venerdì 31 maggio 2013

Melania David - Andiamo

Guardò fuori dalla finestra. Splendeva il sole, il cielo era azzurro e sereno, piccole nuvole danzavano lentamente. Guardò le case che circondavano il cortile, che la ghermivano come un uccellino sotto l'ala di un feroce falco. Guardò i panni stesi sotto il sole della primavera, poteva sentire l'odore di pulito che emanavano anche a distanza. Poteva immaginarlo e immaginarne la consistenza, poteva sfiorare con le dita la materna sicurezza di una tovaglia bianca su una tavola ricca di vivande. Immaginava le macchie di olio, le briciole di vita, gli schizzi di quotidianità. Un bambino aveva dimenticato il triciclo all'angolo di un balcone, forse era andato a giocare, forse era diventato troppo grande per quel piccolo mezzo. Magari era cresciuto ed era andato via, in cerca di lavoro o di chissà cosa. Cosa si cerca quando si fugge via, ammesso che si cerchi qualcosa? Lei cosa aveva cercato?
Sugo della domenica e detersivo. Il cortile era ordinato e pulito, le foglie sradicate erano state spazzate, le automobili erano disposte esattamente all'interno del perimetro prestabilito. Eppure la vista di quel cortiletto le dava una nausea fastidiosa. Cristiano le aveva detto che magari, vista la poca distanza che
separava fra loro i balconi, avrebbe potuto scorgere un tranquillo pensionato che faceva la moglie a pezzettini, curvo su un sacco nero ne nascondeva i resti e poi usciva a prendere il caffè. Oppure, senza farsi
scoprire, avrebbe potuto spiare la signora del quarto piano dare un bacio furtivo al proprio amante, accompagnarlo alla porta col trucco che si scioglieva assieme al cuore. Insomma potevano fare gli allegri
guardoni e spiare quell'umanità inconsapevole, sporca e pulita, cogliere istantanee di vita altrui.
Probabilmente Cristiano cercava di farla ridere, ma spesso il risultato non era quello sperato.
Lei guardava il triciclo abbandonato, le sembrava un orribile sacrilegio il fatto che fosse stato abbandonato così. Non si abbandonano le cose care, pensava, non si scappa via.

Lei era scappata, per salvarsi, come pensava sempre per giustificarsi con se stessa. Per imparare a guidare la macchina nel traffico o per sbattere per strada contro passanti distratti e sconosciuti. Aveva portato via con sé vestiti, libri e dischi. Aveva appeso stampe e quadri seguendo una scoraggiante disposizione mancante di coerenza e simmetria tali da apparire persino studiata. Aveva messo le sue piante in vasi nuovi, più grandi. Crescevano rigogliose anche sotto un sole diverso. Aveva fatto attenzione a non danneggiarne le radici. Sbocciavano bellissimi fiori colorati che oltraggiavano la vista con i loro lussureggianti colori, ne contava di nuovi ogni mattina. Le sue piante avevano messo nuove radici, più forti e si erano adattate. Le sue piante si prendevano gioco di lei.

Aveva portato con effetti personali utili e inutili, tuttavia rimaneva il sospetto di aver dimenticato qualcosa. Se stessa, come le suggeriva opportunamente Cristiano.
"Il dentifricio." rispondeva lei.

Preparava la cena tenendo la finestra chiusa, il circondario non avrebbe potuto godere delle deliziose esalazioni provenienti dalla sua cucina. A stento lei salutava in ascensore, figurarsi.
"La cena è talmente buona che vuoi rimanga su tende e divani per sempre?"
Con un sorrisetto sarcastico Cristiano le porse una rosa. Gialla, come piacevano a lei. Rose macchiate di sole. Aveva degli scatoloni in mano, disse che dopo cena li avrebbe sistemati, contenevano libri di poesie che aveva letto da ragazzo, glieli aveva spediti la madre. Perché loro due non facevano mai ritorno al paese di provenienza. Nell'eventualità avrebbero potuto prendere fuoco, iniziare a parlare lingue estinte al contrario, insomma potevano accadere eventi inaspettati e spiacevolissimi. Questo era quello che lei credeva.
Non tornavano nemmeno per aver voglia di riandarsene.
"Sto dimenticandomi me stessa." aveva esordito mentre lui assaggiava il sugo.
"L'importante è che non dimentichi di mettere lo zucchero nella salsa." Rispose lui ingoiando pensieroso.     Lui era così incredibilmente razionale, un vergine ascendente sagittario con i fiocchi, docente di storia al liceo, con la sua giacca di velluto marrone e la sigaretta tra le dita. Anche lei teneva una sigaretta tra le sottili dita, ma non era una donna razionale.
"Potresti appendere la patente sopra il comodino, così ogni mattina ricorderesti chi sei, comunque non guidi, almeno ne fai un uso proficuo. Certo se poi dimentichi i tuoi dati anagrafici anche durante il giorno occorre trovare un'altra soluzione . . . ". Lui era anche così incredibilmente irritante.
"Cristiano" lo interruppe lei "Potrei aver messo il cianuro nella salsa."

"Leggevi queste poesie quando andavi al liceo?"
Cristiano riponeva in ordine alfabetico i volumi negli scaffali già stracolmi.
"Si e poi uscivo nel cuore della notte e cantavo serenate di fortuna sotto le finestre delle mie amanti. Erano bionde e gentili."
"Io non sono gentile?"
''Tu sei gentile solo quando sei felice."
Ordinavano e catalogavano come due generali che preparano un esercito alla guerra, metodici e ordinati, perché Cristiano voleva così. Tanti anni fa non possedevano scaffali, non possedevano nemmeno una casa di loro proprietà, bevevano cioccolate calde e caffè cornetti in bar con le vetrate sporche. Cristiano aveva i capelli lunghi, era meno pignolo e meticoloso, le dava piccoli baci vicino i lobi delle orecchie. Le aveva promesso che sarebbero andati via da quel cemento che ti consuma e ti logora, che non ti offre alcuna possibilità per il futuro e che sarebbero stati felici. La promessa si rivelò vera solo in parte.
"Perché insegni storia se ti piaceva tanto la poesia? Anche la tua tesi era su un poeta, chi era, Saba? Perché non sono felice?" chiese tutto d'un fiato e mantenendo inalterato il tono di voce.
Cristiano aveva capito da un po' di tempo che le mancava qualcosa. Avevano un bell'appartamento, non grandissimo ma grazioso, l'aveva arredato lei, avevano un'automobile per non sentirsi poveri ma erano restii a utilizzarla, avevano un frigorifero pieno e si trovavano nella parte del mondo giusta. Ma non erano a . casa. Quella mattina era morto un suo collega, aveva trentasette anni, un grande neo sul collo e aveva lasciato il gas aperto dai fornelli. Era sbadato. Ed era infelice. Si era trasferito in citmolti anni prima, quand'era uno studente; Cristiano condivideva con lui il vizio del fumo e la passione per la musica jazz. La cosa l'aveva reso molto triste ma non era riuscito a parlarne con la sua donna.
"Pasolini non va dopo Sylvia Plath." Lei stava riponendo i libri alla rinfusa.
"Ma Pasolini non lo leggi mai… " Cristiano la fissò. Perché avrebbe dovuto guastare quel piccolo sorriso biondo infantile con i propri tristi pensieri?
"Potrei ricominciare a leggerlo da stasera" annunciò.
Sfogliando le pagine consumate ritrovò asterischi e sottolineature, ritrovò i suoi vent'anni e il piccolo paese da cui provenivano, nel quale non facevano ritorno da molti anni ormai. Forse anche lui aveva dimenticato il dentifricio e doveva andarlo a prendere.

Purtroppo nessun vicino aveva atteggiamenti omicidi sospetti su cui fantasticare e la signora del quarto piano sembrava fedele al marito.
"Ricordi le sere d'estate, le birre tracannate sulle panchine in piazzetta, i discorsi sulla politica..."
"No, ma ricordo la piccola bruna che ti mangiava con gli occhi mentre facevi discordi da Che
Guevara..."
Cristiano sapeva che in realtà anche lei ricordava, lo capiva da come fissava le maledette piante. Lei non aveva dimenticato le proprie radici, anzi era proprio dal suo cuore che partivano, per questo le faceva male.
"Insegno storia perché era l'unica cattedra a disposizione e perché la storia è più clemente. Un susseguirsi di vinti e vincitori, evoluzione ed involuzione. La poesia, invece, ti fa fare i conti con i tuoi fantasmi, ti smaschera."
"Fammi vedere" incallei.
Cristiano sorrise. Uscì dalla camera e tornò poco dopo con un taccuino in mano.
"Era nello scatolone" disse e, dopo averlo aperto, cominciò a leggere:

Ed io non ricordo più chi sono.
Allora di morire un poco mi dispiace.
Di morire mi pare troppo ingiusto.
Anche se non ricordo più chi sono.

"Sandro Penna?" chiese lei.
Cristiano annuì. Lui ricordava perfettamente chi era. Era un ventenne con degli ideali, non possedeva una macchina perché non poteva permettersela ed era innamorato di una ragazza magra e dal volto imbronciato, Viola.
"Viola" le disse "stamattina un mio collega si è tolto la vita. Non si sa perché l'abbia fatto. Questa cosa mi ha fatto parecchia impressione."
Lei si alzò e andò immediatamente ad abbracciarlo. Lui si lasciò cullare, poggiandole il capo sul petto. Era da mesi che non si stringevano così, l'uno all'altra.
"Ricordi la villa dove ci siamo dati il primo bacio, quindici anni fa? Ricordi le rose gialle tutto intorno? Ricordi?"
Lei non disse nulla. Ne sentiva l'odore di quelle rose bagnate di sole.
La signora del quarto piano versava del vino rosso in un calice di vetro. Forse aveva davvero un amante. Forse dovevano tornare a casa, forse la panchina sulla quale si erano scambiati il primo bacio era ancora lì.
"Solo per qualche giorno" disse lei. Cristiano mosse il capo su e giù annuendo, ancora tra le sue braccia, pensando che quelle esili braccia bianche erano la sua casa, ovunque si fosse trovato. Ora, assieme, erano abbastanza forti da far ritorno. O troppo fragili.
"Dovrai trovare qualcuno che badi alle piante..." le suggerì.
Viola pensò alle radici che tengono in vita le piante, succhiano il nutrimento della terra e alla terra sono ancorate. Anche loro avevano delle radici, ancorate a chilometri di distanza e inaspettatamente forti.
Sentiva il peso di quella fuga, di quell'abbandono, come se a essere stata abbandonata fosse stata lei stessa.

"Andiamo per restare o per riandarcene?" le chiese Cristiano.
Ma lei non era una pianta, aveva radici ma voleva essere libera di andare.

"Andiamo" rispose semplicemente.

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