In una fattoria del territorio carrarese, distante alcuni chilometri dal centro abitato della città e situata in un’area collinare da cui era visibile lo spettacolo naturale, affascinante e foriero di fecondità economica, formato dalle cave di marmo bianco, la vita sembrava scorrere nella normalità e, forse, nel tran tran quotidiano di una noia incontrovertibile.
Una famigliola costituita dai genitori, Lapo e Lucrezia, e da due figli, Ceccardo ed Eleonora.
Il primogenito, su cui si puntava molto per fare il salto di qualità e occupare un gradino più elevato nella gerarchia della società di allora, era nato cinque anni prima della sorella, che finiva per essere la favorita e la più coccolata da tutti.
Il tipico nucleo familiare ridotto nel numero, senza eccessive pretese di effetti speciali, della provincia italiana al tempo del boom economico nel periodo cruciale degli Anni Sessanta inoltrati, quando il nostro Paese cercava di cambiare marcia e di pianificare la vita individuale e comunitaria, centrata sul progresso e sul benessere dopo la fase buia della Seconda Guerra Mondiale.
I coniugi De Silvestri – poca cultura come è facile dedurre dal contesto storico appena accennato e molta fatica, tanto lavoro testimoniato dalle mani callose e dai volti solcati da rughe profonde – continuavano la tradizione agro-silvo-pastorale dei loro avi, caratteristica di quella località.
Un’attività remunerativa che presupponeva, però, impegno costante, sacrifici a non finire e parecchie privazioni, dettate dalla stessa tipicità del lavoro da inanellare in gran parte delle ore della giornata e in tutte le stagioni dell’anno.
La scintilla che aveva fatto scoccare l’amore autentico, spontaneo e disinteressato, rispetto a possibili altri parametri di scelta, fra Lapo e Lucrezia era da ricercare nel tempo, risaliva alla loro infanzia, per concretizzarsi allorquando entrambi erano giovani con un’età pressoché uguale.
Erano convolati a nozze poco più che ventenni con l’idea precisa di tirare su una famiglia, non numerosa come solitamente avveniva in quel torno temporale, che avrebbe dovuto proseguire sulla scia lavorativa tracciata dai nonni e dai bisnonni.
Dopo il matrimonio, la prole tanto agognata da ambedue a coronamento delle loro aspirazioni sentimentali tardava a venire. Erano trascorsi alcuni anni, ma il primo figlio non voleva proprio arrivare. Né era ipotizzabile il ricorso ad alcuna cura facilitatrice della fertilità, probabilmente carente, considerate le conoscenze dei diretti interessati altresì la riservatezza e la barriera mentale, che impedivano loro di rivolgersi ad altra persona, seppure il medico di famiglia.
Non restava altro che guardare più in alto lassù a Qualcuno che intercedesse o perorasse la loro causa.
Le implorazioni, evidentemente, avevano avuto un effetto positivo, si erano trasformate in speranze materializzate con la nascita del primo figlio dopo tanta, sfibrante e impaziente attesa. I due giovani erano persone devote e manifestavano la loro religiosità con atti fattuali di generosità verso gli altri e a favore della parrocchia frequentata compatibilmente con le loro occupazioni.
Essi avevano una particolare predilezione per il Patrono di Carrara, San Ceccardo, di conseguenza, il nome dato al neonato non poteva essere che quello, rompendo così con una pratica consolidata, la quale, quasi sempre, si basava sull’attribuire ai discendenti i nomi degli ascendenti diretti.
Invero, Ceccardo era un nome non comune, diffuso da quelle parti e, talvolta, oggetto di commenti poco lusinghieri soprattutto tra i ragazzi con lo scopo di scherzarvi sopra e, ancor peggio, di dileggiare il compagno di giochi che lo aveva ricevuto alla fonte battesimale.
Cosa che avveniva puntualmente, quando il ragazzone, anche a motivo dell’altezza e della robustezza del suo corpo, talmente precoce nella crescita in confronto all’età di sei e più anni, frequentava la Scuola Elementare, prima, e le classi della Media, dopo, pur non avendo concluso il ciclo di studi di quest’ultimo segmento scolastico.
A tutto questo bisognava aggiungere alcuni episodi singolari che avevano visto protagonista Ceccardo nel corso della sua vita scolastica e nel gruppo dei pari bazzicati.
Era successo con una certa frequenza che, durante le interrogazioni vicino alla cattedra, così concepite e usuali nella scuola di quel tempo, egli invece di rispondere alle domande della maestra su alcuni fatti storici, di botto, si trovasse per terra senza proferire parola alcuna, suscitando persino l’ilarità dei suoi compagni. Tale particolare atteggiamento si reiterava anche in situazioni simili, quantunque l’argomento trattato fosse diverso, oppure Ceccardo venisse chiamato ad abbozzare qualche esercitazione di geometria alla lavagna.
E, ancora, nel corso di un litigio violento in palestra con un suo coetaneo, in raffronto al quale egli avrebbe dovuto ottenere la meglio in quanto lo sovrastava fisicamente, inopinatamente, crollava giù, lasciandosi sopraffare dall’altro.
La cosa si ripeteva, sorprendentemente, durante la disputa di una partita di calcio fra compagini opposte nel momento in cui il ragazzo si rendeva artefice di un’azione veloce ed efficace tanto da segnare un gol agli avversari e, all’atto iniziale di euforia di sé e degli altri suoi colleghi di squadra, si accasciava al suolo quasi fosse stato tramortito da qualcuno o da qualcosa.
C’era il sospetto, da parte di non pochi, che Ceccardo lo facesse apposta per essere al centro dell’attenzione. E i suoi pari, in virtù del loro modo di pensare e di vedere, gli avevano appioppato il nomignolo, non certamente edificante, di Cardo, con un richiamo specifico alla pianta molto nota per le sue qualità medicamentose.
La maestra si era lamentata continuamente con i genitori, i quali si sentivano impotenti dinnanzi ai fatti accaduti, anzi, avvertivano vergogna e si scusavano per quelle azioni compiute dal figlio. Essi erano stati convinti dalla stessa docente che la scuola non era adatta a lui e che avrebbero fatto meglio tenerlo a casa, per impegnarlo nelle varie manutenzioni della fattoria, ovvero avviarlo ad apprendere un mestiere in una segheria della zona marmifera, anche per la sua predisposizione a un lavoro eminentemente manuale.
Completata a stento la Scuola Primaria e ormai grandicello, Ceccardo si accingeva a frequentare il primo anno di Scuola Media, tuttavia, già nei mesi iniziali si profilava il definitivo abbandono degli studi per i quali, sulla scorta di quanto asserivano finanche quei professori, non aveva alcuna inclinazione.
Egli veniva bollato, dunque, col marchio di alunno disadattato nella migliore delle ipotesi.
Quest’ultima breve parentesi scolastica aveva dato, però, l’opportunità al ragazzo di intrattenere con una sua coetanea una fiorente amicizia che, sfortunatamente per lui, si era vanificata e interrotta già sul nascere. Qualcosa di identico a quanto registrato in precedenza si era verificato, infatti, nell’attimo in cui egli stringeva la mano all’amica per rivelarle i suoi sentimenti: Ceccardo si trovava in un battibaleno disteso giù sulla strada senza poter controllare i suoi gesti.
La ragazza irritata e, nel contempo, spaventata scappava via con l’intenzione di non volerlo più incontrare.
A ben vedere, tutto quello che aveva connotato la condotta di Ceccardo, nei frangenti descritti, appariva talmente balzano da meritare un approfondimento, invece, con grande superficialità i suoi genitori e i docenti avevano archiviato il caso.
Un dettaglio non trascurabile, per nulla preso in considerazione, afferiva difatti alla condizione psico-fisica del ragazzo dopo quelle estemporanee e repentine cadute: sembrava dimenarsi in un crogiolo di torpore molto contiguo al sonno che, peraltro, si affacciava a intermittenza sporadicamente nelle ore diurne.
I coniugi De Silvestri, a quel punto, recepivano appieno il suggerimento della vecchia maestra di Ceccardo: incominciava per lui l’apprendistato in una segheria specializzata nella riduzione e nella lucidatura delle bancate di marmo bianco.
Egli si rendeva autore, stranamente, di veri e propri furtarelli di esigue quantità di marmo che restavano dopo la lavorazione di quei blocchi più grandi. Quelle piccole porzioni marmoree venivano portate da lui in un magazzino abbandonato e fuori uso della sua fattoria, che si era premunito di chiudere ermeticamente.
Cosa facesse con quel marmo bianco rimaneva un mistero tutto intero da svelare.
La sorella Eleonora si era accorta del viavai del fratello nel tempo libero in quel locale, si era avvicinata di soppiatto per scrutare all’interno, ma con scarsi risultati, né aveva riferito qualcosa ai suoi genitori.
Lapo De Silvestri una mattina lavorativa si era trovato in prossimità di quel magazzino e aveva notato la chiusura della porta di cui era all’oscuro. Forzava la serratura, entrava e si trovava al cospetto di una vera e propria collezione di volti di donne scolpiti su minuscoli pezzi di marmo con a fianco gli attrezzi del mestiere, tanti scalpelli.
Una visione suggestiva, meravigliosa e impareggiabile.
L’autore non poteva che essere Ceccardo.
Sì, quel ragazzo era affetto da narcolessia, un disturbo del sonno che gli provocava ipersonnia, dovuto alla carenza di orexina, un ormone che il suo ipotalamo non voleva produrre.
In più, egli – di fronte a situazioni altamente emotive, come quelle rappresentate – perdeva istantaneamente il tono muscolare sino ad addormentarsi quasi del tutto.
Ebbene, un fatto stupefacente si era generato nel suo caso: Ceccardo, rielaborando le immagini o, meglio, le allucinazioni ipnagogiche di quando si addormentava, era riuscito con volontà estrema e con altrettanta intelligenza creativa a convogliare il tutto nelle piccole opere d’arte prodotte, veri e propri capolavori in miniatura.
Una sorta di antidoto a una situazione temporaneamente invalidante.
Una terapia d’urto cercata e attuata dentro di sé senza alcun trattamento medico.
Per il resto della vita, egli sarà un eccellente e affermato scultore.
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