Francesco Rivara aveva una faccia di quelle che non si lasciano guardare comodamente, neanche un po’. Non che mordesse, santo cielo, però metteva soggezione. E allora la gente tendeva a girargli al largo, anche più del necessario. Un peccato, perché era una faccia interessante dopo tutto: la crapa pelata, il naso importante, due occhi scuri piccoli piccoli sormontati da sopracciglia appena accennate, un numero infinito di rughe che gli calzavano a pennello. A saper leggere una faccia come qualcuno sostiene di saper leggere una mano, lì c'è n'era per settimane.
Doveva essere sulla sessantina, lustro più, lustro meno, solido ed asciutto come il legno degli ulivi che crescono da queste parti, a Camogli. Lo vedevo sempre seduto allo stesso caffè, quello appena fuori dal budello, all’inizio della passeggiata. Dentro se era brutto, ma se il tempo era buono, anche solo per i pinguini, lui stava fuori. Non so cosa facesse quando non era lì: so che quando passavo, e passavo piuttosto spesso visto che avevo il laboratorio proprio lì dietro, lui c'era. Mezzo bicchiere di bianco sul tavolo, e gli occhi a guardare il mare. Com'è e come non è, incominciammo a scambiarci qualche cenno di saluto. Senza impegno, come si fa tra persone civili. E poi una sera, una di quelle sere così belle che non si può tornare a casa presto, una di quelle sere che c’è fuori tutto il mondo e non trovi un posto per sederti neanche a pagarlo oro, mi toccò di domandare ospitalità proprio al suo tavolo. Un sorriso aperto e un cenno della mano accolsero mia la richiesta quasi prima ancora che fosse formulata.
Chiacchierammo per un po' delle solite cose di cui si discorre tra estranei: tempo, partite, le ultime notizie dei giornali... Non particolarmente interessante, ma ogni cosa ha un suo tempo. "Vede quelle luci di navigazione laggiù, dottore? Appena oltre la fila delle lampare?" domando' saltando di palo in frasca all'ora che il locale si stava finalmente svuotando. "Oggi le chiamano carrette del mare, ma è su quelle che ho passato la maggior parte della mia vita..."
Francesco Rivara era nato in uno dei tanti paesi della pianura che sta alle spalle dell'Appennino, uno di quelli dove il mare non lo vedi nemmeno eppure ne avvertivi la presenza in ogni cosa. Lui, però, a dodici anni il mare l'aveva già visto parecchie volte: i suoi ce lo portavano d'estate, per le vacanze. Giusto qualche giorno, ma aveva persino imparato a nuotare. Come per tanti altri, la faccenda avrebbe potuto finire qui, vacanze e nuotatina, non fosse stato che i suoi erano devoti di San Giorgio lo Stilita. Quello che con il drago non ci aveva avuto niente a che fare, ma aveva passato sessant’anni seduto su di una colonna in contemplazione dei misteri della fede e delle onde che si frangevano sulla scogliera dabbasso.
Per una volta, avevano deciso di portarsi dietro il ragazzo, al santuario. La tentazione di arrampicarsi sulla colonna era stata tanto irresistibile quanto l’azione si era rivelata irrealizzabile: recinzione a parte, il posto era pieno zeppo di fedeli che andavano e che venivano, di gente che pregava, di devoti e di peccatori in cerca di grazie e assoluzioni. Per non dire dei gruppi e delle comitive salite fin lassù solo per godersi il panorama.
Ma nel giardino c'erano anche degli alberi, nessuno dei quali pareva recintato od assediato. Quando uno dei preti lo scorse, appollaiato su di un ramo come un colombaccio, i suoi lo stavano cercando da quasi un'ora.
"Cosa avevo visto da lassù?” mi chiese. “Se a questo punto si aspetta un qualche tipo di rivelazione, dottore, mi tocca deluderla. Avevo giusto visto il mare. Solo che, per la prima volta, lo avevo visto tutto insieme.”
Tornato in pianura, Rivara aveva ripreso la sua vita. Scarsamente dotato per gli studi, suo padre era riuscito a piazzarlo nell'officina del paese, dove tra auto moto e trattori aveva trovato una specie di vocazione. Un giorno poi, ma "un giorno" e' appena un modo di dire, aveva raccolto le sue cose e si e si era diretto verso il mare. Era partito da Genova: mozzo, aiuto motorista, motorista, il suo talento meccanico gli aveva aperto un sacco di strade nelle profondità delle navi. Macchinista, capomacchina, viveva in un mondo buio e sudato dove il fuoco si trasformava in propulsione, dove gli alberi erano fatti di metallo, e di metallo erano anche il cielo, l'orizzonte ed ogni altra cosa. Dove il mare era appena un lampo azzurro intravisto mentre si apriva un boccaporto o si scendeva una scaletta. “Non che ci spendessi molto tempo a pensarci, sa dottore? Avevo troppo da fare. E poi, tutto sommato, era anche una bella vita. Pagare, pagavano bene. E io, in sala macchine, ero qualcuno: ero il "signor" Rivara. Anche il capitano mi chiamava signor Rivara: signor Rivara, abbiamo bisogno di questo, signor Rivara abbiamo bisogno di quello, signor Rivara, come faremmo senza di lei..." Si fermò, inseguendo qualche pensiero. "Sì era una bella vita, dopo tutto. Fino a quando.." si interruppe di nuovo..
"Fino a quando..." gli appoggiai..
"Mi perdoni, sa dottore.. E’ che a volte mi perdo.. Beh, per un motivo od un altro di navi ne ho cambiate parecchie, la gente andava e veniva. I porti, e chi se li ricorda tutti? Però, la sala macchine... quella era casa mia, e quelli che ci lavoravano dentro erano la mia famiglia. Non so quando, come o dove cambiò. Forse non cambiò neppure, era sempre stato così solo che io non lo vedevo. Si trasportava di tutto. Merci, lecite o meno, mezzi, manufatti, impianti, rifiuti, armi, disperati. Di tutto. E più il lavoro era difficile o sporco, più soldi giravano. E i compagni diventavano dei rivali, gli amici estranei, stare in mare giusto un dovere e tornare a terra anche meno. Mi sentivo straniero in acque straniere, e passavo sempre più tempo da solo, sul ponte, a guardare l’orizzonte. Sembra orribile, vero dottore? Ma è solo perché la sto mettendo giù così. Mi capisca dottore: c'erano tante belle giornate, più di quante non riesca ricordarmi, e ho visto cose e conosciuto persone che mi porto ancora dentro. Tutto sommato potrei dire che sono stato un uomo fortunato”
"Buon per lei.." incoraggiai, più che altro per evitare una nuova pausa.
“Però mi sentivo vuoto, vuoto come una di quelle conchiglie che si trovano sulla spiaggia e uno la raccoglie e cerca di immaginarsi chi ci abitava dentro. Ma ormai non c’è più, è solo una conchiglia vuota. Delle navi non me ne fregava più nulla, di tutti quei “Signor Rivara” nemmeno. E allora mollai tutto e tornai a casa. Sa, dottore, in effetti non sapevo bene cosa fare. Sono anche andato a San Giorgio, ma era tutto così diverso... La colonna c'era ancora, ed anche qualche albero, ma non mi sono nemmeno arrampicato, lo sapevo già che non avrei visto niente.”
“E allora?” domandai.
“E allora mi sono fermato qui, a pensare. Non sono molto sveglio, dottore. Però sono fortunato, ricorda? E ho imparato a guardare. Sa quanta gente passa davanti a questo bar? Tanta, anzi: tantissima. Ricchi, poveri, giovani, vecchi, di tutte le razze, di tutti i colori. Li guardi in faccia, se ha tempo, li guardi negli occhi. Sa cosa troverà in quelli che hanno appena visto il mare per la prima volta?
Dovetti ammettere la mia mancanza. “No, a dire il vero”.
“Meraviglia, dottore. Pura meraviglia. Perché il mare, vede, nella nostra testa non ci sta proprio. Quel che si pensa di sapere non conta niente. Il mare, finché non l'hai visto da te, non sai. Tutta quell'acqua, tutta insieme, che non si vede da dove viene e dove finisce, che non si capisce perché si muove e non si ferma mai…. Si rimane a bocca aperta, che se qualcuno non te la chiude mandi giù anche i moscerini. A ripensarci oggi, dottore, dev’essere stato questo quello che avevo visto veramente dalla pianta tanti anni fa: un mondo nuovo. Perché a quell'età tutto il mondo doveva essere nuovo. Nuovo, meraviglioso ed inspiegabile; e aspettava solo me… Poi... poi, come le ho detto, mi sono ritrovato a fare altro e non ci ho pensato più. Fino a che non ho visto sulla faccia della gente che guarda il mare che tutto quanto è ancora là. Solo che io non lo vedo più. Sa, dottore, se mi sento vuoto non è perché sono vuoto, ma perché lo sono le cose con cui mi sono riempito la vita. Ora sto imparando a lasciarmele indietro tutte, una per una, e non mi mancheranno neanche un po’. Sono i sogni di qualcun altro, non i miei. Con i soldi che avevo messo da parte ho comperato una barca, se passa al porto la può vedere, si chiama “Lo Stilita”. E adesso sono qui che aspetto la marea..”
“La marea?”
“La marea, il vento, il momento giusto, quel che è, insomma. Ma un giorno o l’altro, ci può scommettere, Lei passerà di qui e io non ci sarò più.”
Avrei dovuto stare zitto, invece mi feci scappare un “Già, un giorno o l’altro”. Fortunatamente la mia invidia non colse il bersaglio, e di questo sono felice.
“Al momento giusto. O quando mi garberà a me, se c’è troppo da aspettare. La mia vita è ancora tutta là fuori, ora lo so. Devo solo andare a viverla.” Rispose tranquillamente Francesco Rivara.
Questa volta solo il vento continuò il discorso. Il racconto era evidentemente finito e per ognuno di noi era tempo di tornare ai propri pensieri. Nel buio, il sartiame di una barca lontana batteva lugubremente contro qualche cosa, l’albero probabilmente, e mi metteva i brividi. Mi alzai per congedarmi e, chissà perché, mi sembrò il caso di fare una precisazione.
“Una cosa, ancora.”
“Dica, dica pure…”
“Io non sono un “dottore”. Non lo sono mai stato, e neanche ci sono mai andato vicino.”
“Ah, non importa, dottore. Se è per questo, io non ho mai fatto il marinaio.”
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