mercoledì 13 gennaio 2016

Marco Maresca - Serena

Il padre di Mario morì quando il ragazzo aveva diciassette anni. Lavorava come tecnico manutentore in una raffineria che si affacciava sul mare. Uno di quegli stabilimenti che inquinano non solo l’aria, l’acqua ed il suolo ma anche l’umore delle persone. Uno di quei posti per i quali si parlava di chiusura già dal giorno seguente all’inizio dell’attività. Carlo, questo era il nome del padre di Mario, si era calato in uno stretto passaggio sotterraneo ed era morto per mancanza di ossigeno. Pare che nessuno gli avesse dato ordine di entrare nel cunicolo, come emergeva dai verbali. Un rappresentante della raffineria si era recato presso la casa di Mario cinque giorni dopo l’accaduto ed aveva consegnato al giovane orfano una busta contenente degli assegni per coprire le spese dei successivi due anni di istituto tecnico. Appena completati gli studi, Mario era destinato a riprendere nello stabilimento il posto del padre.
Ora Mario ha venticinque anni e questo è il sesto anno che lavora in raffineria. Fa il tecnico turnista e i momenti liberi li passa al bar del suo paese, con gente più grande di lui. Il sabato sera giocano a poker nel retrobottega. A volte vince, a volte perde, a lungo andare pareggia i conti. Quando vince, solitamente, offre un giro di birra a tutto il tavolo, lui che è astemio. Quando perde, invece, esce dal locale con duecento o trecento euro in meno nel portafogli e sparisce dalla circolazione per qualche settimana, per poi ritornare come se nulla fosse. A casa, Mario ha due sorelle ancora minorenni ed una madre. Nessuna di loro gli proibisce lo svago del poker, ma una quota dello stipendio serve alle esigenze famigliari e quindi Mario deve stare molto attento alle spese.
Le poche domeniche libere Mario le dedica al volontariato presso un gruppo di disabili che frequentano la località marittima nella quale vive. A quanto pare l’aria di mare fa bene, nonostante la raffineria attiva da quarant’anni. Presso il gruppo di volontariato Mario ha recentemente conosciuto Serena, ventitré anni. Gli arti inferiori di Serena sono nati deformi e quindi il chirurgo aveva deciso per l’amputazione di entrambi, sopra il ginocchio. Serena ha una forza impressionante nelle braccia, che utilizza per alzarsi dalla carrozzina e salire sul furgone guidato da Mario, ma la mancanza dell’articolazione delle ginocchia le impedisce di camminare per lunghi tratti con l’ausilio di protesi e stampelle.
Serena è figlia di un ricco armatore e studia ingegneria navale. “Si vede proprio che ti fa bene stare al mare”, le dice Mario ogni volta che i loro sguardi si incrociano sul furgone, “i tuoi occhi sono diventati dello stesso colore dell’acqua marina… Beh, magari non qui vicino alla raffineria, ma più in là, al largo, le acque sono proprio così”. Di solito Serena risponde sorridendo e ringraziando timidamente, ma oggi, con inaspettato coraggio, si lancia in un’esternazione. “Adoro il mare e ho in mente una sorpresa… Ma ho bisogno del tuo aiuto. Vediamoci martedì sera, prima del tramonto”.
Mario non era in attesa di sorprese e passa la domenica sera e tutto il lunedì in uno stato di profonda agitazione. Per un attimo si pone anche l’interrogativo di come faccia Serena a sapere che martedì sera lui non lavora. Poi non ci pensa più e alle cinque di martedì pomeriggio sale sulla sua automobile e va a prendere Serena al centro per disabili.
Serena indica la strada ed in mezz’ora di macchina i due arrivano ad una piccola baia dall’acqua limpida. E’ una proprietà privata ed è recintata, ma la ragazza ha le chiavi per entrare. C’è ormeggiata una barca a remi. “E’ di mio padre”, dice Serena, “ma la uso spesso anch’io. Dammi una mano a salire a bordo e a caricare il mio zaino”. Nonostante le oscillazioni dovute alle onde del mare, Serena sale facilmente a bordo della barca. L’aiuto da parte di Mario è minimo, perché la ragazza ha una gran forza nelle braccia. Lo zaino, invece, una di quelle grandi sacche da campeggio, in grado di contenere una tenda e altre cose di quel genere, è pesante e sembra racchiudere al proprio interno qualcosa di gommoso ma al tempo stesso metallico.
“Non mi aspettavo tutto questo peso… Cosa c’è qui dentro?”, chiede Mario incuriosito.
“C’è la sorpresa”, risponde Serena, lasciando intendere che lo zaino non andasse aperto in quel momento.
E’ Serena a remare, instancabile, fino al largo. Nel frattempo racconta poco di sé. Parla dei suoi studi, del suo stage in Olanda e del fatto che negli altri paesi europei ci siano meno limiti ed ostacoli, soprattutto per chi è disabile. Poi è il turno di Mario, al quale nessuno mai chiede come vada la vita. Mario non è abituato a parlare di sé, di certo non durante i turni di manutenzione, né al tavolo del poker, né con le sorelle piccole, né con la madre che pensa a Carlo e ai soldi che mancano. Ma dopo meno di un minuto di imbarazzo si lascia andare. Scavalca Serena, che sta remando, e si porta sulla prua della barca, girato verso la ragazza, guardandola negli occhi, noncurante di oscurarle la visuale. Serena continua a remare, mantenendo il contatto visivo con Mario. Non ci sono imbarcazioni all’orizzonte e difficilmente la barca di Serena entrerà in collisione con qualcuno. Mentre il sole si appresta a tramontare, Mario inizia a parlare ed è un fiume in piena che sfocia nel mare degli occhi di Serena.
“Sono condannato a fare questo lavoro per tutta la vita. Un po’ per volta ci tolgono anche le poche cose che avevamo. Quest’anno perdiamo la Pasqua pagata, poi perderemo il premio per le presenze, poi la tredicesima e andando avanti così arriveremo al punto che se staremo a casa in malattia ci toglieranno una fetta di stipendio. Ma il peggio è per quei giovani che iniziano a lavorare ora e non sanno nemmeno di cosa stiamo parlando. Penseranno che siamo sempre stati dei privilegiati. E poi in raffineria siamo sempre di meno. Sono obbligato a fare gli straordinari, anche quando sono stanco, perché devo lavorare anche per chi va in pensione. Mi guardo intorno e vedo chilometri di corridoi vuoti, reparti da dieci persone dove prima ne lavoravano cento. Un giorno la raffineria chiuderà come hanno chiuso tutte le altre industrie della zona, o forse verrà acquistata da qualche gruppo straniero e noi verremo licenziati e riassunti ripartendo da zero e senza tutele. Due panini e una birra al giorno. Quello sarà il nostro nuovo stipendio. Io la birra neanche la bevo, quindi magari riuscirò a mettere qualcosa da parte”.
Serena, che ha alle spalle una situazione famigliare, sociale ed economica completamente diversa, sembra accogliere gli sfoghi di Mario senza difficoltà. Sembra capirlo, lei che ha visto e vissuto anche altri angoli di mondo. Ciononostante, pur consapevole dell’inutilità della propria domanda, prova a simulare entusiasmo nel chiedergli se non ci sia una possibilità per lui di andare altrove o di cambiare vita.
“Sono orfano di padre e ho sorelle piccole da mantenere. Non abbiamo risparmi. Devo andare avanti coi turni e tutto il resto. Non ho amici veri, non ho una donna e forse non l’avrò mai, perché questo stile di vita mi logora e mi impedisce qualsiasi contatto. E poi non c’è più nessuno qui, se ne vanno via tutti. Ormai lavorare così, da operaio, è una cosa del millennio scorso. La generazione precedente ci metteva entusiasmo: i soldi bastavano, si potevano avere sogni, creare una famiglia, pensare a comprare la macchina e fare le vacanze. I giovani non fanno più questa vita. Chi ha i genitori o i nonni alle spalle può inventarsi qualcosa per vivere come ai vecchi tempi. Può sposarsi, fare figli, viaggiare, come se niente fosse, finché non si esauriranno le risorse. Chi è rimasto incastrato, come me, può solo andare avanti così fino ad una pensione che forse non arriverà mai”.
Arriva il tramonto. Gli occhi di Serena sono, in questo momento, esattamente dello stesso colore dell’acqua sulla quale si muove la barca. Un misto tra il verde e l’azzurro. La ragazza smette di remare e durante alcuni istanti di assoluto silenzio fissa il sole all’orizzonte. I suoi occhi brillano ma Mario non può vederli perché nel frattempo è tornato a poppa, dove c’è lo zaino. Sa che è il momento di aprirlo.
Mario tira fuori la pesante e complessa apparecchiatura contenuta nella sacca. E’ qualcosa che il giovane non aveva mai visto. Esternamente è di un colore tra il verde e l’azzurro, lo stesso degli occhi di Serena, e sembra fatta dello stesso materiale delle mute subacquee. Ha la forma della pinna caudale di un grosso pesce. La trama della plastica di cui è rivestita sembra ricalcare quella delle scaglie che ricoprono l’orata o il pesce persico. Da un lato è aperta e si intravedono una serie di componenti meccanici ed elettronici, due incavi della dimensione dei moncherini delle gambe di Serena e, negli spazi liberi ai fianchi, due salsicciotti rivestiti di materiale impermeabile, dalla funzione sconosciuta.
Lo strano congegno pesa meno di una decina di chilogrammi e Mario lo guarda con stupore ed ammirazione per qualche istante mentre lo tiene tra le mani. Poi lo passa a Serena, che inserisce negli incavi ciò che le resta delle gambe ed allaccia una serie di fibbie. “Studiare ingegneria navale mi è servito a qualcosa. Da questo momento in poi cambio nome. Ero Serena, ora sono Sirena”.
Serena, ora Sirena, guarda con entusiasmo la sua nuova appendice a forma di pinna. Prova qualche movimento in una direzione e nell’altra. Poi, con un deciso colpo di reni, si tuffa in acqua ed inizia a nuotare. La pinna si muove da una parte all’altra con movimenti decisi e fluidi. La strana creatura marina nuota per qualche decina di metri, poi si gira verso Mario, che guarda incredulo.
Mario si tuffa in acqua. Con una cinquantina di bracciate raggiunge la sua Sirena. La barca appare molto lontana ed il sole ha già ampiamente raggiunto la linea dell’orizzonte. “Io e questo mare siamo fatti della stessa sostanza. Non è stato semplice per me adattarmi alla terra. Ora posso tornare da dove sono venuta”. Mario non è convinto di capire perfettamente cosa la sua amica intenda dire, ma dentro di sé è tranquillo e prova un sensazione di sottile entusiasmo che mai prima d’ora aveva sperimentato nella vita.
Sirena ricomincia a nuotare. Con decisi movimenti di reni è in grado di saltare fuori dall’acqua e piegare la pinna e poi tuffarsi nuovamente. Come un pesce. Senza difficoltà. Mario è estasiato.
“E’ profondo il mare in questo punto. Vieni qui sotto. Vieni qui sotto con me, Mario”, esclama Sirena, con voce dolce ed accogliente. “E’ profondo, vieni qui sotto con me…”.
Sirena si immerge. Mario è terrorizzato e felice allo stesso tempo. Davanti a sé vede solo la linea dell’orizzonte. Tra poco sarà buio.
Poi, di colpo, due piccole esplosioni provocano dei sussulti tra le onde. Sirena non riemerge dalle acque. Mario osserva per qualche istante in silenzio, poi con una decina di bracciate si reca verso il punto nel quale per l’ultima volta ha visto la sua Sirena. Si immerge in acqua, cerca di andare sempre più a fondo. L’acqua marina è gelida ed intorno a sé Mario vede tutto nero. Dopo aver trattenuto il fiato per alcuni interminabili secondi, Mario si lascia andare e lascia entrare l’acqua del mare nel naso e nella bocca fino ai polmoni.
In lontananza, la barca a remi rimane sola in mezzo al buio della notte che arriva.
Tra poco, in raffineria, inizierà il turno di notte.

Rossana Carne – Le cronache del profondo mare

Il sole splendeva sulla pianura. Era un inverno clemente quello che stava trascorrendo nella Valle del Comando, in cui spiccavano le Bianche Torri di Nippur, dove il Dio della città Enlil dominava, dall’alto della sua casa, tutta la piana.
Nippur era capitale e città-torre, come la maggior parte degli altri centri della regione. All'interno della sua immensa mole vi risiedevano circa 20.000 abitanti.
La Torre di Nin.lil, la più alta della città e il cui nome era dedicato alla sposa del Dio Enlil, s’innalzava nel cuore dell’abitato ed era il centro della vita di Nippur, oltre che la residenza dei Signori del Comando. Sfavillava nel cielo con i suoi colori d’argento, slanciata e splendente; a metà di questa il magnifico giardino pensile dove gli abitanti dalla testa nera si recavano a lavorare la terra o potevano riposare brevemente, ammirando il panorama.
La maggioranza della popolazione della Capitale, gente normale, paurosa anche delle più piccole cose e delle superstizioni, spesso, non riusciva ad arrivare alla fine del mese; ma la loro paura e il loro timore erano molto più profondi di quanto si potesse immaginare.
Quel pomeriggio d’inverno, sul terrazzo in cima a una delle Torri Bianche, Auriel si godeva il panorama in attesa del rientro del padre dalla caccia.
Le piaceva starsene là sopra da sola, con la brezza del vento che le accarezzava i lunghi capelli rosso dorati e la faceva sorridere. Il suo aspetto non era come quello dei suoi concittadini dalla testa nera. La sua pelle era pallida e i suoi occhi erano di un castano intenso, la loro forma ricordava quella di un cerbiatto e l’espressione sul suo viso era luminosa come le stelle.
Era solita sedersi sulla guglia più alta, dove poteva ammirare il tramonto e il rosso del sole svanire nel mare blu, che si apriva a Sud di Nippur. Il più delle volte stava in silenzio a pensare, muta come un pesce; nonostante questo però, le sue riflessioni erano potenti e difficili da bloccare, perché erano in grado di assumere una forma viva.
Lei era una ragazza semplice, come suo padre, ma entrambi erano profondamente diversi da tutto il resto della popolazione. Non erano soliti lasciarsi sopraffare dai pensieri inutili o dalla tirannia del loro Signore; nella loro semplicità amavano esprimere idee e opinioni. Sembravano superficiali, ma in realtà, il loro Animo era profondo come il mare che spesso ammiravano estasiati per ore.
Si opponevano al giogo del loro Dio con manifestazioni e scioperi, cercando di coinvolgere i loro concittadini, ma senza successo. Il cambiamento non era possibile, perché gli abitanti di Nippur avevano paura di ritorsioni; così i due si ritrovarono soli, persi nei loro pensieri profondi come il mare.
Auriel non poteva immaginare che proprio quel giorno, l’esercito di Enlil, per volere del Dio stesso, avrebbe cambiato per sempre le loro vite e in particolare il suo destino.
Poco dopo il tramonto, infatti, non vedendo il padre rientrare, la ragazza decise di scendere per le vie del centro e chiedere alla bottega del legno se ci fossero notizie dei cacciatori. Il falegname, a questo punto, disse ad Auriel che suo padre fu arrestato e condotto in prigione dove, di lì a poco, sarebbe stato giustiziato nel carcere di chirurgia sperimentale di Nippur; l’uomo le disse di fuggire, perché i soldati stavano cercando anche lei e l’unica via di scampo era di immergersi nel ventre del mare; lo stesso dal quale tutta la razza umana prese forma e dove solo i pesci avrebbero potuto aiutarla.
Auriel corse via dalla bottega, ma non sapeva cosa fare e dove andare; così decise di nascondersi fino al calare della notte, in modo da poter avere più possibilità di fuggire senza essere catturata.
La ragazza avrebbe voluto correre da suo padre, sarebbe stata disposta a morire con lui, ma una strana voce che proveniva dal profondo della sua Anima la incitava a scappare da Nippur e a salvarsi:
“Perché?” Pensò Auriel
Non sapeva darsi una risposta, ma era cosciente del fatto che la sua sopravvivenza avrebbe permesso anche al genitore di continuare a vivere.
Non c’era luna quella sera. Era una notte perfetta per salpare in segreto, anche se a causa del buio, non riusciva a vedere bene dove dirigeva i suoi passi. Auriel s’incamminò verso una caletta, dove era ormeggiata una barca.
Nonostante le prime difficoltà, la ragazza riuscì a salpare. Sentiva le onde che sbattevano sulle fiancate della barca e sperava che questo dondolio le avrebbe permesso di riposare almeno un po’; ma la notte di Auriel non passò tranquilla. Una miriade di pensieri e di emozioni popolavano la sua mente e il suo cuore; così, in un attimo, arrivò l’alba.
La barca era bellissima, di un legno scuro e brillante che non conosceva, la vela era di color magenta e nella piccola stiva trovò ogni genere di prima necessità: una bussola, una mappa cibo e bevande; la cosa più sorprendente era l’estrema leggerezza del materiale di costruzione che permetteva all’imbarcazione di scivolare tra le onde.
I giorni passavano inesorabili; cielo e terra iniziarono a confondersi, e Auriel cominciò a preoccuparsi della sua sorte: sarebbe morta in mare a causa degli stenti?
La ragazza decise di consultare nuovamente la mappa, ma la terra ferma più vicina distava circa quattro mesi di navigazione e lei non aveva abbastanza cibo e acqua per sopravvivere. Ad un certo punto però, guardando meglio la bussola, Auriel notò che stranamente l’ago smise di segnare il Nord come se una forza magnetica interferisse con lo strumento.
Alzando gli occhi verso l’orizzonte, la ragazza rimase sorpresa nel vedere un’enorme voragine che si apriva nel mezzo del mare. La barca fu immediatamente catturata dalla corrente e Auriel non poté più sottrarsi a quel terribile destino. Era la fine del suo viaggio.
L’imbarcazione correva veloce come il vento e la ragazza dovette aggrapparsi con tutte le sue forze per non cadere in acqua e morire all’istante.
Quel gorgo era impressionante, enorme ed inimmaginabile.
La barca iniziò a girare in tondo, prima lentamente e poi sempre più velocemente; girò per un tempo infinito fino ad arrivare alla bocca di quella voragine terrificante.
In un attimo, fu tutto buio e la giovane perse conoscenza.
Senza saperlo entrò nel ventre del mare.
Auriel si svegliò in un luogo confortevole, era un letto; non sapeva da quanto tempo stesse dormendo o dove fosse. I suoi occhi videro una stanza azzurrina, illuminata dalla luce di uno strano sole, sulle pareti molte immagini di oggetti volanti, infine, accanto a lei una figura maschile sorridente e rassicurante. Era alto più di tre metri, i suoi capelli erano bianchissimi e i suoi occhi luminescenti.
“Chi sei?” Chiese la ragazza con un filo di voce, ma lui non rispose e lei si addormentò nuovamente.
L’indomani mattina, la ragazza riuscì ad alzarsi dal letto, indossò alcuni abiti che trovò su una sedia accanto al suo giaciglio e prese la decisione di uscire.
La città in cui si trovava era all’interno di un’immensa cupola; fuori da questa, in mezzo al mare, c’erano distese e distese di campi coltivati che sembravano simili a quelli della valle del Comando di Nippur.
La cosa più sconvolgente era che, nonostante fosse nel ventre del mare, la ragazza poteva vedere le montagne, le vallate, il cielo, le stelle, la luna e il sole!
La città era divisa su due livelli, uno superiore e uno inferiore, a cui si poteva accedere tramite delle scale e dei parchi che collegavano la parte alta e quella bassa della cittadina.
Auriel si trovava nella parte alta, quella più antica. Camminava e cercava di parlare con gli abitanti di quel luogo senza successo.
Ad un certo punto si affacciò su una terrazza e osservando il sole iniziò a pensare a suo padre e alla sua Nippur.
Cosa ne sarebbe stato di lei? Osservò tristemente.
Tuttavia, non fece in tempo a finire la formulazione di quel pensiero, perché iniziò a vedersi luminosa; il suo corpo emetteva una strana luce, la stessa delle stelle.
Continuò a camminare e ben presto arrivò ad una scalinata che l’avrebbe condotta verso la parte bassa di quella città, ancora senza nome; era impossibile vedere cosa ci fosse in fondo a quelle scale.
Intorno a lei c’erano muri medio alti ricoperti di verde, il cielo era azzurro e limpidissimo, la temperatura era tiepida e si sentiva il profumo dell’erba e degli alberi; doveva essere primavera e quel luogo sembrava essere pieno di pace.
Il suo sguardo, però, era attratto da quella scalinata, così prese coraggio e decise di scendere. Non poteva immaginare quello che avrebbe visto di lì a poco nella parte bassa della città.
Arrivò in un posto incredibile.
Dietro di lei la parte alta della cittadina abbarbicata tranquillamente sulla collina, a Est un’altra città con delle cupole d’oro su degli edifici bianchissimi che ricordavano le Torri di Nippur, a Ovest delle colline verdissime sui cui splendeva il sole che presentavano dei fori tecnologici enormi, attraverso i quali, volavano delle navi spaziali. Davanti a lei, infine, una città del futuro.
Un edificio di cristallo da cui decollavano e su cui atterravano navi volanti piccole e grosse. L’edificio era fatto a onda e sui vetri si riflettevano il cielo, la collina e le astronavi. Era assolutamente incredibile.
Auriel rimase estasiata, ma la sua attenzione fu poi attirata da ciò che vide sopra l’edificio di cristallo.
Una quantità infinita di stelle e lunioli che formavano una galassia circolare. Non era notte, eppure si poteva vedere benissimo quello spettacolo inimmaginabile. La ragazza sentì che era da lì che tutto proveniva, perché avvertiva chiaramente il pulsare della vita.
“La vita era nata dal mare…“ Disse
Solo a quel punto comprese di essere giunta nel mondo sommerso di Abzu, e nella capitale Eengura, governata dal Dio En.ki, la cui casa era quella galassia.
En.ki era buono, amava il libero pensiero, l’arte e sosteneva il suo popolo; non era come Enlil. Qui nell’Abzu regnava la pace.
Auriel guardava tutto ciò che la circondava, meravigliandosi sempre di più. Ad un certo punto, però, una voce catturò la sua attenzione:
“Eccoti, finalmente sei arrivata! Ti stavamo aspettando”. Disse un tipo sorridente, che la giovane riconobbe subito come l’uomo che si prese cura di lei durante il lungo sonno.
“Dove sono?” Chiese la ragazza
Lui sorrise senza replicare; Auriel sentiva provenire la risposta dalla sua Anima: era a casa.
I due iniziarono a camminare senza paura, senza sospetto; tutte le persone lì presenti erano luminose come loro.
Non si distinguevano bene i tratti, ma brillavano e nel camminare lasciavano una scia bianca dietro di loro.
I due arrivarono ad una piazzola, dove tutti stavano aspettando qualcosa. Era una stazione, ma il treno non viaggiava su rotaie così come l’autobus non viaggiava su ruote… volavano.
La ragazza e il suo accompagnatore senza nome si fermarono nella piazzola, c’erano una fontana e delle panchine.
Improvvisamente la giovane sentì una voce calda:
“Finalmente me l’hai portata Mistico”. Disse un uomo altissimo rivolgendosi al mio accompagnatore.
“Sì Mio Signore En.ki, la ragazza era debole e ha dormito per due giorni. Mi scuso.” Rispose.
Era una figura imponente, dalla pelle candida, capelli corti e grigio argentei. Il suo atteggiamento e le sue movenze erano militari, doveva essere un aviatore oltre che il Dio della città. La cosa sorprendente però, erano i suoi occhi, profondi e azzurro-grigi e verdi; all’interno di questi si poteva vedere tutto l’universo e l’intero creato. En.ki, il Signore dell’Abzu e creatore della vita era lì, di fronte a una giovane fuggita da Nippur.
“Benvenuta Auriel”. Disse En.ki con un gran sorriso e con immensa gioia. Il Signore di Eengura la abbracciò  ed insieme, sorrisero dolcemente.
 “Com’è profondo il Mare!” Pensò Auriel felice.
Nessuno avrebbe potuto distruggere quel luogo custodito dai pesci. Finalmente era a casa e al sicuro. Nessuno le avrebbe più fatto del male o le avrebbe impedito di pensare e sognare in totale libertà.

Maria Stella Brancatisano - Il mare e la madrina Antonia e Caterina

Il mare, noi altri che abitavamo sulla collina samese dell’entroterra jonico, lo vedevamo da sempre, lì, adagiato sullo sfondo, lontano, oltre i campi, oltre la fiumara, lontano e vicino insieme, pensavamo, contenti, poiché se allungavi le mani ti sembrava quasi di toccarlo, di poterlo afferrare o quasi pensavi di poterti bagnare in quelle acque così azzurre e calme!. Era azzurro, bello, misterioso, invitante e tutto da scoprire, quel bellissimo mare adagiato sullo sfondo della nostra visuale.
Non so dire quando mi accorsi del mare, prima di poterlo toccare, vedere, e tuffarmi in esso! La mia infanzia la trascorsi lì , ai piedi dei monti, tra zolle  profumate di muschio e torrenti scroscianti, sognante, tra edera, capelvenere e girini, oleandri e ginestre in fiore, lì, tra le verdi colline che si rivestivano di rossa sulla a primavera o di giallo grano maturo d’estate, sempre li, in collina, tra monti e colline, torrenti e fiumare, puntualmente gonfie e straripanti alle prime e copiose acque autunnali. Trascorrendo il tempo a giocare in piazza, sopra casa mia, o a raccogliere lucciole ed erbe, Sulla, e piccoli panetti di Sant’Antonio che ci offrivano le piante di malva, prima di fiorire e ‘ngoglie, o  steli di cardi o di trifoglio dal sapore agrodolce, e poi raccattare alle prime acque,  sonnolente lumache uscite dal letargo, ignare,e poi arance, more, fichi, uva  ed ogni sorta di erbe strane e commestibili che il mondo contadino conosceva da sempre. Scoprii, pian piano, il mondo incantato della Natura, con le sue file interminabili di formichine indaffarate, laboriose e mai stanche di trascinare enormi pesi, sulle piccole groppe, o il nero calabrone che appallottolava il fango, per trascinarsi, paziente, una palla fatta da sé , per istinto, che era come il peso di Titano che si trascinava dietro il mondo! Più tardi avrei scoperto che anche l’uomo veniva caricato di pesi enormi da trascinare, con grande fatica, a volte anche in modo ingiusto, che il tempo dell’infanzia nascondeva ancora , ma per certi versi già anticipava prematuramente, anche se lentamente!
Questo era il mio mondo infantile: fatto di piccole cose ordinarie, ma belle! E tutto si svolgeva sotto la luce accecante del sole che troneggiava sui campi coltivati, sui pendii, sull’acqua, e faceva germogliare ogni cosa, puntuale, all’arrivo della stagione opportuna! Ed io, guardavo, scrutavo tutto, ogni cosa, con dentro il cuore un silenzio religioso, per lo stupore delle cose che si rivelavano a me, discrete, silenziose, sacre. Si, vi era in esse, tanta sacralità e rispetto, che ogni cosa suggeriva, dettata anche e soprattutto dal comportamento di chi ci stava intorno, ci educava, ci informava, amava e divertiva, e ci amava. Care figure dell’infanzia, così sacra ed importante per ogni bambino! Cara infanzia che ritorni, proustianamente, alla mente, con ogni sapore, odore, parola e gesto, o canto, che sembra dimenticato, in fondo al cuore, ma dove vive nascosto e silente e mormora e sussurra, lieve, le cose vere del cuore, che mai moriranno, perché sanno resistere anche agli attacchi del tempo!.
Dai balconi, dalle terrazze guardavamo e sognavamo il mare, noi bambini, ma intanto, ci rinfrescavamo, d’estate nella Gurna di Don Filici, o al torrente Santa Caterina, felici e semplici, come sanno essere solo i bambini, specie quelli dei paesi interni e di una volta. Erano altri tempi, più difficili, e si scimmioattava di meno, e si viveva con più semplicità, rigore, e bontà!
Il mio primo incontro con il mare lo ebbi verso i sei, sette anni, quando la madrina Caterina mi portò per la prima volta al mare con lei. La madrina era solita prendere  con altre persone del paese, in affitto, come in una sorta di contratto in multiproprietà, una stanza ed un cucinino per una quindicina di giorni, al centro del paese, o vicino al mare, a Bianco, per fare i bagni e prendere il sole del mattino, dall’inizio di agosto sino a ferragosto,   cioè sino al quindici di agosto, data della festa della Madonna di Pugliano, alla quale lei e tutto il paese ed  i paesi vicini erano molto devoti, da sempre!
Era, questa la festività di Ferragosto, ed il mondo contadino si riposava, così,  dalla fatica dei campi dell’inverno e della mietitura, e poi coincideva con la Fiera del bestiame e degli arnesi del mondo contadino e tutto l’entroterra si riversava a Bianco a vendere e comprare. Si vendevano, alla fiera, fichi d’india, maialini, monacegli, pomodori, si comprava farina, pale, zappe, roncole,  falci, e pure bestiame,  asini, , maialini da allevare, e cavalli e muli. Si acquistava e vendeva tutto ciò che serviva alla sopravvivenza, in quel mondo autarchico e contadino. I soldi erano pochi e tutto era necessario. E, spesso si contrattava intere giornate, senza buon esito, mercanteggiando anche per un soldo o due sul prezzo, o permutando le varie mercanzie.

La madrina Caterina era già al mare, da qualche giorno, io la raggiunsi dopo, accompagnata dalla zia Ciccia, moglie dello zio Sebastiano, con la corriera. Mia madre preparò per me un sacco pieno di cugliure fatte con farina, olio, uova e zucchero. Ne fece un’infornata tutta per me e la madrina, per il tempo dei” Vagni”, così si diceva allora. “Il mare indebolisce, Maria!”, mi ripeteva ogni giorno la madrina Caterina, “dovete mangiare, se no…non và! Già, la madrina mi dava del voi, pur se bambina, perché ero la sua commarella, la sua figlioccia, a metà, si divideva il sacramento del battesimo con la sorella, poiché lei, diceva, mi aveva portata in braccio sino alla chiesa, e l’altra  sorella mi aveva realmente tenuta a battesimo! Ripeteva sempre: “Sapiti, Maria, eu, vi portai ‘ambrazza finu a glia chiesija!”, e rivendicava così il suo diritto ad essere anche se per metà,  pure lei mia madrina di battesimo, con la sorella, che era la mia vera madrina! Cara amata madrina, piccola mamma affettuosa e discreta!
Io, a quei tempi, ero esile, inappetente, schizzinosa, amante solo della cioccolata, della pasta e dei gelati, molte altre cose buone, non mi interessavano, a quei tempi!
Mangiavo poco, giocavo tanto, studiavo e meditavo su ogni cosa.
Arrivai al mare silenziosa, timida, con quel gran saccone di cugliure impastate con l’olio di oliva, un gran sacco bianco di linone, tessuto al telaio da mia madre e chiuso alla bocca, stretto fitto fitto, con una cordicella!
Non posso dimenticare quei giorni! La bellezza del mare, l’aria fresca del mattino, i discorsi lieti delle donne e le sere passate in riva al mare a cantare, adulti e bambini,  con una giovane coppia di sposi novelli, a suonare la chitarra, mentre sopra di noi, in cielo, brillavano copiose e vivide stelle. Al mattino la madrina Caterina, accorta come una vera madre, mi preparava il cordiale , fatto con due uova nostrane del suo pollaio, e sbattute con lo zucchero, e pretendeva pure che li mangiassi, ma io mi rifiutavo, allora lei si arrabbiava, io piangevo, mi offendevo e scappavo dietro il retro della casetta in affitto, e mi nascondevo, tenendo il viso tra le mani, decisa e ritta accanto ad un cumulo di sassi e pietre, inseguita dalla madrina , preoccupata, per quel ruolo di madre in prima persona che doveva assolvere al massimo, poiché, ripeteva, ne sentiva tutta la responsabilità, anche nei confronti di mia madre!
La madrina mi implorava, con mille astuzie, mi supplicava di mangiare le uova con lo zucchero, che mi avrebbero fatto bene, e ripeteva che il mare indebolisce, e che se io non mangiavo, mi rispediva a casa mia, al paese, da mia madre, lontano dal mare! Non ricordo come finivano queste scaramucce alimentari, però ne custodisco il ricordo tenero della cura che aveva per me, la mia madrina, così buona, affettuosa ed accorta nei miei confronti, sin d’allora!
 Poi, alla vigilia giungeva, finalmente, anche l’altra madrina, la vera, che mi aveva battezzata, ed arrivava carica di dolci, calia, mostaccioli, uova, pane, formaggio di capra, legna per cucinare, e fichi d’india e pere di ogni tipo, che aveva raccolto nel podere di Guttà!E con il suo bel sorriso materno, e carica come un babbo Natale, piena di doni e prelibatezze, frutta profumata e cibo!Portava pere gentili, con la buccia di un rosso vivido maturata al sole di luglio agosto, e buttava sul tavolo pere di ogni tipo che aveva raccolto a Guttà, nel podere di loro proprietà!Pere gentili, pere del tipo pedicurti, o pere maiatiche, pere furcunegli, vi era ogni sorta di tipo di pere, raccolte nel piccolo pereto, che offriva frutti per tutta l’estate!e poi ci mondava ed offriva gustosi fichi raccolti al Vallone ed  i fichi d’india datele da mia madre e raccolte al podere Markiti, posava l’uva ‘nzolia, negregliu da catuna, o tre mani , ed ogni sorta di cibo o dolce si aggiungeva al lauto banchetto di pasta e carne col sugo!e Tutto in omaggio alla Madonna, alla festa di Maria Ss.ma che doveva essere onorata anche con un buon pranzo!ripetevano lei e la sorella!” Mangiati Maria” mi insistevano, non bevete tanta acqua!bevete vino, ma io storcevo il viso, e dicevo no, che non mi piaceva e questo valeva pure per il caffè!Non conoscevo quei sapori ancora e non mi piacevano affatto!
Quell’arrivo era una festa!per me, per la sorella, per tutti noi, anche per la Madonna! La madrina era una canterina, e con la sorella cantava la Madonna di Pugliano con antiche orazioni, ed il capo coperto da un  ampio maccaturi di seta celeste con le frange  fatte di fili di seta lucente, per rispetto e per tutta la novena. Che momenti belli che erano quelli!li custodisco tutti nel cuore! La mia madrina aveva sempre le labbra improntate al sorriso, lieta, svelta, semplice, laboriosa, ottimista e volitiva!così la rammento. Cara, e dolce madrina mia!Quante cose potrei narrare di lei!quante cose dovrò narrare di lei!
La madrina era una donna bella, alta, con un corpo da statua greca, dalle spalle dritte e belle, aveva belle gambe lunghe come il padre Filippo ed una corona di capelli a trecce castano scuro che ornavano ed incorniciavano il bel viso, scardino, lo definiva lei, per dire che era un viso minuto e non bianchissimo, ma abbronzato dal sole sulle colline e nei campi a faticare!Gli occhi piccoli, castani e dolci, profondi e buoni e sempre sorridenti verso gli altri, le mani svelte,belle e laboriose e che non stavano mai ferme e oziose,  ma sempre occupate a lavorare, lavare, piantare, pulire, cucinare, ed a fare qualcosa, per gli altri soprattutto!Lei, era molto generosa e prodiga di cuore e modi e chi la conosceva rimaneva colpito dal suo modo bello di fare e di agire, e dalla generosità e  dalla dolcezza e bontà di modi, parole e gesti!
Ripeteva anche da anziana: “Du tempu perdutu chi ‘ndaviti?nenti!”e lo diceva per se e per gli altri!
Per me questa donna era la pace, l’amore, la sicurezza, la mia grande quercia a cui potevo appoggiarmi!Sin da bambina, con lei andavo dovunque, volentieri, fiduciosa e felice, perché mi dava tanta sicurezza!Tanta! perchè di lei mi fidavo e con lei non mi annoiavo mai!Era una madre per me, mi apparteneva, faceva parte della mia vita di bambina, tanto difficile e pure travagliata!soprattutto nel mio animo di bambina che aveva tanti perché in mente, tante richieste, bisogni materiali ed affettivi!La madrina per me era pane e cacio ma anche affetto e ristoro, con la sorella ed il padre!il pane era bianco di Majorca, il cacio era di capra ed era una piccola scaglia bianca profumata che aveva preparato con amore lei o la sorella e che lei mi porgeva e donava non senza raccomandarmi di” Cumpaniarlo” col pane, un bel pezzo grosso e bianco di pane di casa fatto da lei, con amore!Lei affrontava con il buon senso la ristrettezza ed il bisogno, accorta e materna, poiché conosceva bene pure la fame!Ed era pure molto saggia!
 “A fami è brutta, Maria!è brutta, a fami, Maria!” Ripeteva accorata!
“Voi non conoscete il mondo, Maria!il mondo è cattivo!se ‘ndaviti vi dunanu, se no vi negano tutto, puru na fetta i pani!Figlioli mei, che malu u mundu!chi sapiti!”.Vui ancora non sapiti, ca siti cotrara!ma u mundu è malu!ricordatavigliu! U mundu è malu daveru, Maria”
Diceva così, pensosa ed accorata e poi sorrideva con tutto il corpo, occhi e bocca compresa!guardandomi fisso negli occhi!
“Vui siti ancora cotrara non sapiti, non capisciti”!Maria!Chi sapiti vui che bruttu stu mundu!?Si ‘ndaviti vi dunanu, se no vi dassinu i moriti i fami!””E’ fattu così u mundu!”Pochi ennu boni!”
 ripeteva ancora, accorata e saggia, perché lei conosceva la chiusura anche dell’animo umano paesano che spesso aiutava ….”U PROVVIDUTO ca u poveru era ‘mparatu i pati a fami!”e questo era un concetto che ritornava in politica e nel piccolo mondo paesano, sotto forma di proverbio, antica saggezza dei popoli; e per rafforzare le sue convinzioni narrava mille aneddoti al riguardo. Io, pur non conoscendo il mondo ascoltavo, ed avrei poi verificato le nascoste  saggezze e verità dei suoi discorsi.
 Ascoltavo tutto in silenzio, e non dicevo niente, immagazzinavo parole, gesti, concetti, per tirarli fuori al momento opportuno, credo! Come sto facendo oggi, per esempio, per narrare!chissà!Tutto mi era nuovo, sconosciuto, anche gli aneddoti di fame e ristrettezze che mi narrava la madrina!, perchè lei voleva farmi capire il mondo e la durezza della vita della povera gente, dimenticata da tutti, dallo Stato e dai ricchi!Come in una sorta di discorso meridionalista primordiale ed ante litteram, degno dell’analisi storica che vi è in : “Cristo si è fermato ad Eboli”, di Levi. E, forse Cristo si era davvero fermato ad Eboli e qui al profondo Sud non era mai arrivato, (ti veniva da pensare!), se non per seminare rassegnazione e speranza biblica, ma ancora senza riscatto alcuno!Questo sottolineava la madrina con la sua profonda conoscenza degli stenti della vita dei contadini,  che sembravano essere stati dimenticati da tutti, sino ad allora:dalla politica e pure da Dio.
Le povere donne, infatti, erano scalze, d’estate e d’inverno, affamate e piene di voglie di tutto e con la testa piena di sogni e con la Speranza nel cuore che tutto potesse cambiare, così, all’improvviso, per qualche strano miracolo operato dal cielo.
Ed intanto vivevano con pochi vestiti che venivano lavati al torrente o alla fiumara, d’inverno, con i piedi in ammollo in quell’acqua gelida, dove facevano il bucato x tutta la famiglia ed i tanti figli, ed avevano ancora giovani, i seni cascanti e risucchiati dai figli voraci, le case misere e fredde, il pane poco, il futuro difficile, incerto, senza soldi!Era questo che cercava di farmi capire la mia madrina di battesimo con fare accorto e triste, lei che se pur ancora giovanile, quel mondo lo conosceva bene e me lo faceva conoscere con i suoi tanti racconti ed aneddoti e lacrime miste al sorriso!Allora non potevo capire, oggi si, capisco tutto, o quasi, ogni piccola sfumatura, ogni cosa che lei tentava di trasmettermi, divenendo così il mio mentore! E, con tristezza ed amarezza intuisco ora bene e partecipo empaticamente, ad un passato così difficile e fatto di stenti, per chi, come il popolo calabrese, costituito soprattutto, da contadini sfruttati, mancava di tutto da sempre e viveva segnato da ciò, nel corpo e nell’anima ed in attesa di riscattarsi socialmente ed umanamente!
***
Finita la festa, finiva anche il tempo dei vagni e del mare e si ritornava in paese. La madrina Antonia raccoglieva le suppellettili che aveva portato sul capo col cercine dal paese, per quei lunghi tredici km che ci tenevano distanti dal mare, e con il suo passo svelto si rimetteva in cammino sulla strada del ritorno.
Prendeva pentole e vestiti, i vestiti li metteva in una federa di cotone perché non prendessero polvere, il resto, pentole ed altro li poneva in un grosso sacco scuro di canapa che era adatto al trasporto sul capo. Accorta, chiudeva la bocca del sacco con una cordicella e poi se lo poneva sul capo dopo aver arrotolato una vecchia salvietta per cercine ed averla posta sul capo e sotto il saccone ripieno di cose da riportare a casa. Bello sarebbe stato avere un piccolo asinello per il trasporto di quelle cose, ma era un lusso anche l’asino perché costava cibo e soldi, così diffici da trovare a quei tempi, narrava la mia madrina sorridendo e sospirando. “Andiamo, Maria!”mi esortava la madrina sorridendo,” Anehjiti Kata!è artu jornu, faci cardu, ca quando rrivamu, focu meu!eu fughiu, ma tu si lenta…Caminati, Maria, ca ora ghiamu u paghisi ca veni a nostra festa, a Festa i Sangianni Battista!SAngianni vattijhau u Signuri, u sapiti?!Ah, chi gran santu chi ‘davimu nui!”E, sorridendo si metteva a cantare con la sorella:”Furtunatu Precacori ad aviri pe d’avvocatu, n ugra santu protettori chè di tutti veneratu!...”
Io però tornavo in Corriera al paese perché la madrina che era veloce nel camminare, si sentiva intralciata dal mio lento di bambina e perché mi voleva evitare la lunga camminata dei tredici km, che per me bambina era troppo faticosa e stancante!
Così tutti felici e ristorati nello spirito e nel corpo ci avviavamo verso il paese, dopo quella breve pausa estiva regalateci dal mare di Bianco, che avremmo guardato per tutto l’anno dalle strade e dai balconi come un grande vero amico, vicino e lontano, nello steso tempo e ci apprestavamo a vivere con tutta la magia che scaturiva dalle nostre feste paesane, la bella festa del nostro santo patrono, che chiudeva quasi tutte le feste del circondario. Anche se qualche giorno dopo la nostra bella ed amata festa patronale la gente del paese si sarebbe preparata per raggiungere la Madonna di Polsi a piedi, seguendo il costone di Furrajhina e scendendo poi verso la fiumara che divideva i due nostri paesi, Samo e San Luca, come ha ben narrato Corrado Alvaro, in:”Gente in Aspromote!”

Traduzioni:
1.Vagni: bagni; 2. Vi ho portata in braccio sino alla chiesa per esssere battezzata da mia sorella Antonia.3.‘Nzolia…: qualità d’uva da vino e da tavola che si coltivava nelle vigne per fare il mosto;4. Maccaturi:Fazzoletto grande che si usava per coprire il capo e ripararsi dal sole e dal vento e dalla pioggia, ed era un capo importante nell’abbigliamento della cultura contadina, che proveniva dalla cultura greca prima ed araba poi.5.Cumpaniare: nella lingua parlata contadina indicava sapienza nel mangiare, cioè gustando poco a poco il companatico che non abbondava, con morsi di pane più abbondanti, per potersi così sfamare ed essere sazi.6.Del tempo sprecato che si ha o si guadagna?era un incitamento ad essere laboriosi a non oziare, a stare sempre occupati, a lavorare.7. “La fame è brutta, non conoscete la cattiveria del mondo, perché troppo giovane ancora, il mondo è cattivo e nessuno ti da una fetta di pane se non lavori e muori di fame, perchè tutti aiutano il ricco e non il povero, e chi ha riceve altro e chi non ha muore del tutto. I buoni sono pochi a questo mondo” Era questa la dura legge che conosceva la madrina e mi trasmetteva. 8.Muoviti kata, è giorno fatto!fa caldo, quando arriveremo con questo caldo ed a passo lento, come cammini tu, io cammino svelta, voi no. Venite Maria, che ora andiamo in paese e li si farà festa per il nostro caro patrono San Giovanni Battista, che Gran Santo è per noi, ha battezzato Gesù, lo sapevate?E’ un grande santo San Giovanni Battista! 9.Canto paesano antico di Precacore:”Fortunato Precacore ad avere per avvocato un santo così grande ed importante e da tutti conosciuto,venerato ed amato…” 10.Furraghina= nome toponomastico della vetta aspro montana che porta a Polsi, al bel Santuario della madonna di Polsi, appunto, lì nella valle e che la gente raggiunge ogni anno a piedi ai primi di Settembre o il 14 per festa della Santa Croce!