina del caffè a sinistra anziché a destra: darà di matto.
E soprattutto, non chiamatelo, come faccio io, Aspie, a meno che non vogliate subire un pippone di trecento ore sui cambiamenti apportati dalla quinta edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali alla classificazione dei disturbi pervasivi dello sviluppo, in base ai quali la “Sindrome di Asperger” è confluita nel più generale “Disturbo dello spettro autistico”. «La tua definizione è ormai datata e scientificamente inappropriata», vi risponderà dopo un lungo détour che avrà toccato neurofisiologia, indagini compiute con risonanze magnetiche funzionali e una dozzina di teorie sul funzionamento autistico.
–Non capisco come mai ti ostini a definirmi aspie, peraltro un diminutivo che, come tutti i diminutivi, non apprezzo. Io sono un autistico e basta.
–Ma Aspie, con la maiuscola, non è una diagnosi, è il tuo nome.
–È il nome che mi hai dato tu.
–Sì, è un soprannome, un modo per rinsaldare la nostra amicizia e complicità.
–Ancora con questa storia della complicità, te l’ho detto, non siamo criminali. Non abbiamo fatto rapine. Non progettiamo attentati. In cosa dovremmo essere complici e –soprattutto– perché sarebbe bello essere complici?
Se volete spiegargli voi in che senso parlo di complicità, accomodatevi: io ci ho provato decine di volte anche con supporti audiovisivi e diagrammi, ma inevitabilmente la sua conclusione è che come sempre mi esprimo in maniera impropria. E non è per questo che ho perso la pazienza, no, figurarsi: ormai mi ci sono abituato alle sue stranezze, l’uso univoco del linguaggio, la sua incapacità a mentire, anche striminzite bugie bianche, i discorsi ossessivi sulle centrali nucleari e l’esprimersi solo per citazioni. No, il motivo per cui non lo sopporto più è quella sua dannata incapacità a empatizzare.

Capita a tutti: c’è qualcosa che ti assilla – la ragazza ti ha lasciato, ti è morto il gatto, stai per essere licenziato, ti sei innamorato, hai sfasciato l’auto e non hai soldi per prenderne un’altra, sei triste spaventato arrabbiato – e cerchi un amico per avere supporto, qualcuno che ti ascolti, ti faccia sfogare. Che ti metta una mano sulla spalla e ti dica che andrà tutto bene, a prescindere dal fatto che sia vero. Qualcuno con cui prenderti una sbronza colossale. Sembra una cosa normale, ma non quando questo qualcuno è l’Aspie. Perché lui cercherà sempre una soluzione pratica, e in casi del genere le ipotesi sono due: la soluzione non c’è, perché il gatto è morto la ragazza si è trasferita in Messico l’auto è da buttare, o anche perché a volte uno è triste così, senza motivo. Oppure la soluzione c’è – vai dal padrone e pregalo di tenerti ancora qualche mese; vai dalla ragazza che ti piace e dille che la ami; – ma adesso non vuoi sentirla, perché sei lì solo per sfogarti e bere un altro bicchiere.
Ecco, una cosa del genere all’Aspie è del tutto incomprensibile. Lui dovrà a tutti i costi progettare un piano d’azione, e se non sarà possibile perché una soluzione non c’è o non è quello che vi serve, lo vedrete innervosirsi. Ballerà sulla sedia, fumerà una sigaretta via l’altra, borbotterà da solo e presto vi farà La Domanda, quella che di solito riceve come risposta un sonoro vaffanculo, se non direttamente un papagno in faccia:
–Ma allora se non ci possiamo fare niente, perché siamo qui a parlarne?
Poi vi chiedete perché l’Aspie ha pochi amici.
Dice che è un deficit di empatia cognitiva: praticamente non capisce perché uno sta male, è triste, piange. Bisogna spiegarglielo nel dettaglio, e spesso nessuno sa come mai quella mattina si è svegliato sverso, no? Ecco, dunque, l’Aspie non sa spiegarsi le vostre emozioni. Nemmeno le sue, peraltro, a quanto pare. Il suo orizzonte emozionale, più o meno, si riduce a due aree sbozzate malamente: “OK” e “non OK”, il resto è oltre la sua comprensione. D’altra parte, le emozioni è come se le sentisse. Se vi avvicinate agitati all’Aspie, otterrete un Aspie più agitato di voi, al punto che potrebbe diventare totalmente incapace di pensare. Fumerà quaranta sigarette, berrà compulsivamente, inizierà a sfregare la camicia o a muovere la testa avanti e indietro, nei casi peggiori cadrà in un mutismo totale (shutdown) o si produrrà in un’esplosione di rabbia da quattrenne cui hanno negato il lecca-lecca (meltdown). Farà tutto questo e molto altro, ma non vi aiuterà minimamente, perché sarà vittima di un contagio emotivo. Come quello dei film in cui una folla improvvisamente impazzisce e fa cose idiote, solo in un’unica persona.

Il problema vero si è posto l’altra sera, dopo cena. Eravamo fuori dal locale, bevevamo forse il quarto amaro e io mi stavo sfogando. In effetti è un periodo, diciamo, poco brillante, per una serie di congiunzioni astrali comunemente dette: sfiga mi sono ritrovato senza lavoro, sull’orlo di uno sfratto, ricco di casini sentimentali e perdipiù – sfiga maxima – con un serio problema in famiglia. Da circa due mesi mia madre è infatti gravemente depressa. È seguita da un medico, ma da alcune settimane ha anche iniziato a parlare molto spesso di suicidio. Mio padre è disperato, e io ho molta, molta paura. Insomma, avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Per mia somma sfortuna ho scelto l’Aspie. Ero arrivato al punto clou, quello relativo a mamma. «Tutti i giorni minaccia il suicidio e…», e l’Aspie nemmeno mi fa finire, gli capita quando è agitato o eccitato.
«Tutto sommato», inizia, «non c’è da preoccuparsi troppo: il 70% degli episodi depressivi maggiori si risolve in un massimo di tre mesi – mediana cinquantotto giorni –. Inoltre, lo so che sembra paradossale, ma statisticamente chi preannuncia atti anticonservativi tende a dare seguito alle minacce in percentuale decisamente minima. Sarebbe stato più preoccupante se avesse avuto comportamenti meno problematici: il candidato ideale al suicidio è il paziente che ha smesso di cercare interazioni con l’esterno, che ha ridotto a zero i tentativi di comunicazione, che ha smesso di parlare dei propri problemi».
Oh, io lo so cosa sta pensando: Ecco fatto, finalmente un argomento su cui ha potuto intervenire in modo sensato. Ha fornito dati rassicuranti, che dovrebbero lenire le paure. È confortante sapere che un evento temuto ha scarse probabilità di verificarsi, no? E qui abbiamo centinaia di studi di coorte, migliaia di pazienti, solide metodologie statistiche che permettono di calcolare la probabilità dell’evento: e quella probabilità è bassa! C’è da festeggiare, almeno questa palata di merda ti ha mancato, amico mio; nessuna mamma tenterà il suicidio, non questa sera! E vedrai che, uno per volta, risolveremo anche gli altri problemi.
È evidentemente soddisfatto. Per questo non capisce come mai lo fisso in silenzio. Credo, in realtà, che non colga nemmeno il fatto che lo sto fulminando con gli occhi (che idiota sono, certo che non lo coglie, quello non guarda mai nessuno negli occhi). Così gli devo spiegare che forse mamma è in quel restante 30%, che magari lei è l’eccezione che conferma la regola, che sicuramente lui è un cretino uno stronzo un idiota insensibile.
–Ma ti sembrano cose da dire?! Ti sembra che ho bisogno delle tue statistiche del cazzo?! Sto raccontando un problema serio, cosa me ne frega se il sessanta per cento dei depressi non si ammazza?»
–Veramente è il settanta per cento, ma riguarda la durata dell’episod…
–Fosse anche il novanta: non è quello che mi serve! Se non hai niente di intelligente da dire, ti conviene stare zitto! Non ho bisogno di numeri freddi, tirati fuori da qualche scienziato pazzo. Non sono dati, sono persone! Carne! Sangue! E, spesso, Sansimone!
–Ok, senti…
–No, senti tu: ti ho raccontato queste cose perché volevo mi capissi, non perché cercassi di tirarmi su con questi tuoi inutili conti della serva! È una cosa del tutto fuori luogo. Perché, piuttosto, non mi hai guardato negli occhi e non mi hai dato una carezza?
–Perché non so se la nostra relazione, al momento, mi consente di farlo.
–Devi leggere il manuale anche per questo? Perché devi sempre classificare tutto? Perché devi sempre attenerti a qualche regola del cazzo, che peraltro nella maggior parte dei casi ti inventi? Hai mai un comportamento spontaneo?
–Sì, ogni tanto, ma di solito finisce in questo modo, ecco perché se ci fosse un manuale, in effetti, gradirei molto leggerlo.
–Sei un caso disperato.
–Forse sì. Ma, senti, davvero non volevo ferirti. Non stavo cercando di sminuire il fatto che stai male, o che sei preoccupata per tua madre. Quello, anche se mi sembra assurdo, lo sento. Pensavo ti avrebbe tranquillizzata, almeno un po’.
–E invece no, cazzo.


Da allora non ci siamo più sentiti. Forse ho esagerato, in effetti voleva aiutarmi, per quanto nel suo modo contorto. Ma non posso sempre sopportare tutto. E non pensiate che dopo vi chiamerà non dico per chiedere scusa, ma per sapere come va: no, lui si perde dietro alle sue cose dimenticandosi persino di andare in bagno. Gli verrete in mente a orari improbabili, e non telefonerà né manderà un messaggio perché a quell’ora, stando alla sua rigida weltangshauung, non si effettuano comunicazioni non d’emergenza.

Eppure adesso che ci ripenso mi accorgo della sua paura, del suo stupore. È come se avesse avuto una percezione nuova, se gli fosse balenato davanti ciò che non ha mai avuto fino ad ora; per un attimo deve avere intuito com’è la vita degli altri — incasinata, complicata dalle incongruenze logiche, da questi fiotti di sensazioni che ti colpiscono e ti buttano a terra. E si rende conto che gli altri, i neurotipici, queste cose le provano meglio, con maggior frequenza e da più tempo; per questo hanno imparato a gestirle. Lui, invece, si muove tra le ondate di emozioni come quando cammina in una stanza piena di persone: goffamente, tanto più urtando negli spigoli quanto più cerca di evitarli. Non sa come fare. Dev’essere successo qualcosa: prima le sue emozioni erano in sordina, ora le spara un amplificatore da mille watt dritto nel suo sistema limbico. Continua a non capirle bene, ma ora cazzo se le sente: e quindi ancor più di prima quando sente le emozioni degli altri ne è sopraffatto. Ecco, forse il mio giudizio sull’Aspie è stato troppo duro, perché lui ora sa, ancorché vagamente, quello che provano gli altri, ha avuto idea dell’orrenda altalena di sentimenti su cui ci muoviamo noialtri, e lui non ha il manuale d’istruzioni, non sa come fare per rallentare certe sensazioni, o come accoglierle.
Allora forse, dopotutto, resterò qui. Per capire i suoi comportamenti e spiegarglieli. A lui, e agli altri, che non sanno cosa vuol dire essere Aspie in questo mondo di incostanti, imprevedibili neurotipici. L’Aspie non ha il manuale che gli serve, ma forse ce l’avrà presto. Meglio che gli telefoni subito, altrimenti se aspetto lui ci sentiamo tra dieci anni.

Carlo Tirinanzi De Medici - Quante storie

Sembra che tutti abbiano una storia tranne lui.
Da ragazzo tornava a casa la sera in bicicletta attraverso la periferia. Scivolava nel crepuscolo, il cielo viola, i casermoni tutti intorno, e le finestre illuminate dal ronzio azzurrino dei tubi catodici. Intravedeva qua e là un lampadario, un po’ di mobilio, quasi mai figure umane. Probabilmente in quelle abitazioni popolari la vita scorreva secondo i ritmi che conosceva bene; a quell’ora l’uomo e gli eventuali figli erano schiantati sul divano, sotto l’orizzonte degli eventi formato dal davanzale; la donna riordinava in cucina, sul retro. A ogni scorcio di abitazione che vedeva, per quanto anonimo e seriale fosse, immaginava le vite che si muovevano in quei pochi metri quadri. Immaginare forse è troppo, non ha mai avuto molta fantasia, però si chiedeva chi era a considerare quella credenza figlia di un’offerta del Mercatone Uno parte della propria intimità, quali i loro mestieri e i loro passati. Perché anche chi vive in un appartamento con i soffitti bassi e gli infissi che dovevano essere cambiati dieci anni fa, al terzo di dodici piani di un casermone nella periferia di una città di provincia, tra le macchine bruciate nello spiazzo sul retro e l’intonaco scrostato, dove c’è sempre almeno un ascensore rotto e si sentono perfettamente i vicini mentre litigano o fanno l’amore, ha una storia.
Il ricordo di quelle pedalate lo invade d’improvviso un martedì sera, poco prima di crollare addormentato all’una per merito della bottiglia di vino rosso che è il suo personale rimedio contro l’insonnia. Lui proprio non sa quale sia la propria storia.

Una volta qualcuno ha detto che una storia è fatta di eventi: per avere un evento serve un agente che compia un’azione, e più eventi messi in fila fanno un racconto. Certo, il racconto ha le sue regole, segue la sua meccanica: c’è un russo un po’ pazzo, Viktor, che ha cercato di compilare un manuale d’istruzioni per i meccanici delle storie e la cosa che per Viktor è fondamentale in un buon racconto è la motivazione, il modo in cui le parti si legano, acquistano una loro necessità. E la si può ottenere solo attraverso un’opera di selezione: scegliere cosa raccontare e cosa escludere; conservare solo gli elementi riconducibili a una stessa motivazione. È così che da una serie di episodi slegati creiamo una storia compatta, una di quelle che ci piace sentire. È un modo per opporsi allo scorrere senza senso o importanza del mondo, al fatto che ogni cosa succede per un po’, e poi è finita.

Poi, alcuni mesi fa, incontra la ragazza con i capelli pieni di nodi. Ha mento squadrato e occhi dell’azzurro di certi vecchi jeans. Si sono visti una sera d’inverno per quello che doveva essere un aperitivo e non sono riusciti più a staccarsi. Quell’intensità fa paura a entrambi, è insolita, ma tutto ciò che la riguarda, pensa, è insolito. È insolito il suo passo deciso; è insolita la sua schiettezza, il bisogno di dire sempre ciò che pensa; è insolita la risata forte che sembra prendersi gioco di tutti, anche di se stessa. E sono insoliti quei suoi capelli apparentemente indomabili, sempre scomposti e pieni di nodi. E – soprattutto – è insolita la sua fame di storie.
Nei trentadue giorni passati insieme ininterrottamente, giorno e notte, gli ha raccontato centinaia di episodi della propria vita e ha voluto ascoltarne altrettanti della vita di lui. Quando non si raccontano storie di cui sono stati protagonisti o spettatori, si leggono reciprocamente i racconti che scrivono o guardano film e serie televisive, e lei in particolare sembra non riuscire a farne a meno, come se assorbire tutti quei racconti fosse una questione di vita o di morte, un modo per essere in molti posti e tempi —  e se non esistono, in fondo, cosa importa? Bevendo troppo e fumando centinaia di sigarette, uscendo dal letto solo per comprare cibo e vino, i due sembrano aver raggiunto una comprensione reciproca che non avevano mai provato. Addirittura lei una volta gli dice: «Esci dalla mia testa», e mentre lo fa emette quella risatina – un trillo così diverso dalla sua solita risata possente e ironica – che fa quando è felice di qualcosa.
Raccontare, ascoltare, bere. Il tutto intervallato da un sesso scomposto, spesso violento al punto che i due si ricoprono di lividi, talvolta interrotto per troppo alcol o sonno. I loro bioritmi sono assurdi, ma sincronizzati: si addormentano alle tre, si alzano alle dieci, le giornate sono scandite dalle bottiglie di vino e dai racconti che fluttuano nell’aria della stanza, pesante di sesso e sigarette. Dopo dodici giorni si dicono nello stesso momento che si stanno innamorando l’uno dell’altra; dopo quindici lei parla di rapporto esclusivo. Lui le chiede una cosa sola, chiarezza fino alla brutalità. Sempre. Sembra d’accordo.
Dopo trentadue giorni lei si ritrae: gli spiega di brutti ricordi che le salgono d’improvviso, e quando accade sembra che nulla abbia più senso, che progettare un futuro sia solo un modo per avere altro da perdere quando la tempesta colpirà.
Lui capisce l’ansia, e le dice che se vuole un periodo di distanza, deve solo dirlo. Lei lo ringrazia ma non glielo dice. Però sparisce. Per giorni, all’inizio, e quando ricompare comunica a monosillabi. Lui cerca di non starle addosso. Poi sparisce per una settimana. Lui non sa cosa stia succedendo, perché non riesce a interpretare i silenzi e i non detti. Chiede se può invitarla a uscire. Lei dice di sì. La invita. Lei lo accusa di volerla controllare, di non saper rispettare i suoi spazi, di possessività. Lui è interdetto: ha molti difetti, ma nessuno ha mai pensato queste cose di lui. Smettono di sentirsi e lui passa il tempo cercando di studiare e chiedendosi dove ha sbagliato.

Davanti a sé ha il libro di microbiologia, gli appunti di una studentessa che non sa compitare “polimerasi”. Fatica a concentrarsi. Sta studiando forme di vita elementari. I virus stanno sul confine stesso della vita. Sono pura esistenza, spinti solo dalla necessità di riprodursi, invadono tessuti e cellule, ne alterano il metabolismo. A differenza degli organismi superiori non provano paura o dolore o tristezza. La morte dell’ospite non è voluta o cercata, è una conseguenza del tentativo di sopravvivere oltre se stessi.
I batteri e i virus non devono rivestire i loro bisogni di motivazioni, i loro non sono nemmeno bisogni, è solo una cascata di segnale. I batteri non studiano microbiologia, non hanno una memoria visuale e così non vedono la ragazza comparire d’improvviso mentre muove la bocca verso sinistra e poi verso destra tenendola leggermente compressa, quasi a mandare un bacio. I batteri non attribuiscono a questo gesto un significato, non sanno che è un segno di incertezza, di perplessità.
I batteri non sono distratti da questi ricordi in forma di immagini che si fanno strada nella coscienza di lui e lo strappano alla lettura, alla costruzione delle sue mappe mentali del cazzo. I batteri non pensano di avere sbagliato, e non devono giustificarsi. Li giustifica la biochimica, molecole che si legano a un recettore e iniziano una cascata di segnale al cui fondo c’è un flagello che ruota e li fa nuotare verso una mucosa, un altro batterio, dello zucchero, verso la vita. Non c’è invenzione, non c’è racconto. C’è quello che c’è, semplicemente. Il resto non esiste.
Lui invece deve sapere, capire. Prende dei manuali di psichiatria, scarica articoli scientifici pieni di statistiche, il valore di p è sempre inferiore a 0,05. Studia gli stili di attaccamento: quello ansioso-evitante è caratterizzato da intensa vicinanza e condivisione, cui presto subentra uno stato ansioso che induce al distacco per un inconscio timore di essere rifiutati.
Il disturbo da stress post-traumatico è spesso caratterizzato da atti autodistruttivi, sbalzi d’umore e improvvise esplosioni di rabbia, abuso di alcool o sostanze.
Il disturbo di personalità borderline fa parte del cluster bipolare, e tutti i bipolari sono caratterizzati da rapidi e improvvisi cicli di valutazione-svalutazione del partner e repentini cambi d’idea e d’umore
Osserva i grafici che accompagnano gli articoli. I grafici di dispersione trasformano le individualità in punti su un pinao cartesiano, ognuno all’incrocio di due variabili. Poi i puntini sparsi vengono sussunti in una linea rossa. Si chiede se la ragazza dai capelli pieni di nodi rientra in quella linea. Ne dubita, gli sembra che non tutto riesca a tornare. Non vede una correlazione lineare. Allora smette di cercare diagnosi, nomi per le cose.
Ne parla con un amico.
– Tu pensi di volere delle risposte –, gli dice, – ma in realtà vuoi una storia.
– Non sono bravo con le storie.
– Nessuno lo è. Ma tutti lo vorrebbero essere. Tempo fa le persone avevano l’impressione di vivere nella Storia, quella con la esse maiuscola, uno luogo in cui i destini individuali si rifrangevano in quelli generali, quando ogni scelta di ognuno sembrava determinante per tutti. Poi lentamente siamo scivolati in uno spazio neutro in cui nulla di ciò che facciamo sembra possa influire sul resto. È questo a spingerci verso lo storytelling.
– Lo storytelling?
– Il racconto. La storia. Tutti parlano di narrazioni: perdiamo le elezioni perché le narrazioni degli altri sono migliori. Guardiamo le serie tv su Netflix perché sono imbottite di storie. È come il kintsugi giapponese: frammenti di ceramica ricomposti con una colla a base d’oro. Il racconto è la colla, i frammenti la vita.
– Questo lo fa la ragazza dai capelli pieni di nodi. Le storie che racconta sono ricostruzioni di eventi con cui evita di affrontare i propri demoni, di dover fare i conti con se stessa. Raccontare o smettere di farsi sentire, sono tutti modi di fuggire. Di non scoperchiare il proprio io. Di tenere i propri fantasmi al guinzaglio, almeno per un altro po’, almeno finché reggono le barriere.
– Lo facciamo tutti. Tu vuoi chiamarlo “disturbo post-traumatico da stress” perché sintetizzi tutta una storia in quell’espressione. Lei forse lo chiama “sei soffocante”, ma è la stessa ricerca di una storia.
– Ma non è vera. Io non sono così. Non sono stato oppressivo.
– E allora? Cerchiamo freneticamente schemi e simboli nelle cose; progettiamo arcate di senso che poggiano sull’assoluta insignificanza delle nostre esistenze, pronte a cedere alla minima scossa; vorremmo ricondurre l’aleatorietà dell’esistenza a qualcosa che ci trascenda, ma non sappiamo cosa possa essere. Così proviamo a individuare almeno noi stessi, a gettare un ponte tra il nostro io di dieci anni fa e l’attuale: ci raccontiamo storie su noi e sugli altri perché è l’unico modo che ci è rimasto per imbastire un pur vago senso. La congruenza di queste storie con la realtà è, per molti versi, superflua.

Ma forse, pensa, anche questa è solo una storia, una ricostruzione imperfetta e incerta. Gli manca la sicurezza di lei per crederci fino in fondo. Mentre torna a casa dalle finestre arriva una luce azzurrina. Rare risate, rumore di piatti spostati. Qualche televisione. Nelle orecchie ha la sua voce: «Sono contenta di essere qui con te». Si rende conto che c’è sempre qualcosa che manca, che è al di là dell’orizzonte degli eventi, come dalle finestre dei casermoni non si vedevano mai i divani, né i tavolini con sopra posacenere e familiari di Peroni. Anche se con ottima probabilità erano lì lui non poteva saperlo allora, come ora non sa se fa bene o male a pensare queste cose. Sa solo che è triste, perché se deve tentare quest’atto di fede che è il racconto vuol dire che non è più nella testa della ragazza. E gli fa male.
Entra in casa, vede l’accendino con Bob Marley, si vede accenderci una sigaretta e passargliela nel buio, con la cenere che cade sulle lenzuola.
Ecco, forse lui non riesce ad accedere alla semplificazione necessaria per costruirsi un percorso negli eventi, dando loro direzione forma senso. I dettagli gli si parano tutti davanti e gli incastri non sono perfetti, non sa usare quella colla dorata per ricomporre i pezzi in un insieme. Sarebbe un’alterazione ingiustificabile. Non sa, o non riesce a mentirsi, non mente a nessuno, mai. E resta lì, senza una storia, con queste immagini che gli scorrono davanti agli occhi, schegge di passato una via l’altra, sempre più rapide, in un presente infinito. Allora nomina i dettagli per avere almeno una presa sui pezzi di memoria che non sa ricomporre. Resta davanti al libro, osserva quello che c’è e c’è stato e vede ogni cosa accadere, e – prima o poi – finire.