(Carenze: quel che non avevo. Amicizia e affetto: quello che avevo)
Sì, in effetti accadde in un tempo così lontano che potrei cominciare con…
C’era una volta un bambino povero, ma quasi non se ne accorgeva perché a quell’epoca erano poveri tutti quelli che conosceva.
Se devo dire la verità quel bambino ero io. I miei vestiti erano quelli dismessi da un mio cugino più grande. L’unica veramente mia, la più preziosa, era una camicetta senza maniche con impressi Orazio e Clarabella, 2 dei simpatici amici di Topolino. Un regalo della mamma di cui ero orgogliosissimo!
Giocattoli ne avevo pochini, un cagnolino rosso di celluloide e un pesciolino dello stesso colore, ma avevamo i boschi intorno al nostro paesino e non mancavano i rami. Un ramo diritto diventava una bella spada, ma poteva anche essere un fucile; se ne trovavamo uno incurvato, con un po’ di spago, era pronto il nostro arco. Allora era facile per noi diventare antichi romani, Cavalieri della Tavola Rotonda, compagni di Robin Hood. Accanto alla scuola crescevano delle foglioline che si attaccavano ai vestiti e così, con 5 foglioline appiccicate al petto a formare una stellina, uno diventava sceriffo e spadroneggiava sugli altri cowboy.
Il nostro paese, durante la bella stagione era occupato quasi interamente da donne e bambini perché gli uomini lavoravano in Lussemburgo e rientravano soltanto a inverno inoltrato quando, in quel luogo lontano, veniva a mancare il lavoro che riprendeva a primavera. Durante gran parte dell’anno tutti i lavori venivano svolti dalle donne, anche i più umili. Si recavano nei campi e con le loro affilate falci tagliavano l’erba che caricavano sull’ampia gerla che portavano sulle spalle, andando poi a depositarle negli stavoli dove si conservava il foraggio per alimentare il bestiame.
Quando morì la mia povera nonna, furono 4 donne, coraggiose e forti com’erano tutte le nostre donne, a caricare il suo corpo su una specie di portantina per salire la malagevole erta che conduceva al nostro piccolo cimitero di San Daniele.
A fine settembre, uno dei miei passatempi preferiti era contare il più alto numero di rondini che componevano gli stormi che, ci dicevano, se ne andavano a svernare nel lontano e misterioso Egitto. Le contavamo assieme alla mia cuginetta e vincevo sempre io: 14 a 7, 22 a 7, un giorno addirittura 30 a 7. Se devo essere sincero non era difficile vincere, lei sapeva contare soltanto fino a 7!
Al giovedì arrivava in paese l’uomo che vendeva il pesce, preceduto dal suono della sua trombetta. Per noi era uno dei momenti più attesi, al pomeriggio recuperavamo gli ossi di seppia scartati che, vista la loro forma, immaginavamo veloci motoscafi. C’era un fiumiciattolo che, attraversato il manto stradale, sbucando dall’altra parte veniva utilizzato da mamme e nonne come lavatoio: una tettoia ricopriva dei piani inclinati adoperati dalle donne per fare il bucato. Noi gettavamo il nostro osso galleggiante da una parte e ci proiettavamo a vederlo sbucare dall’altra, correndo poi tra le gambe delle massaie che ci rimproveravano bonariamente, fino al termine del lavatoio per vedere il primo arrivato, immaginando come sarebbe stato bello seguirlo fino al mare.
Ecco, il mare io non l’avevo mai visto, e come regalo per il mio sesto compleanno feci capire ai miei genitori che avrei tanto desiderato fare una bella gita fino alla grande città, il capoluogo, dove si raccontava ci fosse uno splendido castello bianco affacciato proprio sul mare. A malincuore mi fecero capire che non potevamo permetterci un viaggio così costoso. Una piccola gita però, come regalo per quella giornata di festa, l’avremmo fatta, perché così, come usava dire la mamma, “non ti cadrà il cuoricino” per il dispiacere.
Nel giorno tanto atteso, il mattino non fu molto diverso dagli altri. Non mi aspettavo grandi regali e in effetti non ricevetti cose eccezionali. Una camicetta nuova perché la mia preferita stava diventando inspiegabilmente piccola, oppure ero io che stavo diventando grande, non so, e un pellerossa che suonava il tamburo, regalo della nonna. Poco prima di mezzogiorno vennero tutti i miei amici, ma soltanto per mangiare una fetta della squisita torta fatta dalla mamma. Regali non ne portarono, né me li aspettavo: eravamo tutti poveri! Non mancarono però di tirarmi le orecchie, 6 volte ciascuno, quanti erano gli anni che compivo, una strana usanza di quei tempi. Alcuni lo fecero talmente forte che alla sera mi sarei sentito come Dumbo, con gli orecchioni. Subito dopo però, con mamma e papà salimmo a bordo di una curiosa corriera blu che aveva sul retro una scaletta per arrampicarsi sul tetto a sistemare i bagagli dei viaggiatori che andavano più lontano. Noi percorremmo soltanto una quindicina di chilometri, tanti ne occorrevano per arrivare a Tolmezzo, dove c’era addirittura il cinema. Ovviamente noi non ci andammo: costava troppo, eravamo arrivati fin là soltanto per visitare le baracche della fiera settimanale, quello non costava niente. Ma all’improvviso eccolo lì il mare, proprio quello che non avevo mai visto: era raffigurato in un bellissimo quadro che costava diecimila lire, quasi due settimane di lavoro del mio papà. Il prezzo era così alto perché era un’ottima riproduzione di un famoso quadro di Van… non ricordo cosa, almeno così aveva detto l’uomo della baracca dei quadri. Quanto mi sarebbe piaciuto appenderlo alla parete bianca accanto al mio letto, nascosto da una tenda, in cucina. Era il mio angolino personale e mi ritenevo molto fortunato per questo. I 2 gemellini, più piccoli, dormivano con mamma e papà, quando c’era, in 4 sul materasso riempito da foglie di pannocchia, regalo di matrimonio.
La nostra casa era molto modesta, oltre alla cucina dov’era stato sistemato il mio lettino, un piccolo corridoio, una ancor più piccola dispensa, e la camera dotata di vaso da notte, brocca e catino. L’idea di bagno, come s’intende oggi, mi era del tutto sconosciuta. Salendo una scala di legno esterna si arrivava al piano superiore nel ballatoio che in paese chiamavamo “linde” e, a metà scala, c’era il nostro misero gabinetto: un tavolaccio con un buco coperto da un coperchio di legno. Sempre al primo piano, oltre al solaio, era stata ricavata un’altra stanzetta, ma d’inverno vi si gelava e d’estate la mamma, per fare un po’ quadrare il magro bilancio familiare, consentendo l’uso in comune della cucina, la affittava ai cittadini che arrivavano dai 2 capoluoghi di regione. Noi li chiamavamo pomposamente “villeggianti”, ma non erano molto più signori di noi, come ci sembrava: con notevoli sacrifici portavano i loro bambini malaticci, che in città abitavano in quartieri malsani, a respirare un po’ d’aria buona. Più che villeggianti, quasi fratelli in povertà.
Quella giornata di compleanno si concluse a sera quando tornammo a casa, purtroppo a mani vuote. Il prezzo del quadro che tanto mi era piaciuto era un ostacolo insormontabile e la mia parete avrebbe continuato a rimanere spoglia. E non fu nemmeno l’unico dispiacere. Oltre al mal d’orecchi procuratomi dagli strattoni di quei monellacci che mi ero scelto come amici, un dentino cominciò a farmi male e a dondolare. La soluzione proposta da papà era di fare una specie di lazo, come quello di Pecos Bill, l’eroe che avevo visto sui fumetti dal barbiere del paese. Con un filo marrone papà avvolse questo lazo improvvisato al mio dentino e tirò fino a quando il dentino si staccò. Mi fece un po’ male e persi un po’ di sangue, ma per consolarmi la mamma disse che se lo avessi lasciato sotto al letto, di notte sarebbe arrivato un topolino e avrebbe sostituito il mio dentino con dei soldini. Ascoltai il suo consiglio, decidendo però, che quella notte non avrei dormito.
La pendola aveva appena battuto le 2 quando udii un rumore sospetto e, veloce, accesi la luce. Accanto al mio letto c’era un piccolo topolino.
“Mamma mia che paura” balbettò.
“Non temere” lo rincuorai “nessuno ha paura di me.”
“Non ci sono abituato, nessuno mi aveva mai visto.” ribattè lui.
“Non temere, te l’ho detto, come ti chiami?” dissi io.
“QZRPTB, il topolino dei denti”
“Ma è un nome impronunciabile, ti va bene se ti chiamo Denty?”
“Va bene, se per te è più semplice.”
“Da dove vieni, Denty?”
“Da Dentinia, il paese dei topolini, non molto lontano da Topolinia, la città di Topolino”
“Ma guarda un po’, anche la città di Orazio e Clarabella! Quelli della camicetta. E cosa fate laggiù?”
“Portiamo i soldini ai bambini e in cambio ci prendiamo i loro denti. Ci servono per costruire le nostre casette, dentino su dentino li usiamo come i blocchi di ghiaccio che gli esquimesi usano per costruire i loro igloo, riesci a immaginarlo?”
“Sì, sì, li ho visti gli igloo sui giornaletti, so come sono fatti. Ma tu, Denty, quanti anni hai?”
“Ormai 50, dovrei sposarmi perché a quest’età noi ci sposiamo e poi a cent’anni andiamo in pensione e ci godiamo i nostri nipotini.”
“E chi non si sposa?”
“Quelli, a cent’anni, un po’ a piedi e un po’ in treno, vanno a Rovaniemi, in Lapponia, il paese di Babbo Natale, per dare una mano nel magazzino giocattoli e vivono fino a 200 anni. Dev’essere molto bello.”
“Quante belle cose mi racconti, Denty, ma… mi hai portato i soldini?”
“Vuoi sapere una cosa? Sei il primo bambino, in tanti anni di carriera, che mi ha visto e voglio farti un regalo speciale.”
“Speciale?”
“Speciale speciale! Ordina e sarai esaudito”
“Sai, Denty, alla fiera ho visto un quadro che raffigurava il mare, di Van… Van… Van Wood credo.”
“Van Wood? Ma è un cantante, la conosci quella canzone – ho giocato tre numeri al lotto, 25, 60, 38? - Non credo sia lui.”
“Sì, lo conosco, non dev’essere lui. Forse Van Looy?”
“Quello è un giovane ciclista! Forse intendi dire Van Gogh.”
“Esatto! Proprio Van Gogh, lo conosci?”
“Lo conosco sì, un giorno mi fece una marachella proprio grossa, anziché un dentino, mi lasciò sotto al letto il suo orecchio! Ohi che spavento! Però l’ho perdonato, era un grande pittore. Quanto costa questo quadro?”
“Diecimila lire!”
“Oh SNXGML! (voi direste oh mamma) Diecimila sono tantissime. Dammi il tempo di tornare a Dentinia, vedrò cosa posso fare” e corse a infilarsi in un buco che non avevo mai notato.
Era quasi l’alba quando ritornò, trafelato. Tra i denti aveva, ripiegata, una banconota che a quei tempi sembrava enorme: la rossa banconota da diecimila lire.
“Oh Denty, ce l’hai fatta, come potrò mai ringraziarti?” quasi gridai, felice.
“Tu sei stato buono con me” disse il topolino “avresti potuto spaventarti e farmi del male, ma non l’hai fatto, anzi, ho trovato un nuovo amico e chi trova un amico trova un tesoro, non dimenticarlo mai, io non lo dimenticherò. Ora devo proprio andarmene. Ah sì, il dentino, mi stavo dimenticando di lui.”
In quel momento, era l’alba ho detto, entrò in cucina la mamma reggendo tutte le tazze del servizio buono: era quasi ora di colazione.
“Aiuto, un topo” gridò e, per lo spavento, lasciò cadere a terra tutte le tazze. Logicamente non se ne salvò nemmeno una. Non posso dimenticare la sua espressione quando si mise a piangere per il dispiacere. Io allora le dissi
“Mamma non piangere, te le ricompro tutte io le tazze, guarda cosa mi ha portato il topolino dei denti.”
Lei rimase senza parole e mi abbracciò. Niente quadro, il mare l’avrei visto un’altra volta, l’importante era che la mamma sorridesse di nuovo. Con le diecimila lire comprammo un servizio nuovo e con il piccolo avanzo lei volle acquistare una trappola per topi. Ogni sera metteva un pezzetto di formaggio sul meccanismo che avrebbe potuto catturare Denty e ogni notte io disinnescavo la trappola facendo sparire il formaggio. Ogni mattina la mamma diceva
“Ce l’ha fatta ancora una volta, quel topo è proprio un furbastro.”
“Eh sì, è proprio un furbastro” ripetevo io.
Non lo rividi mai più. Sicuramente per ogni dentino lasciato trovai una banconota da 100 lire.
Molto tempo è passato, la mamma purtroppo non c’è più e Denty, superati i cent’anni, è in pensione. Forse se ne sta con i nipotini, forse è rimasto scapolo. Io lo immagino a Rovaniemi, nel magazzino di Babbo Natale, non mi sembrava tipo da sposarsi.
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