Ho
sognato Chantal stanotte. Quand'ero più giovane mi succedeva di sognare cose
completamente diverse da quelle che mi erano successe il giorno prima. Ma, da
qualche tempo, la notte allarga i pensieri del giorno, dando loro una
dimensione che li conferma poi nella sensazione o nel ricordo.
Mentre
aspetto che arrivi il mio turno e mi facciano entrare ripenso ancora a Chantal.
La donna in camice bianco è bruna e ha forme piene. Mi guarda un po' seccata.
Chantal
non era né bruna né piena, eppure l'ho amata lo stesso.
Stanotte
mi portava a un concerto. Sonavano la terza di Schumann, la "Renana".
Mentre la musica ci fasciava, mi baciava e mi accarezzava i capelli. Scendevamo
per una scala ed eravamo a mare felici.
Dopo
tanti anni ho rivisto Chantal in sogno, liberamente, e ci siamo amati. Allora
non si è spento in me quell'amore per lei che credevo che il tempo avesse
diluito e disperso. Me ne è rimasta una componente, una scintilla, custodita
nel mare del profondo, che nella libertà del sogno mi ha procurato l'ebbrezza
di amare.
Comincio
a pensare che non sono gli esseri che abbiamo amato che restano in noi ma è
l'amore che assume poi le forme e le esistenze di questi esseri. Fin tanto che
sarò capace di amare avrò dentro Chantal, forma di questo sentimento che,
altrimenti, resterebbe un'esigenza vaga e indefinita.
Il
castello sorgeva a strapiombo sul mare a testimoniare assalti moreschi, vigili
e febbrili difese contro gli invasori. Ora, vecchio e malandato, era stato adibito
a ostello della gioventù.
Nel
mio giro estivo, reduce degli esami di maturità ero ritornato là dov'ero stato
anche l'estate precedente rimanendone incantato. Prima v'ero stato con amici,
adesso vi ritornavo da solo, ansioso forse di non essere legato a programmi
concordati, di essere indipendente da altrui volontà.
Lerici,
con i suoi vialetti verdi lambiti dal mare, con le sue barche e il suo sole.
Avevo diciotto anni e mi sentivo libero come una farfalla uscita dalla
crisalide.
Mady,
la "mamma albergatrice", era una vecchia grinzosa, magra, simpatica e
misteriosissima. Si era riservata un appartamentino nella parte più alta del
castello dove abitava in mezzo a trofei, strani tamburi e chitarroni, credo
africani o sudamericani, e ai ricordi che i ragazzi ch'erano passati di là le
inviavano continuamente.
"Da
dove vieni?", mi chiese rimestando nella pentola dove cuoceva il
minestrone.
"Dalla
Sicilia", risposi piuttosto intimidito.
Mi
guardò, smise di rimescolare e si piantò con le mani nei fianchi, reggendo il
mestolo.
"Ce
l'hai la ragazza?".
Mi
vergognai.
"Veramente
no".
Mi
scrutò severa con la sua faccia di cartapesta.
"Dimmi,
Turiddu, vorresti averla?".
Deglutii.
"Beh,
certo".
"Un
siciliano senza ragazza è sprecato, no?''.
"In
effetti, ... già", balbettai confuso.
"Non
cercare scuse", sbuffò. "Se non sei capace di procurartela, ci
penserò io. Sennò che mamma sarei?".
Si
mise a ridere e mi diede un colpo di mestolo sulle gambe.
"Quando
ti chiamo corri, va bene Turiddu?".
"Va
bene signora".
"Mady",
mi corresse.
"Va
bene, Mady. Io mi chiamo Carlo".
"Preferisco
Turiddu", tagliò corto.
Il
mare era calmo e trasparente. Riuscivo persino a scorgere i pesciolini che mi
guizzavano intorno quando mi fermavo dopo una lunga nuotata. E' triste, però,
fare il bagno da soli. A mare è bello scherzare, rincorrersi, parlare ad alta
voce; quando si è in compagnia il bagno elettrizza, dà voglia di ridere,
infonde energia.
Mady,
affacciata alla finestra, mi chiamava.
"Turiddu,
vieni presto!".
Ero
appena uscito dal mare e stavo per avviarmi alla doccia. Corsi un po'
goffamente sui piedi nudi e fui presto nel suo stanzone misterioso.
"Questa
è Chantal. Trattamela bene perché è una brava ragazza. E non lasciarla sola. E'
belga ma parla benissimo in italiano".
I
grandi occhi verdi mi fissavano, circondati da un visetto minuscolo. Aveva i
capelli castani, era piccola di statura ma molto ben fatta. La guardai anch'io
e le sorrisi, tremante ancora di freddo.
"Aiutala
a sistemare i bagagli e falle la corte. Che razza di Turiddu sei?" Chantal
mi tese una mano.
Mezz'ora
dopo ero di nuovo in acqua con lei. Finalmente potevo ridere, muovermi,
giocare. Facemmo la doccia e ci distendemmo al sole. E così ogni giorno. Tante
volte al giorno.
C'era
in Chantal qualcosa, non so, che commoveva. Il vedere il suo corpo, delicato e
solido a un tempo, steso ai raggi del sole, mi dava una specie di groppo alla
gola.
Rimasi
per un pezzo a guardarla, accoccolato su uno scoglio, senza parlare, senza
neanche pensare, tutto preso dalla sola contemplazione di lei.
Quando
aprì gli occhi e si accorse del mio sguardo si mise a ridere, mi posò una mano
sul braccio con aria sbarazzina e mi disse nella sua lingua:
"Pourquoi tu me contemples? Tu me fais sentir
précieuse".
Mi
venne allora naturale, istintivo, piegarmi su di lei e sfiorarle le labbra con
un bacio; così, senza pensare, con la mente sgombra.
Chantal
non disse nulla ma si accorse anche lei che c'era qualcosa che cominciava ad
avvicinarci: diventò seria e mi carezzò i capelli ancora umidi.
Mai
mi era capitato di fare lunghe corti o approcci complicati con le ragazze.
Specialmente quando a unirci era stato l'amore, tutto era avvenuto in modo
istintivo, da me non forzato. Certo Chantal doveva essere abituata alle
proposte più disparate ma credo ancora che la sua pulizia facesse sì che
sapesse riconoscere un sentimento vero da una costruzione falsa e strumentale.
I
saloni del castello avevano volte cupe che ci sembravano coltri fresche. Ci
stringemmo con dolcezza. Poi il suo odore, il suo fiato, la sua carne si centuplicarono
e scesero dentro di me, turbinando carezze e onde, sentori di profondità marine
misteriose e affascinanti. Anche lei scossa da quel turbinare, si aggrappò e si
aprì.
Aveva
l'odore di quel mare, del nostro essere mare. Fu un ritrovarsi. Come se ci
aspettassimo da sempre. Una voce lontana, persa nel profondo moto dell'onda,
cantava i misteri del nostro amore
Sì;
per la prima volta nella mia vita amai.
Chantal, il cielo che si vedeva dalla bifora, la luna, il mare, erano tutte
amore. Carezze, abbracci, sussulti, ombre sui muri, sciacquìo delle acque
blu, quella voce lontana, erano un nucleo unico, un mondo
inscindibile. Ero felice.
"Che
faremo, Chantal?".
"Non
ci lasceremo, Turiddu. Io verrò con te e tu con me'':
"E
i tuoi studi, imiei, le nostre famiglie?":
"Siamo
pazzi, ti prego. Dobbiamo esserlo o ci perderemo. Abbracciami, Turiddu; non
voglio aver paura di essere felice":
Avevamo
fatto il bagno e ora, distesi al sole, tacevamo. Mi sembrava che gli scogli
portassero in trionfo il corpo di Chantal.
"Devo
tornare, Turiddu. Mi son finiti i soldi e lunedì devo ricominciare a
frequentare il corso. Ci vedremo presto, promettimelo".
Mi
si aprì nel cuore come un baratro e volli svenire senza riuscirei. Per chi
avrei avuto un corpo, un cervello, un sentimento, senza di lei?
"Verrò
a Liegi fra un mese. Troverò i soldi, vedrai".
"Teniamoci
stretti, Turiddu mio".
Ci
amammo là, sugli scogli facendoci una disperata promessa.
Anche
se potessi non la cercherei più, oggi, Chantal. Siamo rimasti l'uno nell'altra
con qualcosa che non si cancella né si disperde; una profondità che ritroviamo
quando siamo senza amore e il ricordo di un bene passato riempie questo cuore
ostinato che ha sempre bisogno di palpitare. Ma anche quando amiamo; come
spinta inconscia, come... come uno spazio immenso che esso ha aperto e che
dobbiamo sempre riempire.
"Turiddu,
amore mio, hai mantenuto la promessa!". Con il cuore che mi batteva forte
avevo bussato al campanello ch'era sul cancelletto. La casa, una palazzina a un
piano con i tetti spioventi, era posata sul prato verde e dentro di essa c'era
lei e stavo per farle una sorpresa. Sapeva che sarei arrivato ma non le avevo
detto quando.
Quando
la vidi aprire la porta e correre verso di me fu come se tutte le campane di
Liegi sonassero a stormo nella mia testa e barcollai come spinto da una risacca
complice.
"Maman, c'est mon ami Turiddu. Il logera chez
nous. Tu veux?".
La
mamma di Chantal mi squadrò da capo a piedi, poi mi tese la mano.
Cucinava
molto bene e si sforzava di piacermi. Trovava che ero un italiano speciale,
educato cioè. Per lei tutti gli italiani, figuriamoci poi i siciliani, erano
stati fino a quel momento dei mafiosi attaccabrighe.
"C'est une chanson qui nous rassemble...",
cantava Chantal mentre mi riassettava la stanza, benché le avessi detto che
potevo farlo io. Era una canzone di Yves Montand molto nota allora, anche in
Italia. La sera quando tutti dormivano veniva nella mia stanza e stavamo tutta
la notte insieme. Quando venne lei in Sicilia era ubriaca di sole e di
felicità. Ci amammo tra le rovine di Solunto, a picco sul mare di Sicilia,
mentre il sole illuminava i nostri corpi, il vento ci cullava e la distesa blu
ricopriva i segreti di fascini fruscianti di profondità. Chantal era bellissima
e mia, su quel grandioso piedistallo emergente da una distesa di zaffiro mentre
mi pareva che i millenni tacessero compiacenti, impregnati d' un amore così
grande.
“Les feuilles mortes se ramassent à la pelle, les souvenirs et les
regrets aussi..."
Ma
il vento del nord non è riuscito a strapparle dal mio cuore queste foglie anche
se sono stato un vigliacco, se sono scomparso.
I
nostri abbracci sono ora un ricordo sconsolato che il mare del rimorso fa
riaffiorare e sommerge lentamente con arpeggi che l'onda ripete in un
rimprovero cocente.
Chantal,
vorrei tenderti le braccia, far sorridere il tuo visino, ma non posso. Ho le
braccia troppo pesanti; non riesco a staccarle dal mio corpo biancastro e
infreddolito. E tu vai, vieni, sulla linea di un orizzonte incolore: due occhi
grandi, sbarrati, il volto piccolo, bagnato dalla cupa profondità di un mare senza
sole.
Addio,
Chantal. Non ho neanche la forza di gridartelo, intorpidito da questa
accoratezza inutile.
Uno
stacco, una pausa. Chantal non c'è più, non ci sarà mai più. L'ho tradita anche
adesso. E lei, ch'era tornata, percorrendo con i suoi occhi tutto quel mare,
tutti quegli anni. Per me.
Il
mare l'ha sommersa e adesso ride, scroscia birichino in una miriade di spruzzi,
improvvisamente animato da un sole che lo rende azzurro e bianco di bave, ilare
sotto la luce; un chiarore iattante che asciuga le mie lacrime e che sembra
calcarmi sulla terra.
Ora
il mare mi sprofonda e l'acqua diventa un muro mentre da una fenditura esce un
coltello di fiamme che mi trafigge. T'ho tradita per l'ultima volta, la terza,
Chantal. E si ripete l'evangelica profezia: "Prima che il gallo canti mi
tradirai tre volte".
'Turiddu,
vieni! Ti ho preparato una sorpresa".
"Aspetta,
Chantal, non mi tirare così, sto facendo il bucato e ho le mani tutte
bagnate".
"Ma
va'. Corri, lascia perdere".
Lasciamo
il grande spiazzo del castello, folgorato dal sole e dall'azzurro e ci facciamo
inghiottire, ridendo, da una scalinata buia e fresca. Scendiamo chissà quanto.
Ora
siamo nel nostro salone. Là, dove ci amiamo, alla luce fioca della luna. Dalla
bifora entra un chiarore indeciso.
"E'
questa la sorpresa?'.
"L'amore
è sempre sorpresa, Turiddu".
La
luna percorre la bifora.
"L'ho
fatta venire per te", mi dice accarezzandomi la nuca.
La
sua pelle è fresca e al buio trovo le sue labbra, i suoi occhi, il suo calore e
mi stendo su di lei con il cuore e i sensi gonfi.
Come
sei dolce Chantal! Quando sto per
emettere l'ultimo grido d'amore, sono interrotto da un vocione brusco. Il sole
si oscura, sento un dolore forte all'addome. Ho la gola asciutta.
Giù,
ancora giù... Mi debbo far forza, devo aprire gli occhi...
'Tutto
bene. Adesso pensi a guarire". Attorno a noi la sala si illumina
improvvisamente di torce, lampioncini. Centinaia di medici in càmice verde ci
circondano, incombono ridendo sgangheratamente, agitando bacchette in cima alle
quali ondeggiano lampioncini multicolori, faccioni ghignanti e baffuti.
Siamo
scoperti e così, nudi e impudichi, siamo posseduti e immobilizzati da una
vergogna cocente...
Ho
aperto gli occhi. Non il mare ma il viso di mia moglie:
"Ce
l'hai fatta, Carlo".
No,
non ce la farò forse mai.
Nessun commento:
Posta un commento