venerdì 24 maggio 2013

Antonio Cervettini - La battaglia del vino


Mio padre era furioso. Mi parlava con occhi spiritati, da matto, quasi fuori dalle orbite. Si era mai visto, diceva, un orto coltivato come Dio comanda senza una vigna degna di questo nome? No, certo che non si era mai visto. Basta! Non era più tempo di indugiare oltre. Ormai era stufo marcio di sorbirsi, di anno in anno, la litania dei contadini dei poderi vicini che magnificavano le qualità del nettare divino che producevano copiosamente solo per il gusto di fargli masticare veleno. Non era più tempo di aspettare la grazia ora di questo ora di quello per riuscire a procurarsi, quando andava bene, trenta o quaranta bottiglie di rosso che sarebbero dovute bastare per tutto un inverno. Avremmo prodotto il vino per conto nostro e io l’avrei aiutato. A che servono i figli altrimenti se non a camminare nel solco tracciato dal padre, imparare da lui e dare una mano per poi un giorno continuare l’opera paterna e magari migliorarla? Questo diceva mio padre e non erano ammesse repliche.
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Sai cosa c’era qui a perdita d’occhio, figlio, quand’ero giovane e mio padre s’industriava di impiantare delle coltivazioni che dessero un qualche frutto, mi diceva sempre quando non aveva troppa voglia di dannarsi appresso alla zappa. Gramigna e canaria e coriandolo puzzolente c’era, a perdita d’occhio. La terra trascurata è come la femmina che non ha più nessuno per cui farsi bella, mi diceva sempre. La terra per dare frutto deve essere accudita, sorvegliata e amata proprio come una donna, hai capito Masi? Io, da allievo disciplinato e timoroso, lo assecondavo cercando di imparare perfettamente ogni cosa per non deluderlo ma il fatto era che avevo altri progetti per il mio futuro e nessuno di questi prevedeva di spaccarsi la schiena sui campi dalla mattina alla sera per niente. E poi detestavo il vino e quindi non me ne poteva fottere di meno se a causa del fatto che il nostro orto fosse sprovvisto di filari a casa nostra si bevesse solo acqua. Per mio padre questa cosa era intollerabile, quasi gli faceva dubitare che io fossi realmente figlio suo. Ma come puoi bere acqua, mi diceva ogni volta che a tavola mangiavamo, che ne so, pasta e ceci, lardo, fave a macco, ragù, fagioli a coccio, patate, salsicce, arrosto, cacciagione e ogni altra pietanza che, secondo lui, per essere degnamente onorata doveva necessariamente essere innaffiata da buon vino rosso, genuino e casereccio s’intende.
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Novembre aveva accorciato le giornate e portato il freddo e l’umido che per la terra sono un toccasana ma per le ossa dei contadini sono solo dolori che si risvegliano. Mio padre era in fermento già da settimane. Aveva sistemato il terreno che doveva accogliere il vitigno, dissodato e livellato, levato erbacce e radici, e infine aveva scelto l’orientamento più adatto per la palatura. Ora si poteva procedere con l’impianto dei tralci in maniera che le piantine avessero il tempo di radicare e farsi la scorza sufficiente per resistere alle sferzanti frustate del sole estivo.
Ritto in mezzo alle foglie sembrava officiare messa, solenne e benedicente tra una folla di fedeli. Io lo seguivo silenzioso e assecondavo i suoi comandi secchi come un timido chierichetto che tema di fare continuamente la mossa sbagliata ma lui era troppo indaffarato per avere anche il tempo di bacchettarmi per la mia inadeguatezza di lavorante.
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Quell’inverno il vigneto prese forma e vita e tutto sembrava procedere nella direzione voluta sennonché per i primi tre o quattro anni non si vide un solo acino. Le piante sembravano il ritratto della salute ma, purtroppo, assolutamente sterili. Mio padre era fuori dalla grazia di Dio. Non riusciva a produrre una sola goccia di vino e, d’altro canto, non poteva più procurarselo da uno dei suoi compari senza essere malamente dileggiato per quella vigna renitente.
Al quinto anno di vana attesa del miracolo prese una decisione. Doveva fare qualcosa che lo distogliesse dal proposito di salire sul trattore e spianare quella maledetta piantagione che s’era ingoiata ore e ore di lavoro e sudore e cure senza sentire il bisogno di ricambiare tanta devozione con il benché minimo segno di gratitudine.
Una mattina mi buttò giù dal letto che l’alba aveva appena fatto capolino dietro le montagne. L’orto era ancora immerso nel torpore notturno. Mi condusse sull’aia della casa colonica, al pergolato che era carico d’inzolia matura al punto giusto e, fino a quando il sole non fu alto sopra le nostre teste, non facemmo altro che raccogliere grappoli del colore dell’oro zecchino tanto da riempire sette ceste colmate fino all’orlo.
Io ancora non capivo bene: voleva forse fare del vino bianco? Ma lui aveva in serbo un colpo di genio.
Poco distante dal vecchio noce secolare c’era qualche piantina di occhio di pernice.
Ne ricavammo non più che tre o quattro panari. Con questi gli daremo colore e tono, sentenziò come un invasato mio padre, e il bello è che il vino venne di un rosso rubino mai visto e di ottima struttura al palato, con un aroma fruttato che inebriava.
Fu così che imparai ad amare il vino, semplicemente amando mio padre.

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