Come ogni sera avevamo parcheggiato la nostra Panda lungo quel murales a disegni geometrici, “spartiacque tra due mondi, simili ma non uguali” così dice Lorella. A lei piace tanto. Che ci troverà di speciale non so. E’ solo un muro ai bordi di una vecchia piazza e una via, un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra. Forse lei pensa al nuovo che avanza, la scuola Holden, la mongolfiera contro il resistere della via, cuore del Balon.
Eravamo scesi dall’auto e ci eravamo avviati verso casa. Io avevo già camminato tanto e desideravo mettermi tranquillo, disteso sopra al divano. Lorella però non sembrava convinta che la giornata fosse finita e continuava a temporeggiare. Prima si era fermata davanti alla vetrina del rigattiere. No, non quello vicino al ristorante cinese, da cui escono alcuni profumini, quello con la proprietaria simpatica che tutte le volte mi fa un sacco di complimenti. No. L’altro. Quello vicino al portone di casa nostra. Viviamo lì. Noi due da soli da quasi cinque anni.
- Che peccato Ernesto che non ti piacciano le bambole. Queste due – aveva detto indicando la vetrina – sono davvero uno splendore!
Lorella è così. Ama le cose vecchie, un po’, come dire “vintage”, se vogliamo anche un po’ strane. A volte la gente per strada si gira a guardarla. Io all’inizio, folle di lei, pensavo: “ perché è bella”. In realtà mi sono accorto, con il tempo, che non sono sguardi di apprezzamento. Sorridono o scuotono la testa come per dire: “ Quella lì non è tutta a posto”. A me però non interessa. Nei suoi abiti fuori tempo, con i suoi cappelli strani mi piace. Adesso come allora quando l’ho vista per la prima volta. Ci siamo guardati negli occhi e ci siamo piaciuti subito. Il suo primo abbraccio non lo scorderò mai.
Davanti a quella vetrina non so quale susseguirsi di pensieri aveva fatto ma di botto aveva esclamato :
- Oddio ho finito le sigarette!
Non è che sia un salutista, figuriamoci con tutte le schifezze che mangio, però questa storia delle sigarette mi ha un po’ stufato. Ecco quando fuma in casa è uno di quei pochissimi momenti che mi fa arrabbiare. Devo allontanarmi, magari anche trovare un posticino in cui rifugiarmi. Però sopporto. Che altro potrei fare.
In quel preciso istante, alla parola “sigarette” avevo capito che avrei dovuto attendere ancora un po’ prima di rientrare e soprattutto avrei dovuto seguirla su, su per quella via un po’ in salita, un po’ stretta, un po’ sporca, un po’ allegra.
- Ernesto dobbiamo andare dal tabaccaio. Dai tesoro, facciamo in un attimo.
Non ho potuto neppure accennare un disappunto che con passo da alpino Lorella si è avviata lungo la via che porta al tabaccaio. Mentre io cercavo di starle dietro, o quanto meno a fianco, sentivo il rumore dei suoi stivali sui ciottoli scivolosi. Dicono sia una stradina caratteristica per i suoi negozi d’antiquariato, per i suoi locali artistici e accoglienti, per le foto appese ai balconi come lenzuola, per il via vai di compratori e venditori della seconda domenica del mese. Chi ci passa ogni tanto ne vede solo le bellezze. A me invece, non è mai piaciuta. Tra un ciottolo e l’altro si rischia di inciampare. Farsi male è un attimo. E’ per questo che Lorella cammina sempre dove il terreno è meno dissestato, lì al centro, sui lastroni più grandi. Il primo pezzo di via Borgo Dora era fatto, dovevamo solo attraversare la piazza. Libera dalle bancarelle sembrava anche più grande. L’insegna del tabaccaio era là, luminosa in mezzo a tutte quelle altre luci di lampioni e finestre dell’ora di cena. In quel momento della giornata schiamazzi e folla sono altrove. Anche se qualche bar è ancora popolato di suoni, questi sembrano attutiti dal buio. C’è un silenzio strano, che sai non appartenere a quel luogo ma che proprio per questo incanta. E anche quella sera avevo rallentato per godermi quel mondo diverso da quello incontrato nelle mie passeggiate diurne. La voce di Lorella però, mi aveva spronato ad accelerare.
- Dai Ernesto veloce, che è ancora aperto. Così non devo lottare con quello stupido distributore automatico.
Dovevamo allungare il passo perché Lorella diffida di qualunque tecnologia. Già la parola automatico la inquieta, per non parlare di virtuale. E’ una donna di altri tempi a cui piace scrivere con carta e penna, confrontarsi per qualunque cosa con un altro umano piuttosto che con un video, un display. E quella sera con un distributore automatico.
Quasi all’angolo con la piazza dietro di noi un colpo di tosse, un raschiar di gola seguito da un rumore chiaro e distinto di qualcosa di umido che cade a terra. Un uomo nero, alto e grosso procedeva nel nostro senso e prima di superarci aveva deciso di liberare i suoi bronchi. A quel comportamento, sicuramente poco piacevole, Lorella aveva avuto una reazione di disgusto un po’ eccessiva. Di scatto si era scostata al centro della strada con un balzo improvviso ed era finita in una buca cadendo miseramente a terra. L’uomo invece aveva proseguito per la sua strada non rendendosi conto di nulla.
- Porca vacca Ernesto! Mi sono rotta anche il collant! – aveva esclamato a bassa voce. Lorella non alza mai i toni. In tutti questi anni di vita insieme, credo di non averla mai vista arrabbiata.
Nessuno dei ragazzi appollaiati sulle sedie del dehor di fronte si era preoccupato di venirla ad aiutare. Non so se perché mi avevano visto o perché in realtà erano ragazzi”insensibili” come dice spesso Lorella parlando dei giovani maschi. Invece erano accorsi tre uomini stranieri, quelli che quando parlano aspirano continuamente le lettere. “Per non lasciale libere di andare” sostiene Lorella.
- Signora si è fatta male? Se vuole possiamo portarla in ospedale? – Le ha domandato uno, in un italiano chiarissimo, mentre l’aiutava a sollevarsi. Un altro le ha raccolto il cappello che le era caduto e glielo ha restituito insieme ad un sorriso sghembo. Solo il terzo stava fermo lì a guardarmi con un certo timore. Figuriamoci! Io sono così tranquillo.
- No grazie, non mi sono fatta nulla – aveva poi detto incerta Lorella. Aveva sorriso e, cercando il mio sguardo, con il buco nei collant aveva proseguito a passo svelto verso quella luce azzurrognola all’angolo della piazza.
La tabaccheria, nel frattempo aveva già chiuso e nonostante dentro ci fosse ancora il proprietario, Lorella non era riuscita a farsi aprire.
- Usi il distributore automatico – le aveva gridato l’uomo che era all’interno.
- Accidenti Ernesto dovrò usare questo – mi aveva detto indicando il distributore di fronte a noi e subito dopo immergendosi nella sua grande borsa per tirarne fuori la banconota giusta. L’avevo vista sudare nella ricerca delle sigarette preferite e poi della fessura in cui inserire il denaro. Sembrava una bambina. Ogni tanto si girava indietro, verso i locali dove ci fermavamo per un caffè o un aperitivo. Chiusi. Dietro di noi solo un uomo in attesa del suo turno.
- Posso aiutarla? - Le aveva detto ad un certo punto. A guardarlo bene mi era sembrato anche lui un po’ stranino con quei capelli grigio topo, così spettinati. E anche i suoi vestiti consumati non gli donavano un bell’aspetto. Ma Lorella lo aveva guardato, senza timori e poi sorridendogli gli aveva dato la banconota da 5 euro. Anche lui aveva sorriso, prendendo il denaro. Ad ogni passaggio del distributore automatico si erano scambiati sguardi e sorrisi. Fino all’arrivo del pacchetto di sigarette che, nella fretta, avevano raccolto entrambi trovandosi così mano nella mano. A quel punto il fastidio provato fino in quel momento era arrivato al limite. Intruffolandomi tra loro, ero finalmente riuscito ad attirare l’attenzione su di me.
Solo allora Lorella mi aveva preso in braccio e lo sconosciuto mi aveva squadrato, capendo subito chi fossi.
- Questo sì che è un cane che mi piacerebbe avere! Un bel bassotto a pelo duro.
Che tipo questo qui. Speriamo rimanga.
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