venerdì 24 maggio 2013

Andrea Vecchio - 17 Dicembre


I rumori delle automobili verso la fine del viale, che arrivava quasi ad incrociare la circonvallazione, arrivavano come appartenenti ad un altro mondo. Il ghiaccio faceva il resto. La neve aveva quasi raggiunto il centro delle carreggiate, partendo dai marciapiedi pesantemente illuminati da antropomorfici lampioni, ma era stata bloccata dal gelo della mattina precedente. Il cielo era diventato d’un tratto sereno appena iniziarono, quel 17 dicembre, le ore pomeridiane. Ore pomeridiane appartenenti di diritto a chi, quel sabato, stava per affollare i centri commerciali per i regali natalizi. Non vi erano poveri o ricchi, tutti avevano gli identici bisogni: gli stessi nefasti desideri di arrivare indenni all'8 gennaio per poter riprendere, con servile innocenza,le attività quotidiane.
Il buio cominciava già a contornare le luci e gli oggetti ghiacciati.
L’ispettore Stefano Quondamatteo  era seduto in una vecchia Passat station wagon  e sfogliava avidamente la sua agenda laccata di nero. Sembrava umida e sporca. Sull’agenda si era sempre appuntato ogni cosa, anche prima di entrare in Polizia, di diventare un militare. Ogni indirizzo, ogni numero, ogni riferimento. Persino le citazioni ascoltate durante una serata trascorsa a guardare un film o i prezzi delle bibite nei vari bar. A fine anno, quella povera agenda non ne poteva veramente più. I suoi compagni di università lo chiamavamo "sbirro", gli dicevano che lo sarebbe presto diventato. Ci tentennava le dita, la sfogliava avidamente anche quando non ne aveva realmente bisogno,  la sbatteva sulle scrivanie in centrale  ed  in testa ai suoi colleghi per prenderli in giro, alle volte la mordicchiava agli angoli: ecco cosa faceva Quondamatteo alla sua agenda.  Aveva sempre voluto sapere tutto. Ogni cosa, e non solo per lavoro. Quel modo era un modo affettuoso per far sì che la sua agenda capisse di essere di vitale importanza, nella sua vita. Ne era così geloso che alle volte persino Margherita veniva rimproverata qualora ci indugiasse troppo attorno.
L’egiziano sedeva accanto a lui, al posto del conducente, girandosi una sigaretta ancora da accendere tra le dita, nerborute ma leggere e sapienti. Era veramente piccola, quella sigaretta, in confronto alle sue dita. Aveva delle enormi occhiaie e i capelli rasati a spazzola. Quondamatteo non poteva fare a meno di guardargli le mani: sagge, vissute, sporche di chissà quali discordie. Mani che sicuramente si erano guadagnate il pane in modo onesto durante la loro vita, prima di diventare le mani di un qualsiasi informatore  della polizia.
<<Derek non mangia più, non sta più mangiando da giorni ormai  >> si rivolse al poliziotto dopo alcuni minuti di silenzio
<<Chi cazzo è Derek?>>
<<Il mio gatto, te ne ho già parlato, no? >>
<<Non me ne frega un cazzo del tuo gatto Derek. E non me ne hai mai parlato, no. >>  non gliene importava veramente un cazzo, del gatto Derek. Gettò lo sguardo verso la strada gelata ed i lampioni che sembravano arbitri  di tennis, decidendo di aver voglia di cibo schifoso, da infimo take away, come non ne aveva mai mangiato prima. Di quel cibo che ti fa rimanere il puzzo addosso per giorni, sino a quando non lavi i vestiti, magari facendo anche una lavatrice esclusivamente per quei vestiti intrisi di puzzo di schifo, di olio, di freddo, di catarro e di schifo.
Il lavoro di quella sera sarebbe stato veramente un lavoro di merda. L’Egiziano era l’unico a sapere cose fosse veramente successo dai Castello, due giorni prima del loro incontro. Si ritrovavano lì, l’uno giocherellando con una sigaretta e l’altro ad annusare il rumore delle pagine scritte di un’agenda. Avrebbe dovuto prendere un giorno di ferie per poter gestir meglio la cosa, nessuno gli avrebbe rotto il cazzo con telefonate riguardanti i turni della settimana entrante, le vacanze natalizie, i rapporti che avrebbe dovuto firmare. Né tantomeno gli avrebbe rotto il cazzo Fabbri, il suo superiore, l’ispettore capo Fabbri. Si era laureato appena due anni prima di lui e in università non lo avevano mai preso in giro.
<<Piuttosto, non te la fumi, quella sigaretta? >> inquisitorio.
<<Calmati, Stefano. >> disse l'egiziano alzando le mani in segno di resa
<<Non chiamarmi Stefano! >>
<<D’accordo, amico. >> abbassò le mani.
<<Nemmeno amico!>>
Pensava alle puttane, Quondamatteo. A quelli che ci vanno, a quelli che sognano di farlo ma non possono perchè ricoprono un qualche ruolo, a quelli che le ammazzano perchè troppo ingordi. Aveva risolto anche dei casi, sulle puttane. Aveva beccato gente nei bar che se ne fotteva, di averne ammazzate. Aveva beccato infami che avrebbero tagliato gole per una mezza soffiata riguardante le puttane, e li aveva sbattuti dentro.
Quando Margherita gli disse che sarebbe venuta a star da lui fu invaso dalla paura di non poterle far trovare una casa in ordine. Aveva sempre voluto il massimo, per lei. Qualsiasi cosa avrebbe dovuto avere una corretta dislocazione, Margherita doveva sentirsi a proprio agio in tutto. Non che fosse una persona disordinata, Quondamatteo: era solo angosciato. Aveva persino paura che i suoi libri sapessero di palude, di polpastrello. Per questo non voleva che lei sfogliasse i suoi libri, magari mentre lui era al cesso o mentre dopo aver fatto l'amore rimaneva con lo sguardo sullo stipite della porta della camera da letto.
<<Colore della macchina?>>
<<Scura, sul bianco scuro>>
<<Come cazzo fa il bianco ad essere scuro? Un bianco scuro è grigio. O al limite sporco.>>
<<Sei un poliziotto o sei un filosofo?>>
Quondamatteo si promise di non guardarlo. L'egiziano continuò.
<<Te lo domando perchè,amico, noi siamo stati gli inventori della filosofia: a scuola qui in Italia ti insegnano i Greci, ma i Greci hanno imparato da noi, sulla filosofia.>>
<<Non chiamarmi amico. Uno. Due, non parlarmi tu di filosofia quando hai scelto per mestiere di fare l'informatore. Ti ho solamente chiesto di che colore è la macchina.>> .
Gettò uno sguardo all'agenda, che nel mentre aveva appoggiato sui sedili di dietro.
<<Grigia, ma più bianco scuro.>>
<<Va bene, ho capito>>
Era rimasta della neve, ai bordi della strada, ancora miracolosamente pulita. Non era scesa molta ma quel poco era bastato per far sì che qualcosa di bianco potesse perdurare nel tempo, senza che lo smog e la terra sollevata dai camion lo intaccasse. Era un vero miracolo. Quondamatteo da piccolo non metteva mai i guanti, quando usciva a giocare nella neve. Voleva sentir male alle mani, male ai palmi delle mani. I suoi amici potevano resistere ore a giocare nella neve, lui solo poche decine di minuti. Voleva tornare a casa e mettere le mani sotto l'acqua bollente del rubinetto del bagno, sino a che il contrasto tra gelo e caldo non si fosse trasformato in dolore, un dolore che avrebbe invertito i ruoli.
<<Vai in vacanza a Natale?>>
<<Sei diventato un sindacalista?>>
<<Amico, te lo sto solo chiedendo, Dio sa quanto tempo dobbiamo passare qui seduti nella tua macchina.>>
<<No,non ci vado. Le solite cose: cena, pranzo, cose così.>>
<<Con la tua fidanzata?>>
<<Non ti riguarda. Comunque sì.>>
L'unico difetto della sua fidanzata erano le finestre aperte. Lei le teneva così. Aperte. Lui entrava in casa come uno sbirro di merda alle nove di sera di un giorno qualsiasi di dicembre e le finestre erano aperte. Lei imbacuccata, leggendo a letto. Ma le finestre aperte. Lui entrava in casa, metteva il telegiornale, le calze ancora su, e dopo un quattro minuti le chiudeva pensando <<Che cazzo>>.
Quondamatteo iniziava a sudare e a pensare al cibo di Natale. Al fatto che probabilmente, a Natale, Margherita gli avrebbe risposto sul venire a star da lui. Magari davanti ai suoi genitori, tra uno sbaciucchiamento e l'altro, tra un tanti auguri e un grazie.
Le macchine iniziarono a transitare più rade, sia lungo il viale sia in lontananza, sulla circonvallazione. Era quasi ora di cena. I giorni prima delle festività Natalizie sono implacabili quasi come quelli appena dopo: la gente pensa di essere in ritardo ma in realtà non lo è. Quondamatteo iniziava a sentirsi solo. Nessuno messaggio sul cellulare dai colleghi, nessuna idea da parte di Margherita.
Iniziava, peraltro, a sopportare poco la sua passione per il Teatro. E non perchè fosse un poliziotto. Sapeva qualcosa riguardo al Teatro ma aveva sempre sostenuto che chi facesse Teatro sapesse scopare meglio di lui. Poteva magari essere attratto da una trama, ma alla fine i suoi pensieri andavano sempre a parare lì: gente che sapeva vivere, che era sempre in giro, che non aveva mai dovuto render conto a nessuno. Mentre lui appena finita l'università aveva iniziato a sparare, a fare pesi, a non uscire se non per una pizza ed una Coca-Cola. Non era geloso degli amici teatranti di Margherita, ne era solamente innervosito. Ad inizi carriera era stato mandato in servizio a varie manifestazioni, eventi e robe da comunisti, come infiltrato. Aveva avuto tutto il tempo per osservare chi, secondo lui, era interessato al teatro e chi no. Quelli che lo erano sorridevano, fumavano marijuana ed erano pieni di ragazze. Quelli che non lo erano tiravano ai suoi colleghi, schierati e pronti a caricare, ammassati come montoni pronti al macello, sassi e bottiglie di vetro.
Passavano poche macchine, e l'egiziano si accese la sigaretta.
<<Dà fastidio?>> chiese.
<<No>> Non gli diede fastidio perchè era intento ad ottemperare le imperfezioni delle sue mani. Le unghie sporche e dai bordi rossastri, le rughe profonde, le nocche severe e biancastre.
Si girò verso l'agenda, un’occhiata anche fuori dal finestrino: una periferia di un nulla ancora più periferico, una fetta di mondo in bilico tra il ridicolo e l'efferatezza. Guardò ancora le mani dell'egiziano,la sigaretta stretta per il lungo tra indice e medio,le dita  profumate,le unghie calde, sporche e rovinate: ne era quasi attratto. Per un attimo si sentì investito dal dovere di chiedergli scusa per come l'aveva trattato quella sera e svariate sere di svariati mesi fa, ma i suoi sentimenti altruisti da sbirro buono vennero interrotti dal fragore di neve che si sfracella, tanta neve che si sfracella sotto un peso enorme, un rumore sordo e malefico come quello che si sente quando si parla di iceberg  nei documentari sullo scioglimento dei ghiacci. Solo che Quondamatteo e l'egiziano non erano al Polo Nord né tantomeno in Patagonia.
Qualcuno entrò nel parcheggio. Le ragnatele ghiacciate penzolavano dalle luci dei lampioni. Erano circa le otto e mezzo di sera, la gente seduta a cena già assaporava avida il becchime natalizio che sarebbe arrivato di lì a pochi giorni. Nel frattempo, nel parcheggio, il ghiaccio aveva fatto in tempo a riformarsi all'ingresso dallo stradone, da quando l'ultima macchina,la loro,vi aveva fatto ingresso. Qualcuno entrò nel parcheggio a bordo di un'enorme macchina rossa, così velocemente che Quondamatteo non riuscì nemmeno a riconoscerne il modello; la sua mano destra sull'agenda gettata sui sedili di dietro, la sua mano sinistra sulla pistola. Il pensiero ossessivamente rivolto alle mani dell'egiziano, su cosa stessero facendo in quell'istante. Il suo compagno era atterrito, guardava fuori dal finestrino in maniera morbosa e velatamente cauta, cercando nella tasca destra il pacchetto di sigarette che aveva gettato fuori dal finestrino cinque minuti prima.
La macchina si fermò, motore e fari ancora accesi, a venti metri dai due.
<<Sono loro?>> chiese l’ispettore all'egiziano.
<<Penso di sì, dottore>>
Il motore si spense, i fari ancora no.
<<Non doveva essere bianca, la macchina?>>
<<Non lo so, dottore. A me è stato detto una macchina bianca, bianca e scura>>
<<Rossa>>
<<Rossa, è rossa, la vedo che è rossa, dottore.>> annuì l'egiziano alzando le mani in segno di resa, un'altra volta.
Si aprirono le due portiere anteriori, simultaneamente come nei film. Scesero due uomini ricoperti da abiti scuri, due uomini di piccola statura, dai movimenti inquieti ma risoluti. Uno dei due teneva in mano qualcosa. Non una pistola di sicuro. Un telefono. Lo portò all'orecchio e squillò qualcosa all'interno della loro Passat. Era il telefono dell'egiziano, che rispose. Teneva il cellulare attaccato all'orecchio, schiacciato da quelle sue dita enormi.
<<No, non sono da solo. I patti erano chiari.>>
Alzò la voce, l'egiziano.
<<Se le cose stanno così non andiamo bene. Scendiamo. Sì, siamo qui.>>
Quondamatteo voleva finirla al più presto. L’egiziano scese dalla macchina, si strinse nel cappotto di renna senza allacciarlo e raggiunse i due uomini, cercando di non scivolare sul ghiaccio. Si misero a discutere. Il poliziotto lo vide alzare la mano in segno di arrendevolezza, innocenza. <<Me lo sta mettendo nel culo>> pensò <<Ho sempre odiato gli informatori>>. Sorrisi. <<Sì, mi ha fregato.>>
Ad un tratto, però, uno degli uomini afferrò l’egiziano per il collo, si mise ad urlare qualcosa di incomprensibile e gli sbattè la testa contro il tetto dell’automobile rossa. L’egiziano trasalì, Quondamatteo aveva già una mano sulla maniglia della sua macchina e l’altra, la sinistra, sul ferro. Gettò uno sguardo e vide la mano dell’egiziano avventarsi sull’uomo che lo stava ancora minacciando, stringendogli la gola. Aveva quasi raggiunto il suo volto ma questi, estratto un coltello dalla tasca del suo impermeabile scuro, gli trafisse il palmo, come uno stuzzicadenti l’oliva,ed iniziò a brandirlo selvaggiamente, ostentandone ogni debolezza. Quella mano che non più di cinque minuti prima stava fissando, quella mano che giocherellava con la sigaretta in modo così immeritevolmente perfetto.
Ci fu un urlo straziante, Quondamatteo chiuse gli occhi e si fece coraggio, provando ad uscire dalla macchina.
<<Fermo.>> sentì, una voce placida. Alzò gli occhi e notò solamente le ragnatele gelate che penzolavano da un lampione, arbitro di un doppio di tennis, mosse dalla brezza invernale.























Nessun commento:

Posta un commento