«Resistenza o Rivoluzione?»
Erano anni che non sentivo quelle due parole, mai mi sarei aspettato che le potesse pronunciare mia figlia. Si chiama Adelina e tra poco compirà 18 anni.
Adelina è un nome da vecchia, così ci ha sempre rimproverato lei per averglielo messo. Ma nella famiglia di Fiorenza, la madre, resiste la tradizione di alternare questi due nomi femminili tra le generazioni. Io avrei optato per una rivoluzione, ma Fiorenza neanche a parlarne. Così Adelina, sin dalla prima età della ragione, ha sempre preferito farsi chiamare “Deli”.
La guardo un po’ fiero e un po’ preoccupato. Finché la resistenza e la rivoluzione le facciamo noi, magari solo a parole, va tutto bene, ma dai figli non la si gradisce.
«In che senso?» Le lancio uno sguardo dubbioso. Lei capisce al volo e si mette a ridere.
«Ma no, papà, tranquillo. Dicevo per la tesina della maturità.»
Ecco, adesso le parole resistenza e rivoluzione tornano a piacermi. La cosa mi garba ma mi mette anche un po’ di tristezza.
Adelina quest’anno farà la maturità, l’ultima in cui ci sarà da portare una tesina. Dall’anno successivo le cose saranno diverse e invece della tesina si considererà la famigerata alternanza scuola-lavoro. Segno dei tempi che cambiano.
«Deli, forse è un po’ presto per pensarci no? Sei appena a inizio anno.»
«Beh no. Devo concordare con i professori l’argomento e va deciso entro fine mese..»
Resistenza o Rivoluzione allora? Quand’ero ragazzo io, i due concetti erano terra fertile per le battaglie politiche. E per le manganellate della polizia.
«Non saranno tematiche un po’ antiquate?» le dico dubbioso.
«Anche il liceo classico è antiquato?» E ride di nuovo.
«Beh, no…» e rimpiango di aver usato quel termine.
In fin dei conti nessun concetto è antiquato, basta saperlo rileggere con gli occhi della Storia.
«Sai Deli,» riprendo «è solo che gli esseri umani non imparano mai.» Ma mi accorgo che sto per dire una cosa che non è quella che lei voleva. «Ma sì, dai. Sono due argomenti interessanti e puoi agganciarci tante materie.»
«Solo che non volevo essere banale. Non è che siano due tematiche troppo inflazionate?»
«Ma no. Basta non limitarsi ai primi argomenti che ti vengono in mente.» Penso alle Rivoluzioni più famose della Storia, quelle che si studiano a fine liceo. Lasciando perdere le Rivoluzioni americane e francesi, che sono nel programma del quarto anno, quelle dell’ottocento e del novecento sono parecchie. Cerco di pensare a qualcosa di non troppo trito e ritrito e mi viene in mente la Resistenza degli indiani nord-americani.
«Sai cos’è un potlatch?» Le chiedo.
«Aspetta un attimo…»
Le arriva un messaggio sullo smartphone, oggi i ragazzi usano Telegram, io ancora Whatsapp. La vedo digitare velocissima coi pollici. La rivoluzione digitale, penso.
Faccio l’avvocato, ho un piccolo studio. La mia passione per i diritti delle persone si è trasformata in un corso di studi in Giurisprudenza. Volevo fare il giudice. Ma poi il concorso per la magistratura non è andato e allora, di ripiego, mi sono messo a fare l’avvocato spinto dall’idealismo di difendere i più deboli.
«Dicevi?» mi fa lei.
«Un potlatch. Sai cos’è?»
«No.»
«È un antico rito degli indiani d’America.»
«Tipo stregoneria o cose cosi?»
«No. Beh sì, anche. Ma non solo stregoneria. Era una specie di festa popolare.»
«E c’entra qualcosa con la Resistenza e la Rivoluzione?»
Ci penso un po’ su.
«In un certo senso sì. Non volevi essere banale, vero Deli?» Le sorrido.
«Dimmi, allora.»
«Dunque, il potlatch è una cerimonia che si svolge presso alcune tribù di Nativi Americani della costa nordoccidentale del Pacifico. Si tratta di un rito che tradizionalmente comprende un banchetto a base di carne di foca o di salmone: La cosa importante è che in un potlatch vengono ostentate pratiche distruttive di beni considerati di prestigio. Un po’ come se tu spaccassi il tuo i-phone…» Sono già pentito dell’esempio, Adelina mi aveva già chiesto di comprarle il nuovo modello ma io avevo opposto “resistenza”.
«È una cosa stupida» mi fa.
A me scappa un sospiro di sollievo ma cerco di non darlo a vedere.
«È quello che a noi occidentali sembra. E forse lo è.»
«Ma a che serve distruggere una cosa di valore? E che c’entra con la Rivoluzione.»
«Serve a ostentare ricchezza. Se tu spacchi il tuo i-phone è perché sei ricca. Vuoi impressionare i tuoi amici.» E mi pento di nuovo.
«Non lo farei mai! Mi prenderebbero per pazza!»
«Giusto» e ringrazio il cielo per il suo buon senso. «Oggi è come dici tu. Ma quel rito è, in qualche modo, simile a tanti riti presenti in altre culture. Pensa per esempio all’ostentazione dei pranzi di nozze italiani. Almeno fino a pochi anni fa, più si era in condizioni economiche difficili, più si voleva esagerare con lo sfarzo. Con lo spreco.»
«Ma lo si fa ancora.» aggiunge lei. «Hai presente quel programma televisivo, “Quattro Matrimoni in Italia”?»
«No.»
«Vabbè non importa. Ma non capisco cosa c’entri la Resistenza, né tantomeno la Rivoluzione.»
«Beh Deli, devi sapere che i pothlach sono stati dichiarati illegali in Canada e negli Stati Uniti alla fine del XIX secolo principalmente a causa della pressione dei missionari e dei governativi che la consideravano "un'abitudine più che inutile", sostenendo che fosse dispendiosa, improduttiva e contraria all’etica del lavoro e ai valori delle società americane e canadesi. Nonostante il divieto, la pratica del potlatch ha continuato a esistere illegalmente per anni. Molti Nativi Indiani d’America hanno mandato petizioni al governo perché rimuovesse la legge che però non è mai stata abolita, anche se nel XX secolo l'opposizione al potlatch si è notevolmente affievolita.»
«Quindi in un certo senso hanno opposto una Resistenza?»
«Già.»
«Papà, d’accordo che è stata fatta una legge stupida, però in fondo distruggere le proprie cose è una sciocchezza.»
«A noi sembra così. Ma nella loro cultura, serve a stipulare alleanze o a rinforzare le relazioni gerarchiche tra i vari gruppi. In quei riti non è solo importante la distruzione dei beni ma anche e soprattutto lo scambio di doni. Attraverso il potlatch si fa gara a distruggere beni di valore per affermare pubblicamente il proprio rango o per riacquistarlo nel caso si fosse perso. Infatti, al contrario dei sistemi economici mercantilistici come il nostro, nel potlatch l'essenziale non è conservare e ammassare beni, bensì dilapidarli. La logica dell'economia di mercato è quindi completamente invertita. È questo che il governo osteggiava. Benché il dono sia un tipo di scambio ampiamente praticato in tutto il pianeta (per esempio noi paghiamo da bere agli amici, o pensa anche ai regali di Natale), il potlatch è l'esempio maggiormente conosciuto di questo fenomeno.»
«Capisco… Era una pratica che dava fastidio al sistema capitalistico nascente. Soprattutto è evidente che donare è molto meno redditizio che vendere…»
È intelligente Adelina. Ha colto il punto principale.
«Brava Deli. È proprio così. Certo, non puoi fare una tesina solo sul pothlatch, ma citarlo e rivelarne tutte le implicazioni, culturali, sociali e economiche ti farà fare bella figura.»
Adelina rimane in silenzio. La vedo di nuovo armeggiare sul telefono, sembra distratta. Invece non lo è.
«Eppure papà, sarebbe bello vivere in una civiltà basata sul dono invece che sul capitalismo. Perché quando si fa un dono, sincero, ci si sente felici.» Mi guarda con occhi interrogativi, ci tiene a sapere come la penso. Spesso i figli testano i genitori.
«Sì sarebbe bello. Meno pratico ma bello.»
«Certo. Non tutti i doni ci piacerebbero o ci sarebbero utili ma forse il dono non è tanto ricevere l’oggetto in sé quanto ricevere il pensiero dell’altro. E la sua felicità.» Non avrei saputo esprimermi con parole migliori delle sue.
«Beh sai, ci sono civiltà che hanno provato a basare la loro economia sul dono. Per esempio a scuola ci insegnano che quando ancora non esisteva il denaro il sistema di scambio utilizzato era quello del baratto. Ma forse non era sempre così. Mi piace pensare che il baratto fosse una pratica meno importante del dono. E potrebbe pure essere, no?»
«Sì forse. Anche se a pensarci bene pure basarsi solo sul dono potrebbe essere asfissiante. Perché poi i doni vanno ricambiati, in un certo senso si crea un obbligo. Forse bisognerebbe continuare a usare il denaro ma donare di più. Anche riciclando. Per esempio, nonna Adelina mi ha regalato una cornice di vetro che non si può guardare. Te la posso dare a te?» E ride.
«Certo! Si capisce quando una cosa viene fatta col cuore…» E rido anch’io. «Allora, per la tua tesina?»
«Ok, mi hai convinto. Resistenza. E citerò il potlatch.»
Fare l’avvocato civilista mi ha fatto scoprire molte meschinità umane. Le cause civili sono terribili, quelle in cui si scatena il peggio dei nostri istinti. Ne ho viste di tutti i colori, da agricoltori che si citavano per una differenza minima di confini, da coniugi che si facevano la guerra per un mobile, da fratelli che finivano per odiarsi per un orologio lasciato in eredità all’uno piuttosto che all’altro. Tutto, o quasi tutto, per la proprietà. Quando ho raggiunto il limite della tollerabilità, ho pensato che stavo sprecando la mia vita. Così mi sono dirottato, gradualmente, verso un ramo del diritto che tutela davvero i più deboli: i minori. Questa è l’unica Rivoluzione che sono stato orgoglioso di aver fatto nel mio privato.
«Sai, le culture tradizionali, specie quelle locali, sono sempre insidiate da quelle dominanti. E non è detto che delle civiltà minori tutto sia lecito. Per esempio» e qui mi sono rifatto alla mia esperienza giuridica «quando a farne le spese sono i bambini. Però schiacciare queste culture ad armi impari è una bella vigliaccata, no?»
«Gli esseri umani sono così» mi fa. E io noto una certa forma di rassegnazione nelle sue parole che alla sua età io non avevo. Forse è solo consapevolezza. «Sai cosa ti dico, papà? Che avere la pancia piena è una bella cosa, ma svuota un po’ la testa.»
La guardo con tenerezza e orgoglio, sono sicuro che la sua non è vuota per nulla.
«Sai, spesso rifletto su tutte le cose che abbiano. Sinceramente sono troppe. Magari per i nonni o anche per voi accumulare era importante. Eravate impegnati a pensare a tutto quello che non avevate. Ed effettivamente vi mancavano tante cose. Ma a un certo punto uno dovrebbe guardarsi allo specchio e capire che riempiendosi le tasche non ci si sente meglio. Anzi, le tasche talvolta diventano voragini che inghiottono tutto e bisogna riempirle sempre di più, sempre di più…»
Certe volte noi adulti siamo sfiduciati sui giovani, ma credo che ci sbagliamo.
«Io invece voglio avere di meno ed essere di più. Non so, potrebbe essere questa la nostra nuova Rivoluzione. Una rivoluzione finalmente pacifica.»
«Sei in gamba Adelina. Ok, la tua idea di Rivoluzione mi piace. Adesso prova a immaginare una tua forma di Resistenza e ad applicarla.»
Aspetto una sua risposta ma lei se ne resta in silenzio.
«Qualunque cosa ti venga in mente Adelina, qualunque cosa che non ti va, devi resisterle.»
Niente, ancora silenzio.
«Beh non ti viene in mente nulla?»
«Oh sì. Sto applicando la mia Resistenza già da tanti anni.»
«E quale sarebbe?»
«Non risponderti quando mi chiami Adelina.»
È una Resistenza piccola, d’accordo. Ma come genitore mi sento più tranquillo.
«Ti voglio bene, Deli.»
«Anche io, papà.»
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