lunedì 2 luglio 2018

Carlo Tirinanzi De Medici - Quante storie

Sembra che tutti abbiano una storia tranne lui.
Da ragazzo tornava a casa la sera in bicicletta attraverso la periferia. Scivolava nel crepuscolo, il cielo viola, i casermoni tutti intorno, e le finestre illuminate dal ronzio azzurrino dei tubi catodici. Intravedeva qua e là un lampadario, un po’ di mobilio, quasi mai figure umane. Probabilmente in quelle abitazioni popolari la vita scorreva secondo i ritmi che conosceva bene; a quell’ora l’uomo e gli eventuali figli erano schiantati sul divano, sotto l’orizzonte degli eventi formato dal davanzale; la donna riordinava in cucina, sul retro. A ogni scorcio di abitazione che vedeva, per quanto anonimo e seriale fosse, immaginava le vite che si muovevano in quei pochi metri quadri. Immaginare forse è troppo, non ha mai avuto molta fantasia, però si chiedeva chi era a considerare quella credenza figlia di un’offerta del Mercatone Uno parte della propria intimità, quali i loro mestieri e i loro passati. Perché anche chi vive in un appartamento con i soffitti bassi e gli infissi che dovevano essere cambiati dieci anni fa, al terzo di dodici piani di un casermone nella periferia di una città di provincia, tra le macchine bruciate nello spiazzo sul retro e l’intonaco scrostato, dove c’è sempre almeno un ascensore rotto e si sentono perfettamente i vicini mentre litigano o fanno l’amore, ha una storia.
Il ricordo di quelle pedalate lo invade d’improvviso un martedì sera, poco prima di crollare addormentato all’una per merito della bottiglia di vino rosso che è il suo personale rimedio contro l’insonnia. Lui proprio non sa quale sia la propria storia.

Una volta qualcuno ha detto che una storia è fatta di eventi: per avere un evento serve un agente che compia un’azione, e più eventi messi in fila fanno un racconto. Certo, il racconto ha le sue regole, segue la sua meccanica: c’è un russo un po’ pazzo, Viktor, che ha cercato di compilare un manuale d’istruzioni per i meccanici delle storie e la cosa che per Viktor è fondamentale in un buon racconto è la motivazione, il modo in cui le parti si legano, acquistano una loro necessità. E la si può ottenere solo attraverso un’opera di selezione: scegliere cosa raccontare e cosa escludere; conservare solo gli elementi riconducibili a una stessa motivazione. È così che da una serie di episodi slegati creiamo una storia compatta, una di quelle che ci piace sentire. È un modo per opporsi allo scorrere senza senso o importanza del mondo, al fatto che ogni cosa succede per un po’, e poi è finita.

Poi, alcuni mesi fa, incontra la ragazza con i capelli pieni di nodi. Ha mento squadrato e occhi dell’azzurro di certi vecchi jeans. Si sono visti una sera d’inverno per quello che doveva essere un aperitivo e non sono riusciti più a staccarsi. Quell’intensità fa paura a entrambi, è insolita, ma tutto ciò che la riguarda, pensa, è insolito. È insolito il suo passo deciso; è insolita la sua schiettezza, il bisogno di dire sempre ciò che pensa; è insolita la risata forte che sembra prendersi gioco di tutti, anche di se stessa. E sono insoliti quei suoi capelli apparentemente indomabili, sempre scomposti e pieni di nodi. E – soprattutto – è insolita la sua fame di storie.
Nei trentadue giorni passati insieme ininterrottamente, giorno e notte, gli ha raccontato centinaia di episodi della propria vita e ha voluto ascoltarne altrettanti della vita di lui. Quando non si raccontano storie di cui sono stati protagonisti o spettatori, si leggono reciprocamente i racconti che scrivono o guardano film e serie televisive, e lei in particolare sembra non riuscire a farne a meno, come se assorbire tutti quei racconti fosse una questione di vita o di morte, un modo per essere in molti posti e tempi —  e se non esistono, in fondo, cosa importa? Bevendo troppo e fumando centinaia di sigarette, uscendo dal letto solo per comprare cibo e vino, i due sembrano aver raggiunto una comprensione reciproca che non avevano mai provato. Addirittura lei una volta gli dice: «Esci dalla mia testa», e mentre lo fa emette quella risatina – un trillo così diverso dalla sua solita risata possente e ironica – che fa quando è felice di qualcosa.
Raccontare, ascoltare, bere. Il tutto intervallato da un sesso scomposto, spesso violento al punto che i due si ricoprono di lividi, talvolta interrotto per troppo alcol o sonno. I loro bioritmi sono assurdi, ma sincronizzati: si addormentano alle tre, si alzano alle dieci, le giornate sono scandite dalle bottiglie di vino e dai racconti che fluttuano nell’aria della stanza, pesante di sesso e sigarette. Dopo dodici giorni si dicono nello stesso momento che si stanno innamorando l’uno dell’altra; dopo quindici lei parla di rapporto esclusivo. Lui le chiede una cosa sola, chiarezza fino alla brutalità. Sempre. Sembra d’accordo.
Dopo trentadue giorni lei si ritrae: gli spiega di brutti ricordi che le salgono d’improvviso, e quando accade sembra che nulla abbia più senso, che progettare un futuro sia solo un modo per avere altro da perdere quando la tempesta colpirà.
Lui capisce l’ansia, e le dice che se vuole un periodo di distanza, deve solo dirlo. Lei lo ringrazia ma non glielo dice. Però sparisce. Per giorni, all’inizio, e quando ricompare comunica a monosillabi. Lui cerca di non starle addosso. Poi sparisce per una settimana. Lui non sa cosa stia succedendo, perché non riesce a interpretare i silenzi e i non detti. Chiede se può invitarla a uscire. Lei dice di sì. La invita. Lei lo accusa di volerla controllare, di non saper rispettare i suoi spazi, di possessività. Lui è interdetto: ha molti difetti, ma nessuno ha mai pensato queste cose di lui. Smettono di sentirsi e lui passa il tempo cercando di studiare e chiedendosi dove ha sbagliato.

Davanti a sé ha il libro di microbiologia, gli appunti di una studentessa che non sa compitare “polimerasi”. Fatica a concentrarsi. Sta studiando forme di vita elementari. I virus stanno sul confine stesso della vita. Sono pura esistenza, spinti solo dalla necessità di riprodursi, invadono tessuti e cellule, ne alterano il metabolismo. A differenza degli organismi superiori non provano paura o dolore o tristezza. La morte dell’ospite non è voluta o cercata, è una conseguenza del tentativo di sopravvivere oltre se stessi.
I batteri e i virus non devono rivestire i loro bisogni di motivazioni, i loro non sono nemmeno bisogni, è solo una cascata di segnale. I batteri non studiano microbiologia, non hanno una memoria visuale e così non vedono la ragazza comparire d’improvviso mentre muove la bocca verso sinistra e poi verso destra tenendola leggermente compressa, quasi a mandare un bacio. I batteri non attribuiscono a questo gesto un significato, non sanno che è un segno di incertezza, di perplessità.
I batteri non sono distratti da questi ricordi in forma di immagini che si fanno strada nella coscienza di lui e lo strappano alla lettura, alla costruzione delle sue mappe mentali del cazzo. I batteri non pensano di avere sbagliato, e non devono giustificarsi. Li giustifica la biochimica, molecole che si legano a un recettore e iniziano una cascata di segnale al cui fondo c’è un flagello che ruota e li fa nuotare verso una mucosa, un altro batterio, dello zucchero, verso la vita. Non c’è invenzione, non c’è racconto. C’è quello che c’è, semplicemente. Il resto non esiste.
Lui invece deve sapere, capire. Prende dei manuali di psichiatria, scarica articoli scientifici pieni di statistiche, il valore di p è sempre inferiore a 0,05. Studia gli stili di attaccamento: quello ansioso-evitante è caratterizzato da intensa vicinanza e condivisione, cui presto subentra uno stato ansioso che induce al distacco per un inconscio timore di essere rifiutati.
Il disturbo da stress post-traumatico è spesso caratterizzato da atti autodistruttivi, sbalzi d’umore e improvvise esplosioni di rabbia, abuso di alcool o sostanze.
Il disturbo di personalità borderline fa parte del cluster bipolare, e tutti i bipolari sono caratterizzati da rapidi e improvvisi cicli di valutazione-svalutazione del partner e repentini cambi d’idea e d’umore
Osserva i grafici che accompagnano gli articoli. I grafici di dispersione trasformano le individualità in punti su un pinao cartesiano, ognuno all’incrocio di due variabili. Poi i puntini sparsi vengono sussunti in una linea rossa. Si chiede se la ragazza dai capelli pieni di nodi rientra in quella linea. Ne dubita, gli sembra che non tutto riesca a tornare. Non vede una correlazione lineare. Allora smette di cercare diagnosi, nomi per le cose.
Ne parla con un amico.
– Tu pensi di volere delle risposte –, gli dice, – ma in realtà vuoi una storia.
– Non sono bravo con le storie.
– Nessuno lo è. Ma tutti lo vorrebbero essere. Tempo fa le persone avevano l’impressione di vivere nella Storia, quella con la esse maiuscola, uno luogo in cui i destini individuali si rifrangevano in quelli generali, quando ogni scelta di ognuno sembrava determinante per tutti. Poi lentamente siamo scivolati in uno spazio neutro in cui nulla di ciò che facciamo sembra possa influire sul resto. È questo a spingerci verso lo storytelling.
– Lo storytelling?
– Il racconto. La storia. Tutti parlano di narrazioni: perdiamo le elezioni perché le narrazioni degli altri sono migliori. Guardiamo le serie tv su Netflix perché sono imbottite di storie. È come il kintsugi giapponese: frammenti di ceramica ricomposti con una colla a base d’oro. Il racconto è la colla, i frammenti la vita.
– Questo lo fa la ragazza dai capelli pieni di nodi. Le storie che racconta sono ricostruzioni di eventi con cui evita di affrontare i propri demoni, di dover fare i conti con se stessa. Raccontare o smettere di farsi sentire, sono tutti modi di fuggire. Di non scoperchiare il proprio io. Di tenere i propri fantasmi al guinzaglio, almeno per un altro po’, almeno finché reggono le barriere.
– Lo facciamo tutti. Tu vuoi chiamarlo “disturbo post-traumatico da stress” perché sintetizzi tutta una storia in quell’espressione. Lei forse lo chiama “sei soffocante”, ma è la stessa ricerca di una storia.
– Ma non è vera. Io non sono così. Non sono stato oppressivo.
– E allora? Cerchiamo freneticamente schemi e simboli nelle cose; progettiamo arcate di senso che poggiano sull’assoluta insignificanza delle nostre esistenze, pronte a cedere alla minima scossa; vorremmo ricondurre l’aleatorietà dell’esistenza a qualcosa che ci trascenda, ma non sappiamo cosa possa essere. Così proviamo a individuare almeno noi stessi, a gettare un ponte tra il nostro io di dieci anni fa e l’attuale: ci raccontiamo storie su noi e sugli altri perché è l’unico modo che ci è rimasto per imbastire un pur vago senso. La congruenza di queste storie con la realtà è, per molti versi, superflua.

Ma forse, pensa, anche questa è solo una storia, una ricostruzione imperfetta e incerta. Gli manca la sicurezza di lei per crederci fino in fondo. Mentre torna a casa dalle finestre arriva una luce azzurrina. Rare risate, rumore di piatti spostati. Qualche televisione. Nelle orecchie ha la sua voce: «Sono contenta di essere qui con te». Si rende conto che c’è sempre qualcosa che manca, che è al di là dell’orizzonte degli eventi, come dalle finestre dei casermoni non si vedevano mai i divani, né i tavolini con sopra posacenere e familiari di Peroni. Anche se con ottima probabilità erano lì lui non poteva saperlo allora, come ora non sa se fa bene o male a pensare queste cose. Sa solo che è triste, perché se deve tentare quest’atto di fede che è il racconto vuol dire che non è più nella testa della ragazza. E gli fa male.
Entra in casa, vede l’accendino con Bob Marley, si vede accenderci una sigaretta e passargliela nel buio, con la cenere che cade sulle lenzuola.
Ecco, forse lui non riesce ad accedere alla semplificazione necessaria per costruirsi un percorso negli eventi, dando loro direzione forma senso. I dettagli gli si parano tutti davanti e gli incastri non sono perfetti, non sa usare quella colla dorata per ricomporre i pezzi in un insieme. Sarebbe un’alterazione ingiustificabile. Non sa, o non riesce a mentirsi, non mente a nessuno, mai. E resta lì, senza una storia, con queste immagini che gli scorrono davanti agli occhi, schegge di passato una via l’altra, sempre più rapide, in un presente infinito. Allora nomina i dettagli per avere almeno una presa sui pezzi di memoria che non sa ricomporre. Resta davanti al libro, osserva quello che c’è e c’è stato e vede ogni cosa accadere, e – prima o poi – finire.

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