venerdì 24 maggio 2013

Lorenzo Bianco - Reason with me


Ho sempre adorato il brusio del caffè che viene su, l’aroma che riempie la stanza. Mi avvicino al fornello con il cucchiaino, lo giro tintinnando nella moka poi ne assaggio i bordi amari e bollenti. Il caffè buono si fa in casa, l’ho sempre pensato e lo credi anche tu. Alzo la caffettiera, lo verso nero e caldo in bicchieri di vetro. Ogni gesto rompe per un attimo il silenzio, mentre i pensieri percorrono la cucina e si dissolvono in anelli di fumo. Poso i bicchieri sul tavolo, tu lo dolcifichi con il fruttosio, io con tre cucchiaini di zucchero, un po’ di granelli si spargono sulla tela cerata e li raccolgo col dito. Guardo la tua mano bianca che si avvolge delicatamente al vetro appannato, poi si solleva, ferma. Mi sorridi. Ti sorrido. Non hai più paura, né fremiti. Sembri un fiume, la corrente che fluisce e oltrepassa ogni ostacolo. Per un po’ restiamo così, senza parlare, poi tremi, ma solo per un attimo, ti scosti i capelli e di sorpresa me lo chiedi:

-      Raccontami quel che non è successo quel giorno.
Era da tempo che non riaprivamo quel capitolo sulla nostra mitologia dell’incompiuto. Volto per un attimo lo sguardo, come se accanto a noi, dietro una parete trasparente ci fossero altri me e altri te seduti allo stesso tavolo, e poi noi, ancora noi, moltiplicati più volte, un esercito di ombre, riflesse nello specchio del tempo. Mi sento un intruso, ma lo sconcerto dura poco. Le figure, come carte da gioco, tornano a legarsi l’una all’altra e formano di nuovo la mia e la tua immagine. Ci appartiene anche la vita che non abbiamo vissuto.

-      Ne sei davvero sicuro? – ti chiedo.
-      Sì.

Prendo un lungo respiro e comincio a raccontare. Non è solo la mia versione dei fatti. Da qualche parte in qualche luogo tutto questo è veramente avvenuto:

“I treni arrivarono insieme da città diverse. Le porte si aprirono all’unisono su binari paralleli. Dopo una pasquetta di pioggia battente, il sole di aprile si rifletteva sulle banchine che entrambi percorrevamo con la borsa a tracolla raggiungendo l’uscita. Il punto di incontro era fuori dalla stazione dove, dopo pochi passi in un atrio anonimo, si scende una scalinata e si spalanca spietata Venezia. Ho sempre trovato strano che la stazione di un posto dove ti si illumina lo sguardo prenda il nome da una santa a cui hanno cavato gli occhi, Santa Lucia. Forse perché quella è l’impressione che ha il viaggiatore prima di ripartire, come di una cecità improvvisa. Per un attimo pensai che non ti avrei riconosciuto e ci saremmo confusi tra gli obiettivi sgranati di giapponesi che seguono un ombrellino e i traghetti che rigano il Canal Grande. Invece eri lì, in mezzo alla gente, che fumavi nervoso. Era il tempo in cui non ci eravamo mai visti, ma ci sembrava di conoscerci da sempre. Anche quella fu un’epifania, dare il volto a una voce, carne alle parole. Dopo un primo tentennamento ci abbracciammo per sciogliere la tensione. Eravamo due amici che uscivano dal cerchio magico della comunicazione a distanza scommettendo sulla realtà. Inutile dire che abbiamo parlato a vuoto i primi minuti, come un motore ingolfato che cerca di ingranare. Decidemmo di muoverci a piedi, ma prima di incamminarci abbiamo verificato in tasca di avere i biglietti per il concerto, perché siamo entrambi ansiosi oltre che ottimi camminatori. Ci siamo meravigliati dei pochi manifesti appesi in giro con Sinead che indossa  un camaglio da combattente rasta. Vent’anni fa la gente si sarebbe strappata i capelli per sentirla, ora è lei a definirsi la pazza calva. Intanto abbiamo percorso la Lista di Spagna, traversando il Cannaregio e continuato per la Strada Nova. Su uno dei tanti ponti ci siamo fermati ad annusare l’aria che sapeva di sapone e bagnoschiuma proveniente da un negozio di cosmetici lì vicino. Nei pressi dell’incrocio con il quartiere ebraico ci siamo seduti al tavolino di un bar che dava sui banchi di frutta e verdura del mercato. Lì abbiamo ripreso a parlare, questa volta senza incertezze, come facevamo sempre. Io ti raccontai un’altra volta di come Venezia sia per me una strana città, il posto dei sogni che non si realizzano, di come da bambino la immaginavo coi suoi palazzi di cristallo che riflettevano nei canali la luce dei tramonti. Forse perché l’acqua che la divora non ha la stessa magia dell’acqua che ho dentro, ti dicevo. Tu mi ascoltavi e poi mi spiegavi che per te era diverso, che lì ci avevi in parte vissuto ed era un posto pieno di ricordi. Intanto io mangiavo brioche, tu bevevi birra e fumavi. Ogni tanto ti guardavi le mani macchiate di nicotina che tremavano ad ogni agitazione del cuore. Il concerto si teneva al teatro della Fenice, un posto che io non ero mai riuscito a trovare, come se si incenerisse ogni volta che lo cercavo e poi si rigenerasse dopo il mio passaggio. Tu eri tranquillo perché sapevi come arrivarci. La sera ci trovò lì a chiacchierare senza che ci fossimo preoccupati di fare i turisti, così dovemmo raggiungere il teatro di corsa temendo di fare tardi. Appena entrati ci sembrò di fare un tuffo nel settecento veneziano tra stucchi, decorazioni barocche, l’odore di legno laccato e il velluto rosso. Sul soffitto tra voli di angeli un enorme lampadario incombeva  sulla platea. Noi stavamo in alto su un palchetto laterale ma che sembrava sporgersi come un petalo da una corolla d’oro e affacciarsi direttamente sul palcoscenico. Eravamo così vicini a lei da farci pensare che avrebbe cantato solo per noi. Il concerto iniziò con song to the siren, gli strumenti che sembravano accordarsi armoniosamente con il rumore del mare. La sua voce non aveva il virtuosismo celestiale di Elizabeth Fraser, ma l’esperienza del dolore e i sogni infranti di Tim Buckley. Lei un po’ imbolsita, a piedi scalzi, ma la stessa grinta di una volta. Tra i brani dell’ultimo disco e alcuni classici si inanellavano ricordi, io aspettavo la strappalacrime nothing compares to you (che arrivò in versione acustica), tu l’epica Troy con le sue fenici, rinascite e ritorni (che io ascoltai osservando le magnifiche variazioni di espressione che ti attraversavano il volto). Ma fu un’altra canzone a toglierci il fiato. Pochi accordi di chitarra, organo Hammond, pianoforte e quell’inizio: “Ciao, tu non mi conosci…”. Per un attimo abbiamo galleggiato tra vecchi rosari della nonna e frammenti strappati di fotografie, tutto ha cominciato a fluttuare. Mentre cantava, lei, la “pazza rasata”, Giovanna d’Arco di una serata unica, ritrovava sul suo sguardo l’incanto del cerbiatto e immagini del passato viaggiavano sospese alle sue spalle. Credo che tutti noi in quel teatro abbiamo per un attimo ritrovato e sentito pulsare la dura sensazione di sentirsi un rifiuto gettato in un angolo, incompresi, incatenati ai nostri errori. Sapevo senza guardarti che anche tu stavi piangendo, in uno spazio raccolto di solitudine irraggiungibile, come una domanda d’amore irrisolta, perché solo “se amo qualcuno, potrei perderlo”. La via di uscita a quel dolore insopportabile è nelle parole cantate che danno anche il titolo al brano: “reason with me”, fermati a parlarne con me. Dio solo sa quanti ponti abbiamo costruito attraverso la pianura con telefonate interminabili a cercare di sciogliere nodi, parlare di noi, ridere. Forse avevamo capito tutto senza saperlo, che di fronte al baratro c’è bisogno di un complice, qualcuno che ti ascolti e sia testimone della tua voglia di ricominciare e risorgere”.

A questo punto mi fermo, tu non mi hai mai interrotto. Voglio capire se è una narrazione condivisa o se è solo una delle mie innumerevoli visioni. Poi mi rendo conto che non è così importante, perché mi basta guardarti per ricordarmi di quando avevamo paura e ci ripetevamo “Avanti!” come un mantra  di coraggio e di speranza, di come siamo risorti mille volte come fenici dalle fiamme e abbiamo svolto mille storie, matasse annodate di tribolazione, a volte intrecciate le une a quelle dell’altro, a volte no. Non tutte appartengono a entrambi, ma tutte ce le siamo raccontate, persino quelle che non sono mai avvenute. La nostra amicizia è cresciuta al telefono. E anche quando abbiamo solo sognato, o siamo tornati da quei sentieri di vento che portano ovunque e in nessun luogo, ci siamo seduti da qualche parte, in qualunque posto, a qualunque ora e abbiamo fatto l’unica cosa che siamo davvero capaci di fare: ci siamo fermati a parlare.

(Il racconto è stato terminato 35 ore prima del concerto di Sinead ‘O Connor al Gran Teatro della Fenice di Venezia del 2 aprile 2013. Niente di ciò che vi è descritto è mai avvenuto. Finora).

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