domenica 31 maggio 2015

Barbara Guidi - Per sempre

Nutrirsi
della rabbia o dell’amore
che intesse i nostri sguardi.
Di quel che vorresti e non puoi.
O  puoi e non vuoi.
Restare in ascolto di
quel  dolore antico
o arrendersi alla  legge
che muove gli universi.
Abbandonare la paura.
O perdersi.
Per sempre.

Barbara Guidi - Fame di vento

Ho fame di  vento,
non di una  leggera brezza estiva
che  accarezza  il tuo ricordo,
ma vento d’autunno,,,,,,,,
che sferza la pelle e scuote i sensi.
Torna, talvolta, quel vento,
a scompigliarmi i capelli e le idee,
irrompe  nei miei pensieri,
dolcemente  ed impetuosamente
per  accarezzarne  il profilo,
ed esso è così forte, potente e vivo
che sembra quasi farsi carne,
ma lui non può,
perché lui è vento.

Barbara Guidi - Abbraccio d'Amore

Fatti cullare dalle mie braccia,
braccia di donna,
di madre,
di figlia.

Fatti cullare dalle mie braccia
braccia di donna,
d'amante,
d'amica.

Abbandonati in questo mio abbraccio,
abbraccio che cura,
abbraccio che lava via la paura.


Abbandonati in questo mio abbraccio,
abbraccio di cuore,
abbraccio d'Amore.

venerdì 29 maggio 2015

Mirela Stillitano - Siamo lingua che batte nel palato del cielo

Fiori di cotone timidi
dispersi nei portici
di bocche spalancate

lo spasmo incredulo
di vite allucinate
dall'orgasmo della parola

un bambino che chiede
perché non ridi più
un ritratto sul viso e non sei tu.

La felicità è averti
e non dire
toccarti e guardarti.

Consunto il ricordo
in un ultimo replay
noi due sconosciuti

nella dialettica di baci fluidi
siamo lingua che batte
nel palato del cielo

e non s'ode nulla
che un remoto balbettare
d’amore.

Mirela Stillitano - Mi sei apparso in sogno

Mi sei apparso in sogno
mentre guidavo
incapace di gestire l'emozione,
spingendo in gola la vita
esausta da continua frizione
con l'immaginazione
e il grido rauco del vero
spalmato sul falso
con troppi strati d'asfalto.
Trovami una meta!
Borbottava.

Ho colto la sfida e il gelo
di un capo mozzato sulla collina
al fianco destro,
un fiume di metallo dove farsi ingoiare
al fianco sinistro.
Un precipizio davanti agli occhi.
Alle spalle niente, niente, niente!

Oltre, oltre, oltre
una marea incapricciata
di una scogliera!
E ancora niente
non un ronzio di calabrone
non un filo d'erba
risentito del rombo del vento.

Solo da scegliere come interpretare,
con quale verso descrivere
il senso della nostra morte
nella seduzione del bene morale,
lo sgomento di una rima baciata
da un lutto felice.
Lo ammetto, ho perso la testa,
dopo le esequie delle ultime parole
ho tenuto in cuore una festa
con santi, diavoli e battiti in ozio
stordendomi di odio e amore.

E ti ho regalato il silenzio.

Mirela Stillitano - L’amore e la vita

Ah, vita, viaggio in dipartita
potessi tradurti in braille
cederti le mie impronte
usurarmi di te!

Svelarmi sola come ti contorci
su quella fortezza di sensi univoci,
da cosa trai origine
da chi prendi le voci.

Il senso non rivela di te
che il suono di ciò che taci

l'iride dove ardono le braci
le gambe degli anni che affondano
ora qui ora là, tra la certezza

e la folle esuberanza
di trovare solide orme
nella foschia di Shangri-La.

Ma ho un nodo da qualche parte
attorcigliato sul fazzoletto
di batista bianca sciupata
dal difetto di un ricamo

- non so se ti amo -

che mi ricorda quanto illudi
ed elargisci sgomento dalle fauci
come se la mia ansia di viverti
ti succhiasse dalle narici.

E non mi sazia di te
il pianto di una iena
la bellezza diurna di una falena.

Ti canto, nutrendomi di nuvole
con gli occhi chiusi.

Lorenzo Bianco – Amor che non risponde mai al suo nome

Amor che non risponde mai al suo nome
eppure senza tregua lo invoco inutilmente

ogni notte tesso
un’intricata tela
di passi fino a te
poi di giorno
la districo e la svesto
come un tempo perso
a non abbandonarti

Il ritorno.
Quel che tu non puoi.

Accettare il dono condiviso
di donarsi a te e
la gioia poi
di vedere
in te la gioia
finalmente.

Vanni
il cardo pungente
mio cardine
scardasso uncinato
a rigarmi la pelle
coi denti.

Scorda la Penelope
congiunta al telaio
ora ho appreso le delizie
dell’amar di lontano

Prego ogni notte prego
che tu non torni mai
e ti chiamo in tutti i nomi
che non conoscerai

Amore, lontano
Languore, lontano
Amore, lontano

Rimpianto, estinguiti
Mancanza, spegniti
Assenza, esprimiti

Luce dei miei occhi, brilla lontano
Voglia che mi tocchi, brucia lontano
Gioia del pianto, brilla lontano
Più dolce inganno, brilla lontano
Fiore di fuoco, brucia lontano
Avido gioco, brucia lontano
Croce e delizia, brilla lontano
Bacio che vizia, brilla lontano
Seduzione, brucia lontano
Tentazione, brucia lontano
Frenesia, brilla lontano
Empia malia, brilla lontano

Freccia d'amore scoccata accidentalmente, termina lontano da me
Freccia d'amore scoccata intenzionalmente, termina lontano da me
Freccia d'amore diretta a un errato bersaglio, estingui lontano il tuo abbaglio accecante

Lode sempre sia, a questa rabbiosa atarassia.


Così. Mia.

Lorenzo Bianco – Saluti da Honeymoon

Forse fu la nebbia. Un manto e spesso e umido si aggirava come uno spirito sul fiume. Oppure fu soltanto la noia: dieci giorni chiusa in casa con la bronchite mi avevano lasciato in bocca uno strano sapore di sciroppo fluidificante. Fu così che mi misi a sfogliare una di quelle riviste giovanili tanto di moda negli anni novanta, cercando qualche notizia sulle mie band preferite. Ascoltavo i Nirvana, i Guns, i R.E.M., come tutti, credo. Era il numero di novembre, anche se eravamo a gennaio e non c’era nulla che già non sapessi. Verso il fondo del giornale l’angolo degli amici di penna. Tra hobby e descrizioni poco interessanti mi colpirono due nomi: Tom S. – 230 West Broadway, Long Beach, New York -  e Huck F. – 1638 Ocean Ave, Santa Monica,  California.  Huck dice di avere la passione per viaggi, zattere e isole deserte, Tom per gangster, pirati e tesori nascosti. Pensai di avere a che fare con dei ragazzini, ma anch’io avevo solo quindici anni e il mio nome – quasi per uno scherzo del destino - è  Becky T. – 713 Bridge Street, Honeymoon, Missouri.

A scuola la maestra indicava il Missouri sulla cartina e diceva: “Questo è il cuore dell’America”. Poi con la bacchetta seguiva il corso azzurro del fiume e si fermava nel punto dove approssimativamente si trova Honeymoon. “Noi siamo qui!” e picchiettava la bacchetta più volte sulla carta.  Se il Missouri è il cuore dell’America, e l’America è il cuore del mondo, allora io vivo nel cuore del cuore del mondo. Qui il Mississippi è alla metà del suo corso e segna come una ferita aperta il confine tra i sogni avventurosi, la via dell’oro, l’ovest e la nostalgia delle proprie radici, il passato, l’est. Huck e Tom vivono sulle coste agli estremi opposti d’America e io sono a metà di quella distanza che li divide. La bizzarria dei nomi e delle circostanze mi convinsero a scrivere.

Non avendo carta da lettere  chiesi a mia madre di comprarmene, ma lei ritornò con un paio di cartoline identiche. Raffiguravano un battello a vapore sul fiume con sopra una scritta: “Saluti da Honeymoon”. Non potevo intuire che quella sarebbe diventata un’abitudine e le cartoline il mio modo di comunicare, per molti anni. Scrissi a Tom e a Huck lo stesso messaggio:

“Anche se Honeymoon ha un nome magnifico e il Mississippi è meraviglioso, qui non è una favola e Moonriver è solo il titolo di una famosa canzone. Sogno di viaggiare, incontrare pirati e cantare in una band. Ti prego rispondimi presto. Your huckleberry friend, Becky”.

Pensavo che i miei messaggi sarebbero stati cestinati, invece le risposte non tardarono ad arrivare. Il primo fu Huck: mi scrisse su un foglio recuperato chissà dove, con una gigantesca macchia d’olio al centro. Poteva essere la carta con cui era avvolta la focaccia che aveva appena finito di mangiare. Trovai la cosa divertente: mi dava l’idea dell’urgenza che aveva avuto nel rispondermi, come se fosse una necessità impellente. Mi disse che se volevo viaggiare avrei potuto accompagnarlo a spasso per l’America, perché lui era sempre in giro, un giorno qui e l’altro chissà dove. L’indirizzo che potevo continuare a usare era quello della nonna che viveva in una strana casa vicino alle spiagge più belle della California. Non sapevo se credergli, ma in fondo mi andava bene così.

Tom mandò una lettera scritta su carta pregiata, con un bell’inchiostro blu. Probabilmente aveva usato una penna stilografica. In allegato c’era una sua foto con una benda da pirata. L’immagine da scapestrato che ci teneva a dare di sé in qualche modo strideva con quella scrittura così ordinata, la mancanza di errori di ortografia, la cura con cui aveva compilato l’indirizzo sulla busta e la scelta del francobollo che raffigurava un battello a vapore del tutto simile a quello della mia cartolina. Non doveva essere stato facile trovarlo per uno che non vive dalle mie parti, forse era un filatelista, o forse, semplicemente, a New York si può trovare davvero di tutto. Devo dire che era bello e, nonostante un occhio fosse coperto, lo sguardo era quello penetrante di uno navigato, che ne ha viste e vissute tante. Sembrava scrutarmi come per cogliere dentro di me quello che lui aveva già visto, affrontato e archiviato. Mi piacque subito proprio per quell’aria di genio e regolatezza: quello che ogni ragazza in fondo, cerca in un uomo.

Con la bella stagione presi l’abitudine di scrivere giù al fiume. C’è una strada sterrata che affianca l’argine e raggiunge un promontorio dove è posizionato il faro di Honeymoon. Restavo lì a scrivere fino all’imbrunire; il fascio di luce del faro fendeva intermittente il buio fino a raggiungere la riva dell’Illinois e contemporaneamente si spingeva verso ovest. Mi pareva un lungo braccio luminoso che si allungava nella notte per raggiungere i miei amici ai due capi opposti del continente. Usavo le cartoline come carta da lettere, mettevo dei numeri per distinguere le pagine, poi le imbustavo tutte insieme, tanto che sembravano piccoli mattoni di carta che spedivo dalla buca delle lettere vicino all’imbarcadero.

Imparai a conoscerli meglio: Huck non pareva granché interessato alle ragazze, non so se perché la smania di conoscere il mondo lo avesse posseduto fino a cancellargli ogni altro desiderio, o se semplicemente perché preferiva la compagnia dei ragazzi. Con lui mi abbandonavo a quelle confessioni che in genere si fanno soltanto alle amiche più intime. Tom invece si comportava da spaccone, flirtava, mi raccontava quello che avrebbe voluto fare con me  se solo fossimo stati vicini. Ogni tanto lasciava trasparire un tono dolce e malinconico e lì mi sembrava di capirlo davvero, di raggiungerlo, di comprenderlo. Leggevo le sue lettere seduta sotto un pioppo gigante che emanava un profumo umido e legnoso che pareva la fragranza di quella malinconia segreta, una nota ombrosa e selvaggia su un ragazzo altrimenti piuttosto inquadrato.

Parlai molto all’uno dell’altro, tanto che si sentirono incoraggiati a conoscersi e incominciarono a scriversi. Mi piaceva pensare che parlassero segretamente di me, sentirmi al centro di questa stramba compagnia di amici. Facemmo un giuramento: anche se il nostro sogno era viaggiare per il mondo e vivere le avventure più pericolose non ci saremmo mai dovuti incontrare. Ero stata io a proporre questo patto: avevo paura che la realtà avrebbe rovinato tutto.

Poi un giorno non scrissero più. Il silenzio fu assordante. Prima che la mia stanza si riempisse completamente di rose di carta, fatte con i fazzoletti imbevuti di lacrime, mi ritrovai con un biglietto aereo in mano, destinazione California.
Sapevo che stavo tradendo la nostra promessa, ma anche loro non avevano tenuto fede alla nostra amicizia smettendo di scrivere.

Arrivata a Los Angeles rimasi abbagliata da quella città al tempo stesso infantile e pericolosa. Se dovessi paragonarla a un oggetto, direi che è come una pistola giocattolo, ma che alla fine spara davvero. Il cielo aveva colori chimici, ma comunque magici. Diedi l’indirizzo di Huck al tassista e poi sprofondai sul sedile posteriore in preda a un senso di nausea dovuta all’angoscia e a inspiegabili sensi di colpa. Palme lunghissime e sottili sfrecciavano dal finestrino, con le foglie altissime, come piume, simili a grandi uccelli preistorici. L’auto si fermò lentamente davanti a una villetta bizzarra con il tetto di pongo e la facciata in tinta pastello, esattamente come l’aveva descritta Huck. Suonai il campanello e comparve una vecchina con un sorriso disarmante e l’acconciatura più strana che avessi mai visto. I capelli bianchissimi erano avvolti a più giri sul capo come zucchero filato. Appena cercai di presentarmi mi riconobbe “Tu sei Becky!”e mi disse che era la nonna di Huck. Mi preparò il tè dopo avermi fatto fare un giro per la casa. Vivevano con lei un cane, un gatto e un canarino che andavano d’accordo come le creature del giardino dell’Eden. C’erano libri ovunque e strane statuine in porcellana, legno e terracotta che raffiguravano Marylin, Jim Morrison, la Madonna, James Dean e la foto di Huck con una tavola da surf. Tutto questo non bastò a prepararmi alla triste notizia: Huck era scomparso da due anni. La polizia e l’F.B.I. avevano smesso di cercarlo, ma lei non aveva ancora perso le speranze che un giorno sarebbe tornato, si sarebbe seduto come faceva sempre sulla poltrona dove ora ero seduta io e si sarebbe  messo a leggere tutte le  mie lettere. Piangemmo insieme, poi la salutai giurando che le avrei scritto e saremmo rimaste in contatto per comunicarci ogni notizia, anche minima, riguardante Huck.. Quando salii sul taxi che mi riportava all’aeroporto la guardai scomparire dal parabrezza posteriore: sembrava la versione americana della dea della Terra, la madre di tutti noi.

Non era ancora ora di tornare a casa, la prossima tappa era New York. Mi sarebbe piaciuto attraversare l’America guidando una decappottabile o saltare da un treno merci all’altro come il protagonista di un romanzo di Kerouac. Forse Huck stava vivendo così, girovago e selvaggio. Invece dall’aereo potevo misurare i kilometri di cielo che ci dividevano abbracciando un continente. Le nuvole sembravano i nostri pensieri, castelli in aria in uno spazio troppo grande per tre ragazzi che non avevano, però, smesso di amarsi.

Mi sono addormentata e ho fatto un sogno: mi trovavo al bancone di un bar con un Martini, aspettavo qualcuno. D’un tratto lui arriva ed è Tom, ma non è davvero Tom, non riconosco i lineamenti del viso. Penso di essere una sciocca, perché non l’ho mai visto e potrebbe essere un po’ diverso dalle foto che nel tempo mi ha mandato. Ma la sua faccia cambia continuamente. Per gioco mi volto, chiudo gli occhi e lo guardo: ho davanti un’altra persona, e così via all’infinito. Lui continua a parlare di cose che non mi interessano e intanto mi corteggia in modo sfacciato. Non mi riconosce. D’un tratto mi chiede come mi chiamo. Ci penso un attimo e decido di mentire “Il mio nome è Lana”.

Mi sveglio turbata da quella bugia, guardo il mio riflesso nel finestrino – ma chi è quella ragazza? – mi sento come se avessi smarrito le coordinate di me stessa.
Prendo sul sedile una cartolina con il logo della compagnia aerea e comincio a scrivere:

Caro Tom,

stavo per infrangere il nostro giuramento, volevo vederti, parlarti, chiederti perché non scrivi più. Poi ho capito che non aveva senso: abbiamo condiviso parti di noi che non mostriamo mai a nessuno. Se ci incontrassimo non ci riconosceremmo, avremmo sul viso la maschera che ci siamo scelti per stare al mondo, non le sembianze evanescenti del sogno. Se questo incanto si è spezzato voglio almeno conservarne il ricordo. Non potrei sopportare di guardarti senza davvero vederti. Sappi che ti ho sempre voluto bene e non smetterò di farlo.

Addio, Becky.

Il taxi si fermò davanti a un palazzone grigio e fatiscente. Un bambino giocava da solo per strada di fronte al portone principale. Gli chiesi se abitava lì il signor Tom S., lui rispose di sì e mi indicò col dito una delle decine di finestre in alto che non riuscii a localizzare. Suonai il citofono a un nome qualsiasi, dissi che dovevo fare una consegna, se mi potevano aprire. Trovai la casella con il nome e cognome di Tom. Prima di imbucare la cartolina scrissi sulla busta: “Sono stata qui”.

E me ne andai.

Giulia Gaveglio – La capretta di Chagall

Era il profumo dell’erba che aveva segnato la sua nascita, trascinandola al mondo come trasportata dal suono di un magico richiamo. Se avesse potuto avrebbe cercato di descriverlo, scegliendo con cura parole riecheggianti libertà, vento e sole: ma non era in grado di usare le parole degli umani. Pensava che forse, un giorno lontano, avrebbe trovato un modo per comunicare con loro. Avrebbe tentato di spiegare che quel mondo, che avevano la pretesa di abitare, non sarebbe mai stato loro proprietà. Avrebbero dovuto constatarne la superiore intelligenza ed infine l’avrebbero eletta “sindaco”, o comunque si dicesse nel loro linguaggio. Una statua sarebbe stata eretta in suo onore e avrebbe potuto governare su di loro con giudizio: tuttavia mai e poi mai si sarebbe abbassata a mangiarli. Si riscosse da tali pensieri scuotendo la testa, mentre le altre caprette brucavano silenziose, lanciandole di tanto in tanto rapide occhiate di muto sospetto. Si scostò leggermente, giungendo al limitare del campo, e volse il muso al sole, pervasa da un senso di solitudine. Odiava pensare a una vita trascorsa interamente nel lasciarsi portare, fidandosi ciecamente degli uomini come le altre piccole, candide conformiste. Gli umani non le piacevano affatto: erano meschini ed egoisti, e non avevano rispetto né per loro stessi né per il mondo. Simili pensieri la rendevano a volte tanto triste che le sembrava di diventare sempre più pesante, sprofondando con gli zoccoli nel terreno fino a non riuscire più a muoversi. Ma poi, guardando il cielo, un senso di leggerezza s’insinuava dolcemente in lei, dalla punta del muso fino in fondo alla coda. Il cielo era libertà e gli uccelli liberi di volare, come anche lei avrebbe voluto fare. Ma era impossibile, lo sapeva bene: lo dicevano le leggi dell’aerodinamica. Non poteva tuttavia impedirsi di immaginare quanto si sarebbe sentita leggera nel fluttuare su paesaggi stranieri, come tappeti variopinti ai suoi piedi.
Fu riscossa d’un tratto dal suono di un passo umano sul sentiero che conduceva al pascolo. Probabilmente il pastore di ritorno. Non si diede la pena di raggiungere le compagne, che correvano festanti a radunarsi in un angolo: rifiutarsi di ritornare verso la stalla era il suo piccolo atto di ribellione quotidiana, e non se ne voleva privare. Voltò il muso verso il sentiero, assumendo come una maschera la consueta aria testarda di sfida. Rimase sorpresa nel constatare di essersi sbagliata: l’uomo che arrancava su per il sentiero non somigliava affatto al pastore. La prima cosa che notò di lui furono le mani affusolate, con dita lunghe e sottili, dall’aria forte e al contempo delicata. Sembravano nate per creare qualcosa di bello. Aveva occhi tristi e leggermente inclinati verso il basso,  capelli folti e scuri, arricciati in volute mosse dolcemente dal vento. Portava con sé una curiosa struttura di legno, grandi pezzi di cartone bianco ed infine una misteriosa valigetta di pelle, sdrucita dall’uso, su cui si potevano leggere incise due iniziali: MC. L’uomo si fermò a metà del sentiero, guardandosi attorno. Ripreso fiato, raggiunse il margine del boschetto, dove la capretta lo osservava ammutolita. Qualcosa in lui la rapiva profondamente e la atterriva al tempo stesso. Lo strano individuo posò a terra la valigetta e sistemò sulla struttura uno dei grandi pezzi di cartone. Trasse dei piccoli tubetti e, preso un pezzo di legno tondo e sottile, cominciò a spremerveli sopra, facendone fuoriuscire colori variopinti che si mescolavano lungo le venature. Con lo sguardo annebbiato, cominciò ad intingervi un piccolo pennello, con cui accarezzava delicatamente il cartone: un mistero  tanto affascinante da esercitare un influsso quasi magnetico su di lei, che poco a poco si avvicinò per poter vedere meglio. Come per una magia arcana, il tempo parve fermarsi mentre macchie variopinte prendevano vita, scivolando sulla tela. D’un tratto l’uomo si voltò e si accorse di leiche atterrita, con il cuore che batteva forte, corse alloraveloce giù per il pendio. L’aria del tramonto era fredda, di un freddo curiosamente piacevole. Mentre camminava si sentiva più leggera e non sapeva spiegarsene il motivo. Per la prima volta, si era spontaneamente avvicinata ad un essere umano senza averne paura e in lei era nata una sensazione di dolcezza nuova: avrebbe voluto rimanere per tutta la notte a guardare il lavoro febbrile di quelle mani, quel volto concentrato e un po’distratto. Aveva ad un tratto realizzato, con la certezza assoluta con cui si realizzano soltanto le cose vere, che di lui si poteva fidare. Giunta all’ovile si era sistemata sulla paglia, stremata da confusi e dubbi pensieri. Tuttavia non riuscì a soffocare del tutto l’idea che quell’uomo avesse fatto nascere in lei germogli di bellezza. Il giorno dopo si sorprese ad attendere con nervosismo l’ora del tramonto. Nulla le assicurava che MC sarebbe venuto di nuovo, ma lei non aveva dubbi. Non la stupì affatto dunque vedere il suo passo incerto, caracollante sotto il peso dell’attrezzatura, farsi nuovamente strada per il prato. Questa volta l’uomo si accorse subito della piccola presenza che lo osservava con attenzione. Sistemò il cavalletto proprio di fianco a lei. Non proferì parola, ma la guardò negli occhi, salutandola con il linguaggio muto che è proprio delle anime sensibili, che sole lo sanno parlare. La capretta si avvicinò ulteriormente e pian piano sentì la paura iniziale scemare. Si sdraiò sull’erba, rispondendo con lo stesso linguaggio silenzioso. Lo osservò lavorare finché le prime stelle non iniziarono ad apparire sbiadite. La notte, gli occhi spalancati nel buio, seppe che la sua vita era stata cambiata. Se ne avesse conosciuto il significato, forse avrebbe usato la parola amore per descrivere questo cambiamento. Ma le parole sono spesso troppo umane per descrivere le cose veramente belle e pure della vita. Per alcuni giorni, il loro contatto si svolse allo stesso modo, una danza delicata di cui solo loro due conoscevano le regole. Il pittore arrivava, salutava la capretta con i suoi occhi tristi e sistemava il lavoro, inclinandolo leggermente affinché lei potesse vedere. Di giorno in giorno il disegno prendeva vita, come una favola sfuggita alle pagine del racconto: i colori erano sempre più vivi ed intensi. Tuttavia, curiosamente, essi non sembravano descrivere la realtà che dormiva quieta intorno a loro. Era un luogo altro, un luogo felice: come in uno specchio, le sembrava che il quadro sapesse leggere in lei quanto non era in grado di dire. Lui osservava affascinato quella piccola creatura spontanea, che nell’adorazione con cui fissava il cielo riusciva a condensare in disarmante semplicità intere poesie, trattati di filosofia e matematica, come una parola a lungo cercata e dimenticata. Così il tempo passò insieme a loro, ed i due impararono a conoscersi, bevendo dai reciproci desideri, senza mai interrompere questo muto contatto. Finché un giorno, lui le rivolse la parola. Era l’ora appena precedente il tramonto, quella che entrambi preferivano: i colori del cielo sembravano prendere fuoco, e la realtà avvicinarsi un po’ di più al loro mondo fatato. La voce le giunse come da lontano, a rompere il silenzio rituale a cui era abituata; eppure non la turbò come si sarebbe aspettata. Era morbida ma profonda e sembrava far parte del tessuto di quel silenzio, come un disegno che correva lungo la trama. «Il quadro è quasi terminato» le disse. Lei non capì. O forse sì, e posò il muso sulla sua mano.
Il giorno dopo, il pittore non ritornò. Né lo fece quello dopo ancora. Il tempo divenne d’un tratto di nuovo lento, i giorni come perle di una collana infinita, identici nella loro monotonia. La capretta crebbe e divenne adulta: si rassegnò alla vita che le spettava, che avevano scelto per lei forze più grandi, vivendo nella noia dolce e malinconica di chi porta in sé le cicatrici di una rinuncia. Ma al crepuscolo il ricordo delle sere di attesa felici la rendeva un po’ meno triste e sola. Si sedeva sul limitare del prato, là dove la prima volta si erano incontrati, e attendeva l’ora del tramonto per vedere il sole morente trasformare la realtà grigia nel mondo colorato in cui l’amore l’aveva trasportata. A volte ricordare era doloroso: eppure, non aveva rimpianti. Il tempo avrebbe potuto offuscare i contorni di quell’uomo, ma non il muto dialogo dei suoi occhi, non il senso di fiducia che le aveva donato. Passarono gli anni e giunse l’inverno. La capretta cominciò ad invecchiare: il pelo divenne più rado e chiaro, gli occhi offuscati e le gambe persero lentamente la forza e l’agilità della giovinezza, costringendola a riposare nella stalla. Con grande naturalezza, cominciò ad avvertire che il suo cammino era giunto verso il termine e si stupì di non trovare in sé alcuna rabbia per questo, consapevole del fatto che la morte va accettata godendo di ogni piccola gioia nella consapevolezza del rischio di perderla. In quei momenti si chiedeva se anche il pittore fosse invecchiato. Si domandava dove fosse. A volte fantasticava su meravigliose creazioni a cui lui aveva dato vita: violini che suonavano, gatti dai volti umani, città dai colori cangianti, amanti abbracciati, i volti bagnati di pioggia lucente. E allora era di nuovo felice: sognava di lui come se davvero lo potesse vedere, tanto vicino da poterne avvertire l’odore acre di pittura, perché spesso i sogni non sono altro che vie differenti che vorremmo avesse assunto la realtà. Infine, cadde in una bruma lenta e spessa e decise di abbandonarsi alla tristezza, accogliendola nel punto più profondo del cuore. Il momento giunse senza annunciarsi, e lei lo riconobbe come un amico troppo puntuale, a cui si vorrebbe domandare più tempo: si sistemò allora su un mucchietto di paglia, decisa a morire sola, perché sempre nella vita aveva fatto da sola le cose importanti. Sdraiatasi s’assopì, avvertendo nel dormiveglia strani rumori, voci sconosciute e al contempo familiari invadere l’aria, un luogo ormai lontano. Il tocco della mano sulla sua schiena giunse improvviso. Un nodo si sciolse in lei, e all’istante lo riconobbe. Lui, d’altro canto, non avrebbe saputo spiegarle come l’aveva ritrovata. Finito in paesi lontani, aveva sentito di dover rivedere quella piccola creatura che aveva sempre ispirato i suoi giorni con un ricordo leggero e delicato. L’aveva allora cercata in tutte le stalle della piccola valle, chiedendo ai pastori, cercando l’eco di una sensazione familiare. Ed era giunto lì, dove ora, con la mano sottile sul suo pelo, sedeva accovacciato a terra, affinché fossero  alla stessa altezza. Lei aprì gli occhi con fatica e lo guardò. Si chiese dove fosse stato, cosa l’avesse portato tanto lontano. Gli domandò con lo sguardo tutto ciò, e non ci fu bisogno di parole. Avrebbe voluto rimproverarlo, ma era invecchiato anche lui: i capelli erano grigi, e le mani che lei tanto amava avevano le vene segnate e le dita stanche. Stettero per un po’ così, in silenzio, e le loro anime si fecero più leggere. Alla fine lui trasse dal pavimento un involto grande e piatto e cominciò a scartarlo con le sue belle dita, raccontandole dei luoghi che aveva visitato, delle persone che avevano incrociato il suo cammino rendendolo felice. Quando ebbe terminato, lo poggiò nuovamente a terra. Solo allora capì che era una tela. ”Non era ancora finito”, le disse. La prese da terra, ed ecco: la sua realtà colorata si stagliava dinnanzi a lei delicata e potente, così come la ricordava. I monti rilucevano dell’amore che li aveva colorati, figure lontane popolavano lo spazio. Ma al centro, a realizzare il sogno nascosto di una vita, una nuova figura, finalmente leggera e libera, volava nell’aria, ignara delle leggi dell’aerodinamica, ignara dei divieti della società, che vogliono decidere al posto nostro il modo giusto di amare. Seppe di non essere mai stata dimenticata. Serena, chiuse allora gli occhi. Sentiva l’odore della primavera.

(Liberamente ispirato al quadro “Dans mon pays” di Marc Chagall)

Elena Forni - Haiku 3

Neve sporca.
La madre china il capo
bacio mai dato.

Elena Forni - Haiku 2

Mare a quadretti.
Pedalare in tandem
facile la salita.

Elena Forni - Haiku 1

Ronzio di zanzare.
Corpi uniti, qui
l’universo.

giovedì 28 maggio 2015

Fabrizio Burlone - La prima volta

Antonio Rinaudo era un contadino. E lo era perché suo padre era stato un contadino, suo nonno era stato un contadino e via via all’indietro, fino a dove la memoria riusciva ad arrivare, tutta la sua famiglia aveva sempre lavorato la terra. Era venuto su in Cascina, con i suoi fratelli e le sue sorelle, fatto tutte le elementari e perfino le medie giù in paese, e al momento giusto aveva anche trovato una moglie: la Rina. Ecco, a essere onesti quella non era stata una cosa poi così semplice, però. Perché lui con le donne non sapeva proprio come fare. La natura, per giunta, non gli era venuta esattamente in aiuto: grande, grosso e con i vestiti dei fratelli maggiori sempre o troppo stretti o troppo larghi, aveva sempre dovuto contare ciecamente sul detto che sostiene che un uomo più bello di un asino sia già un bell’uomo. C’era qualcuno degli amici, viceversa, che non se ne lasciava scappare nemmeno una, e lui aveva anche provato seguirne i consigli. Ma non era servito a nulla. Eppure, malgrado tutto, quando aveva visto Caterina la prima volta in chiesa, lei aveva guardato lui e non c’era stato bisogno di altro. O quasi. In realtà aveva dovuto seguire l’intera trafila: l’approvazione delle famiglie, il fidanzamento, tutte quelle cose che servono per sposarsi insomma. Ma alla fine ce l’avevano fatta. E visto che alla Cascina lo spazio ormai era quello che era, alla nuova coppia era toccato di spostarsi al Cascinino, forse un po’ troppo isolato ma sicuramente un bel posto.  Lì avevano continuato a mandare avanti la terra, inclusa quella che Caterina si era portata dietro in dote. Poi era arrivata la guerra. C’erano stati morti e ammazzamenti , dispersi, feriti e mutilati. Eserciti regolari, bande e sbandati erano venuti e se ne erano andati via, lasciandosi alle spalle più che altro lutti e macerie. C’erano stati gli attentati, le rappresaglie,  i bombardamenti, fortunatamente non troppo vicini. E soprattutto c’era stata la paura, la paura e la fame. Caterina era sempre rimasta al suo fianco, lui da solo di certo non ce l’avrebbe fatta. Poteva solo sperare di essere stato per lei lo stesso sostegno che lei era stata per lui, aveva compiuto anche l’impossibile pur di riuscirci.  Ma queste non sono cose di cui uno va a chiedere. Infine era scoppiata la pace, e la vita, lentamente, era tornata quella di prima. I figli erano arrivati subito dopo, in fretta: tre maschi e due femmine in totale, e farli crescere e diventare persone decenti era stato un gran bell’impegno.  Nel frattempo il mondo era cambiato. In campagna si usavano macchine sempre più grosse e potenti, e dove prima lavoravano tante persone adesso ne bastavano molte, molte meno.  I figli erano andati a studiare in città e avevano poi fatto le loro scelte. Solo il più piccolo, Pietro, era tornato a lavorare i campi, e ormai riusciva a stare dietro praticamente a tutto da solo o quasi. Erano arrivati la televisione, i telefonini e poi anche l’internet. Il paese si era dapprima spopolato, le case erano rimaste vuote e tanti negozi avevano chiuso. Il camioncino della frutta e verdura non passava più, nemmeno quello che vendeva le sedie a sdraio. Per fare la spesa, anche spicciola, bisognava andare in città. Al centro commerciale, dove metà delle cose che servivano per davvero non te le vendeva più nessuno. Se perdi un bottone, diceva la Rina, devi cambiare tutta la camicia. Poi la gente era tornata, ma non erano gli stessi prima. Adesso arrivavano da posti che non riuscivi a trovarli neanche sull’Atlante De Agostini. Senegal, Sri Lanka, Ucraina. E avevano tutti la medesima faccia, quella che avevano anche loro quando c’era la guerra: la faccia di chi ha fame, ha paura. Alcuni erano venuti a vivere in Cascina, tanto ormai di posto ce ne era, e aiutavano il figlio piccolo (che intanto era diventato grande)  a mandare avanti la terra. Un giorno probabilmente l’avrebbero presa loro, come avevano preso il bar del paese. E lo tenevano anche meglio di quelli che c’erano prima. Poco male, così andava il mondo. Le cose cambiavano e uno ci si doveva adattare.

Antonio uscì nel cortile del Cascinino. Erano rimasti solo lui e Caterina adesso, anche Pietro aveva preferito farsi costruire una villetta in paese. Un peccato, perché il Cascinino, come si diceva, era proprio un bel posto. E restava “ino” solo in paragone alla Cascina, in effetti di spazio ce n’era in abbondanza. Spazio e tranquillità. La strada che ci arrivava finiva lì, e appena più avanti il fiume si allargava per prender fiato e saltare giù da uno sbarramento costruito chissà poi per quale motivo. Intorno erano rimasti due vecchi filari di pioppi, e a maggio, quando liberavano i loro fiocchi, sembrava sempre che nevicasse. Comunque, loro avevano ormai superato la settantina ma il Padreterno li aveva tenuti in buona salute, e restare un po’ in disparte non era certo problema. Anzi. Era difficile capire perché la gente preferisse ammassarsi nei condomini, piuttosto, o nelle villette a schiera, con tutti i casolari abbandonati che stavano andando in rovina. Arrivò fino al portone, da lì l’ampio specchio d’acqua del fiume restava proprio di fronte.  Gli piaceva guardare la campagna che si rimetteva in movimento al mattino presto, specialmente ora che la primavera era appena iniziata. Dalla cucina arrivavano i consueti rumori della colazione. E i profumi, che mettevano una fame da lupi già da soli. Spesso e volentieri, ormai, si svegliava prima di Caterina, ma poi restava lì nel dormiveglia ad attendere che lei si alzasse per prima.  Per pigrizia, certo (se lo meritava però), ma anche per godersi quegli ultimi minuti di intimità prima che le incombenze quotidiane li separassero per il resto della mattinata. E poi a Caterina non sarebbe piaciuto scoprire di non essere più il motorino di avviamento della giornata. L'avrebbe fatta sentire in qualche modo meno importante. La casa, la famiglia erano  la sua vita, e lui avrebbe fatto tutto quello che serviva per tenerla al centro del mondo, a costo di doversi riaddormentare ogni volta. Almeno, così amava pensare al mattino presto, e più se lo ripeteva più gli sembrava plausibile.  Un movimento insolito al centro preciso del laghetto, se così si può dire, colpì la sua attenzione. Aguzzò la vista per capire cosa stesse guardando, poi, quasi automaticamente, chiamò: “Rina! Vegna a vidè che strani Agni in rivà!” Vale a dire “Vieni a vedere che strane anatre sono arrivate!” In effetti non erano anatre, ma Svassi.  Svassi Maggiori per la precisione, non molto comuni a quei tempi. Si erano piazzati proprio nel punto in cui lo slargo del fiume raggiungeva la sua massima ampiezza e, presumibilmente, profondità. Quasi subito il maschio aveva preso a lanciare strani latrati in direzione della femmina. Quindi si era immerso, per riemergere immediatamente accanto alla compagna che nel frattempo aveva assunto una posa che ricordava un gatto in agguato. Terminata l’operazione, la pantomima si era ripetuta a parti invertite, e poi ancora e ancora... Dopo un po’ di girarsi intorno, uno dei due si era sollevato sul pelo dell’acqua di tutta la sua altezza, e l’altro gli si era posto di fronte nella stessa posizione, accompagnando il movimento con una serie di trilli e richiami. Erano rimasti così per parecchi secondi, dritti come due pinguini sul ghiaccio, poi erano ridiscesi, iniziando a scuotere le teste a destra e a sinistra. C’erano state altre rincorse e scuotimenti, e danze e balletti che culminavano spesso in quella strana posizione in piedi sull’acqua, pancia contro pancia. In un paio di occasioni c’era anche stato uno scambio di doni, ciuffi di alghe raccolte sul fondo sembrava.
“As veda che as voran ben”, "Si vede che si vogliono bene", commentò dolcemente Caterina, che doveva già essere arrivata da qualche tempo.
Antonio si voltò e la guardò negli occhi. Come tanti anni prima, in chiesa, non c’era bisogno di altro. Non c’era mai stato. Però questa volta non poté far a meno di pensare a quei due uccelli, nel fiume, che stavano dichiarando  il loro amore al mondo intero. Pensò a tutte le occasioni in cui avrebbe potuto fare lo stesso. Avrebbe dovuto fare lo stesso.  Pensò ai giorni della guerra, pensò alla nascita dei figli. E a quando se ne erano andati. Pensò agli anni che avevano trascorso insieme, e non erano stati tutti buoni. In un istante pensò a tutto questo, e a come lei era sempre stata lì per lui. E lui per lei, ma di questo non se ne era mai parlato. Perché di queste cose non si parla, no? Non serve. Non sta bene. Però, stavolta..
Strinse a se la sua Caterina, e con voce incerta le mormorò: “Ti amo.”
Lei rimase sbalordita per un lunghissimo istante, poi, con la stessa voce rotta dall’emozione, rispose. “Anch’io ti amo, Tonio.”
Era la prima volta che dichiaravano il loro amore. Con la pratica sarebbero migliorati.

mercoledì 27 maggio 2015

Daniele Seca - Giulia

Munch e Hayez
invidiano i nostri baci
dipinti
dai battiti d’ali di farfalla
allo schiudere delle tue labbra.

Col mio dito
pennello
accarezzo la cornice del tuo corpo,
una tela di pelle
su cui,
al di là di campi di papaveri impressionisti
si stagliano le stelle di una notte di Van Gogh
e volano pavoni rinascimentali.

Così,
mentre tu sorridi
Giuditta
e ti vesti d’oro
ricordo
io suono la schiena della viola di Man Ray.

Ed è un sogno
Dalì.



I moti del mio cuore
rispondono al mare
che ascolta la luna
quando gonfia il petto di maree.
Sono le mie onde che si muovono
in abbracci d'acqua.
La danza del mio corpo di sale
che si spinge fino ad arenarsi
tra le morbide dune del tuo seno.
Ti voglio roccia che diventi argilla;
lingua che l'onda avvolge in spuma.
Nella mia presa liquida
sfugge il tuo ventre di sabbia confusa,
scivoli e ti perdi nel vento.
Continuerò a inseguirti
su altre spiagge;
fiume che rincorre la foce;
torrente rabbioso
che sgorga in cascata.

Daniele Seca - Matrimonio ligure

Ricordo Montale
in questi vicoli colorati:
orchestre di cicale
vibrano timpani sillabe
e trombe di gabbiani
ne intonano la strofa.
L’orizzonte seduce al di là dei tetti
dove si lascia indovinare
il viso turchese che chiama a scoprirlo,
superando le case,
togliendo il velo della sposa
dai muri.
Volto
a inseguire
i suoi occhi azzurri
nell’onda
per queste strade
discendo il sentiero,
ricorrendo il suo profumo
cammino
tra le panche di gesso
e il tappeto di pietra
che conduce all’altare selciato
dove incontro
la mia donna
il mio mare
la mia chiesa.

lunedì 25 maggio 2015

Gioele Valenti - Strega dell'aria

Non che fosse diversa dall’ultima volta. Solo, la casa era più simile alla sua idea di come sarebbe stata: una struttura che si reggeva a stento sulle fragili fondamenta del ricordo. La porta era aperta. Salì la stretta rampa di scale e irruppe nelle stanze. Un fascio di luce filtrava dalle commessure del giorno. Il vecchio lo guardò, non sorpreso. Aveva la barba lunga e un ampio vestito da derviscio.
Com’è andato il viaggio?, gli chiese.
Al solito, rispose. Strade bucate e l’assedio del sole.
Più che imbianchito, il vecchio appariva diafano. Invecchiare non è questione di tempo e carne vizza, è un fatto di colori. La scala di grigio a ripetizione, un processo di luce da zero a cento, perenne. Il vecchio tirò fuori un bicchiere e lo riempì di vino rosso.
Non bevi?, chiese.
Non ho mai bevuto.
Ah, già, fece.

La stanza era sporca.
Scusa per l’odore, i gatti hanno pisciato praticamente dappertutto.
Si sente, disse.
Uno dei gatti lo guardava lubrico. Ritto, la coda acciambellata, era la delicata entità pagana della simmetria.

Una sottile muffa avvinghiava la parete nord e le donava una piacevole fluorescenza. L’uomo allineò sul tavolo due pesci panciuti. Ne alzò uno profilando un feroce guizzo, gli infilò in pancia un dito nero e ne estroflesse un intrico anelliforme e semiliquido. La padella già sfrigolava. Mangiarono secondo il rigido protocollo del silenzio.

Il gemello giunse alla casa più tardi, dalla stessa strada interpoderale, solcò la stessa campagna pelata, attraversò lo stesso viale alberato, ma veniva da un tempo diverso, un ordito cosmico che recava il contrassegno dell’ordine, della linea retta. Abbracciò il vecchio, strinse la mano al suo corrispettivo omozigotico.
Come te la passi?, sistemandosi sulla testa dei Ray Ban a specchio passati di moda da almeno dieci anni.
Ho visto tempi peggiori.
Entrarono nella stanza del camino. Il padre servì del caffè turco.
Riparto stasera, domani rientro al lavoro, disse il gemello ultimo arrivato. Voglio essere chiaro. S’aggiustò sulla sedia e poggiò i gomiti sul tavolo.
 La terra non mi interessa, ma per quanto riguarda la casa, quando papà sarà andato, voglio sia messa immediatamente in vendita.
Quando papà sarà andato, ne riparleremo.
Meglio deciderlo subito e metterlo nero su bianco.
Non è detto che io sia disposto a vendere, disse il gemello numero uno.
Non puoi decidere da solo, è l’eredità di mamma. Se non vorrai vendere, allora dovrai darmi la mia metà, in soldi. La faremo valutare e…
Quando sarò andato, voi potreste anche avermi preceduto, uno o tutt’e due, meglio non dare nulla per scontato, disse il vecchio, con un sorriso da ruga orizzontale. E di certo, di cosa fare della casa, sarà l’ultimo dei miei problemi. Inoltre, aggiunse, la casa non è negoziabile.
Tra il gemello numero uno e il vecchio scoccò una telefonata visiva, strana lugubre intesa. Il gemello numero due invece non capì e rimase con la bocca mezzo aperta e gli occhi preda di uno stolido interrogativo.
Il vecchio uscì in giardino, si fece largo tra erbe infestanti e giunse al casotto degli attrezzi. I gemelli continuarono a scrutarsi come cani prima di un combattimento, valutando più che forza muscolare, incrinazioni nel tessuto della sicurezza, possibili falle nel muro dell’altrui volizione.
Fuori  l’aria s’addensava, e cumulonembi, in alto, riorganizzavano nuovi piani per una luce in lenta digradazione.
Quando il vecchio rientrò, il gemello numero uno stava rollandosi una canna d’erba sotto lo sguardo schifato della sua controparte zigotica.
Il vecchio gettò un fascio di fogli sul tavolo. C’era un’intestazione. C’erano delle volontà e delle clausole. C’era un distico che recitava debita hereditaria ipso iure dividuntur, dunque patti da rispettare tra contraenti, de cuius, terzi e successori. Sulla carta vi era un logo costituito da un triangolo dentro un cerchio. Era il loro marchio su tutto, il contrassegno di un potere ancestrale e pervasivo, ampie sfere d’influenza su corpi e menti.
La casa non è di mamma, quindi… Appartiene a loro?, chiese Gemello numero due, e la voce s’alzo di un’ottava e qualche decibel, un’impennata al limite con l’isteria.
Diciamo che lo è stata fintanto che la donna ha reso proficuo ufficio.
Tu sapevi?, chiese numero due. Sapevi e non ci hai mai detto nulla su questa monatgna di merda.
Sì, sapevo. Stai parlando di mia moglie.
Parlo di mia madre, numero due scattò su come una furia.
Il vecchio lo fulminò con uno sguardo ferino.
Siediti, gli ordinò.
Il gemello numero due obbedì. Guardò i due e aggiunse, siete ancora infognati in questo cumulo di merda, anche ora che mamma è sottoterra.
Sta molto attento a quello che fai, disse il vecchio. La casa appartiene a chi officia il rito. La cosa ha dei privilegi, ma grandi oneri. Ti sei mai chiesto come hai fatto a laurearti, tu, festaiolo del cazzo? Sotto sotto, l’hai sempre saputo.
Non sono affari miei. Siete degli squilibrati e non voglio entrarci niente. Il numero due si alzò, indossò la giacca di cachemire. Presto avrete la lettera del mio avvocato.
Il vecchio leone balzò per un interminabile attimo fuori da una qualche caverna profonda. Il padre s’avventò sul numero due. Uno dei gatti, il persiano, saltò in aria, e quando atterrò slittò sulle zampe posteriori, prima di darsela a gambe verso l’uscio.
Idiota, hanno branchi d’avvocati… hanno banche, hanno pusher, hanno catene di fast food, hanno hackers, e il tuo neolaureato figlio di papà avrà una macchia d’urina sulla patta prima ancora che la sua letterina avrà lasciato lo studio.
Il numero uno corse ad allentare la presa del vecchio. Il numero due si divincolò e uscì dalla casa. Il vecchiò gli chiocciò dietro una risata avvilita. Ti romperaranno il culo.
Il persiano tornò in casa a sera inoltrata, scaricando in dono a qualche divinità della casa un topo morto sul tappeto.

Quando il telefonò trillò, verso le 22, padre e figlio erano ingobbiti sui resti di una cena frugale.
Il vecchio alzò la cornetta, ma non disse pronto. Non disse nulla. Durò poco, e il figlio colse solo qualche scampolo di conversazione. Quando chiuse, il vecchio dimostrava qualche eone in più.
La successione riguarda la primogenitura, disse.
Siamo gemelli, gli ricordò numero due.
Lui. Lui è stato partorito per secondo. Legalmente è lui.
Prenderanno la casa?, chiese il figlio.
Nella migliore delle ipotesi, rispose il vecchio.
Restarono seduti uno di fronte all’altro, senza una parola, fino a notte inoltrata.

La strega mancava, un’assenza elettrica e con un peso specifico. La casa non era morta, ma appassita. Esangue, deprivata d’una linfa densa e torbida, rea d’aver dato, in tempi andati, vita e colore agli oggetti.
Se n’è andata com’è vissuta, disse. In punta di piedi, aggiunse. Nella voce del vecchio risuonava una dolcezza che non aveva mai avuto. La blandizie della resa. Il vecchio leone non era più lì. Forse stava agonizzando da qualche parte, nel buio fuori. Ma non era più lì.

Una camera da letto dava su scampoli di notte. Era il ricettacolo di chincaglieria Wicca. Lo smalto da baraccone, se ti fermi al primo livello. Una serie di cerchi concentrici con al centro l’Oro. Ma al centro ci si arrivava smarcando il guardiano del giardino. Frugò in un cassetto. C'erano lettere e ritagli di giornale, c'erano calze di seta e un involto con dell’erba. Prese l'indormia e si recò in cucina.

Dormì nel letto della strega. Poteva sentire il vecchio nell’altra stanza, i marosi senili di un calmo russare. Sul soffitto una cartografia maculata, fatta di stelle fluorescenti a disegnare il Carro. Tirò su le coperte ed esalò, poi sprofondò nella pancia della madre un’ultima volta, come fosse un Edipo in overdose.

Il giorno li sorprese con una luce smorta. Si salutarono nel cortile con l’impaccio di chi è nudo.
Sai cosa mi manca?, chiese il vecchio.
Si, rispose l’uomo. Lo so. Ma è per ognuno diverso. Poi vide con l’occhio dello stomaco un’alba di mani e pentacoli su un seno morbido. Il caprifoglio in giardino sfioriva.
Sulla faccia del vecchio un qualche ricordo incise l’ultimo fatale solco.

Silvia Giani - Se

Se  l’Amore potesse scegliere
non se ne starebbe
rannicchiato
in una pastiglietta blu.
Lo vedresti andare in giro,
mano nella mano.

Silvia Giani - Poesia dell'amore non corrisposto

Il suo sguardo, a volte,
m’inchioda alla piastrella.
Mi lascia come un pesce
a boccheggiare sul tagliere.
Lui passa e va,
io rimango.
In ginocchio,
a cercare
con affanno
e dita indelicate
il bandolo della matassa
dei sentimenti sfilacciati,
dei desideri dissidenti,
degl’impossibili futuri.

Silvia Giani - Dilige

D’avorio, d’acciaio,
rinchiusa e sepolta
nelle torri
la cifra dell’uomo:
ama, e fa’ quel che vuoi.

Mario Tommasini - Normale premura

Un risveglio flautato,
che lo sai quanto apprezzo,
il caffè con lo zucchero,
cucchiaini, uno e mezzo.

Tu che uscendo ritorni,
solo per salutarmi,
in un giorno qualunque
hai deciso di amarmi.

Tanto è ignota e pesante
ogni cosa in natura,
quanto ricca e speciale
la "normale" premura.

Che rafforza il legame
di chi, libero ostaggio,
condivide partecipe,
ogni meta del viaggio.

Il tuo complice abbraccio
ogni volta è l'invito
ad unire gli sguardi
al futuro infinito.

Chiara Santillo – Soffiava la brezza in riva al mare

Soffiava la brezza in riva al mare Adriatico. Soffiava tra i capelli, scuotendo i miei pensieri.
Soffiava sulle onde, increspandole a riva in flessuose piroette.
Correva lo sguardo sulla linea dell’orizzonte. Era un pomeriggio afoso d’agosto. Leggevo e sognavo, sognavo e leggevo.
La mente è come una farfalla che vola tra le idee che crea la fantasia, vi si poggia in un attimo di serenità e poi riprende a vagare in cerca della sua oasi.
Rimasi a lungo a fissare l’orizzonte dopo aver letto quelle ultime righe sulla sofferenza di un amore non rivelato. Di scatto mi alzai e cercai un contatto con lo spazio che mi circondava. Percorsi chilometri di spiaggia nella più totale assenza, non accorgendomi del tempo che continuava a scorrere veloce e del sole che mi accarezzava le spalle spogliandole del loro tenue pallore, sorda alle grida dei bambini che costruivano castelli di sabbia ingoiati dal mare a riva.
A un tratto sentii una voce che interruppe il flusso dei miei pensieri. In realtà credo mi stesse chiamando da un po’, ma solo in quel momento avvertii la sua presenza e alzai lo sguardo.
Mi chiese: “Scusi, sa dove si trova lo Stabilimento Balneare Aurora?” Rimasi un attimo sorpresa e guardandomi attorno mi accorsi di aver vagato per ore e di non sapere con precisione dove mi trovassi. Rimasi a fissarlo immobile, incrociando i suoi occhi castani lucidi e profondi. Risposi con una frase sciocca, ma fu la prima cosa che mi balenò per la mente: “Eh io che ne so … Perché chiede proprio a me?” Lui rispose: “Tu dove stai andando?” - “Non lo so” - risposi - “Sto seguendo il vento che mi ha portato fin qui col suo soffio leggero, mentre osservavo le nuvole danzare intorno al sole e le onde trascinarmi nell’acqua”. “Interessante! Come ti chiami?” - “Carlotta, e tu?” ribattei senza esitazione. “Paolo … Ti va un gelato?” - ”Sì, in effetti sto camminando da ore, sto cercando risposte, ma finora ho trovato solo domande … le mie … le tue …”. E così ci incamminammo sulla sabbia bollente, lasciando che le nostre orme vicine si stampassero sulla sabbia. In effetti non so perché accettai l’invito di questo sconosciuto. Fu l’istinto a spingermi ad andare. E mi sembrò come se Paolo fosse stata l’unica persona ad essersi accorta di me. Ebbi l’impressione che quella mia fuga momentanea dal reale fosse passata inosservata a tutte le persone che avevo incrociato sui miei passi fino a quel momento. E il fatto stesso che Paolo, invece, mi avesse notata fu un’ulteriore spinta a fidarmi di lui.
Iniziava ad incalzarci la brezza marina, disperdendo i granelli di sabbia casualmente.
Arrivammo senza accorgercene al Lido Aurora. Alzai lo sguardo e vidi l’insegna scintillare. Esclamai: “Lido Aurora! Non era lo stabilimento che stavi cercando?” Paolo esitò nel rispondere, poi disse: “In realtà sono partito dal Lido Aurora, non mi sono perso … Anch’io sto cercando delle risposte … Scusa se ti ho mentito, ma avevo bisogno di parlare con chi sta provando le mie stesse sensazioni”. Restai per un momento in silenzio. In effetti il suo discorso mi turbò, mi sentii per un momento nuda, perché sembrava leggesse nella mia anima. E ciò mi procurò vergogna, un’improvvisa voglia di fuggire. Ma non riuscii a muovermi. Sull’arena c’era una vecchia barca abbandonata, celeste e bianca, due colori che si armonizzavano col cielo e la spuma del mare. Sedetti su quella vecchia imbarcazione, scolorita dalla salsedine e dagli anni. Affondai i piedi nella sabbia ed il viso tra le mani come per coprirmi. Paolo si accorse dei miei tentennamenti, del mio malcelato imbarazzo e mi raggiunse. Mi disse: “Che gusto preferisci? Pistacchio?”. Di nuovo rimasi stupita. Il pistacchio era il mio gusto preferito e annuii senza guardarlo.
La scogliera brillava sotto la carezza dei raggi del sole, gli stessi raggi che scivolavano sulla mia pelle sciogliendo le paure nel cuore, come lastre di ghiaccio. Paolo mi confessò che da un po’ mi osservava negli afosi pomeriggi di quel mese quando ero sola sotto il mio ombrellone e lui girovagava sulla spiaggia in cerca di risposte. Si era accorto che i miei occhi osservavano,ma non guardavano, erano l’espressione dell’essenza del pensiero. E lui era affascinato da questa mia diversità rispetto a tutti gli altri “attori” che animavano la spiaggia. Rimasi a fissarlo intensamente, mentre la sensazione di “nudità” lentamente scivolava via. Gli dissi: “Sono incinta”. Paolo rimase sorpreso da queste mie parole, che attraversarono la sua mente come un fulmine improvviso. Ora leggevo nei suoi occhi lo stesso imbarazzo che avevo avvertito io fino a pochi istanti prima. Poi continuai, constatando la sua esitazione: “Teramo non è una metropoli, tra un po’ lo sapranno tutti … Anche i miei genitori … Ho solo 18 anni!”.
Paolo era uno studente universitario, frequentava la Facoltà di Architettura. Ancora un esame e poi … Era spaventato dal futuro, come lo ero io. Gli anni universitari erano volati ed ora temeva di non riuscire a trovare un lavoro. Aveva già inviato decine di curriculum, ma senza ricevere alcuna proposta, alcuna risposta. Per questo continuava a porsi domande. Sia per me che per lui era arrivato il momento di affrontare il presente. Mio padre, un ingegnere, stava cercando un architetto per un progetto che gli era stato affidato a seguito dell’aggiudicazione di una gara d’appalto. Colsi la palla al balzo e gli dissi: “So chi potrebbe aiutarti … Mio padre sta seguendo un progetto innovativo di riqualificazione del centro storico di Campli. Ti andrebbe di fare un colloquio con lui? Finora ha visto molti giovani, ma di poca sostanza e con poco spirito di sacrificio. Tu sembri diverso. Tu hai una gran voglia di imparare, sei un ragazzo profondo ed umile, lo leggo nel tuo sguardo, nella semplicità dei tuoi modi … Magari non ci siamo incontrati per caso …”
Paolo rimase sorpreso dalle mie parole, non si aspettava di trovare una risposta in quel caldo pomeriggio. Stava preparando un esame impegnativo e si sentiva scoraggiato, la tesi era già pronta da mesi sulla sua scrivania, l’avrebbe discussa a fine settembre. Fece un sorriso bellissimo che come un enorme sole gli illuminò il viso. Mi disse: “Sei un angelo, grazie! Come rinunciare ad una proposta così invitante?” - “Ti va di venire a casa mia stasera? Così mi accompagni, non mi sento molto bene, mi gira un po’ la testa, temo di essermi molto stancata a girovagare e pensare oggi pomeriggio … Ti presento mio padre e vediamo come va” incalzai prontamente.
Decidemmo di partire subito col primo treno che da Pescara ci avrebbe portati fino a casa mia, nel centro storico di Teramo, di fronte al Duomo. Il treno sembrava solcare le onde mentre il tramonto si spegneva nelle acque lucenti dell’Adriatico. Paolo mi strinse la mano e mi chiese: “Sai di chi è il bambino? E lui sa di quanto ti sta accadendo?” Germano, il mio fidanzato, non sapeva che ero incinta. Dovevamo frequentare l’ultimo anno delle superiori, come avremmo fatto? Lui era a rischio bocciatura, io non ero sicura di voler tenere il bambino, dovevamo diplomarci, le nostre famiglie desideravano questo per il nostro futuro. “Dovresti parlargliene” – incalzò Paolo, mentre l’ultimo raggio che filtrava dal finestrino gli abbagliava gli occhi – “il peso di questa decisione non può essere solo tuo. E dovresti parlarne alla tua famiglia”. “Ma secondo te, Germano capirà? Mi capirà?” gli domandai. “Sì, se Germano ti ama davvero come dici, lui capirà. Come canta Battiato <Tutto l’universo obbedisce all’amore…>. L’amore è il motore delle nostre esistenze. Anche se ieri avete litigato, vedrai che tutto si sistemerà. Gli devi delle spiegazioni... Anche per me è stato così …” E su queste parole si interruppe, mentre una lacrima gli rigava il viso come un ruscello su un prato fiorito. Mi raccontò che due anni prima aveva conosciuto una ragazza a Pescara, in Piazza Salotto, bellissima, bionda, con gli occhi azzurri. Faceva la cameriera in un rinomato caffè storico del centro che di lì a pochi mesi chiuse i battenti. Inaspettatamente. Lui era un cliente abituale di quel bar e appena vide Petra se ne innamorò perdutamente. Lei si trasferì nella casa che Paolo condivideva con altri studenti nei pressi della lussureggiante Pineta Dannunziana dove amavano trascorrere i pomeriggi di primavera, osservare la natura esplodere di vita, passeggiare mano nella mano sotto le macchie d’ombra dei pini d’Aleppo. Quando rimase incinta gli era stato vicino, ma un giorno lei scomparve nel nulla, facendo perdere le sue tracce per sempre. E lui non seppe mai se suo figlio fosse venuto al mondo oppure no, perché non era mai più riuscito a contattarla. Pensava avesse abortito, aveva bisogno di soldi e doveva lavorare, non avrebbe potuto “perder tempo” con una maternità, probabilmente era tornata in Germania …
Arrivammo nella stazione di Teramo sul far della sera. Poche persone scesero dal treno, di corsa. Attraversammo il ponte che ci avrebbe portati nel centro storico, con quel sapore antico che ancora conservava nel cuore, sotto gli occhi dei corvi che ci spiavano dai rami degli alberi del parco fluviale. Superammo il groviglio di vicoli più o meno stretti, con l’asfalto ancora caldo che mi bruciava i piedi. Sotto casa mia vidi in lontananza Germano che mi aspettava con un mazzo di fiori in mano. Quando mi vide con Paolo, gettò i fiori a terra in un impeto di gelosia. Stava attraversando un periodo particolare anche lui, i suoi si stavano separando ed era spesso nervoso ed intrattabile. Paolo gli corse incontro e gli parlò. Gli disse che dovevo presentarlo a mio padre per il suo progetto e che mi aveva riaccompagnata a casa perché non mi sentivo bene. Arrivai anch’io, gli diedi un bacio sulla guancia, ma Germano mi allontanò chiedendomi perché non lo avessi chiamato se stavo male. Fu a quel punto che gli dissi: “Sono incinta …” Paolo mi aveva dato forza, pensai che fosse arrivato il momento di metterlo al corrente di quanto mi stava capitando, ci stava capitando. Lui mi strinse forte tra le sue braccia. Lasciammo per un attimo Paolo da solo davanti al citofono di casa mia e corremmo mano nella mano, condividendo un’emozione fortissima accompagnata da un brivido di intensa felicità, mentre diffondevo nell’aria l’odore di salsedine che sprigionava il mio corpo di mamma. Corso San Giorgio era semi-deserto, dalle finestre aperte si scorgevano le famiglie riunite per consumare la cena. Germano mi disse: “Sono felicissimo, Carlotta. Perché non me ne hai parlato prima?” Di colpo le mie paure, le mie ansie, le mie preoccupazioni svanirono. Intanto mio padre stava rincasando e vide Paolo un po’ in imbarazzo, così gli domandò chi stesse cercando. Lui disse che cercava un ingegnere, il padre di Carlotta … e bisbigliò sottovoce: “Sto per diventare architetto”. Mio padre lo invitò a salire in casa nostra e gli chiese se avesse con sé il curriculum. Paolo lo cercò sullo Smartphone che gli aveva regalato sua zia per il compleanno e lo inviò prontamente all’Ing. Bramarte. Quando la bustina con la mail si aprì, il padre di Carlotta rimase stupito dalla semplicità ed al contempo efficacia con cui Paolo, da solo, aveva redatto il suo curriculum. Assolutamente impeccabile ed essenziale. Gli chiese se gli andava di iniziare a collaborare con lui a partire dalla settimana seguente, mentre io e Germano rientravamo in casa, mano nella mano, raggianti di felicità, con gli occhi lucidi come le stelle che decoravano il cielo di quella speciale notte d’agosto che ci aveva uniti nel nostro segreto. Mangiammo a sazietà, poi accompagnammo Paolo a Pescara, mentre le stelle cadenti tempestavano il cielo ed ognuno di noi, nel suo cuore, esprimeva un desiderio che era già diventato realtà in quella magica sera. E la radio cantava: “Tutto l’universo obbedisce all’amore…”