Un flash illuminò d'improvviso l'ufficio al settantaseiesimo
piano dell'edificio che ospitava lo IHED, l'International Human Engineering
Department. Quel segnale luminoso, lanciato per avvertire dell'atterraggio
dell'ennesimo drone-taxi comandato tramite satellite, durò solo pochi secondi e
poi sparì. Scienziati e ingegneri, come se nulla fosse, continuavano la loro
attività di ricerca, insensibili a quel lampo di luce che, solo per un breve
istante, aveva rischiarato il cielo di Neo Urbs, ormai perennemente nascosto
dietro a un sipario nero di nebbia e smog. Deucalion, come tutti i suoi
colleghi ai piani inferiori, proseguiva imperterrito il suo lavoro, chino sulla
sua creazione. In virtù dell'importantissimo progetto che gli era stato
affidato era riuscito a ottenere l'utilizzo del laboratorio all'ultimo piano
del grattacielo del Dipartimento, il più ambito perché, grazie alla sua
smisurata altezza, era in grado di offrire una luce naturale che, a
mezzogiorno, quasi bastava per poter lavorare senza dover ricorrere
all'illuminazione elettrica.
Di fronte a lui, seduta sul tavolo da lavoro sotto la fredda
luce al neon, si poteva distinguere la sagoma di una donna. Dall'estremità
inferiore del tavolo spuntavano i suoi bianchi piedi lasciati cadere a
penzoloni, nudi. Le sue caviglie, sottili e ossute, quasi sfioravano con una
noncuranza lasciva l'interno dei polpacci di Deucalion. I suoi capelli corti, a
caschetto, di un lucente color ebano, lasciavano scoperto il lungo e sinuoso
collo e le spalle minute.
“Sono così piccole... così delicate” disse Deucalion a voce
bassa, mentre passava con le sue mani proprio su quelle spalle e poi,
lentamente, scendeva, indugiando nell'incavo del gomito, sui polsi fragili,
fino ad arrivare alle sue docili mani. Le fissò a lungo, quasi contemplandole,
accarezzando con un tocco impercettibile ogni singolo dito della mano destra
della silenziosa fanciulla, come se ne stesse controllando la forma perfetta.
Si soffermava su ogni falange, ogni nocca, ogni unghia. Ne ammirava la forma ovale
e la lucentezza e le accostava alle sue labbra, come per assaporarle piuttosto
che baciarle. La donna si lasciava toccare, silenziosa e immobile; l'altra mano
abbandonata stancamente sul suo stesso grembo.
“Mi stringeresti la mano?” chiese l'uomo con tono di
preghiera mentre alzava il suo sguardo, solo il suo sguardo, per affondarlo
negli occhi neri di lei, che lo fissarono a loro volta senza far trasparire
alcuna emozione. “Ma certo, che sciocco...” continuò Deucalion, mentre le dita
della donna, fredde, rimanevano inerti tra le sue “Ancora non puoi farlo...
ancora non sei completa”. Lo sguardo della donna rimase spento, muto.
“La mia Galatea...” disse, sospirando. Posò la mano destra
della donna accanto all'altra e si voltò, pronto a riprendere il lavoro da dove
lo aveva interrotto. Aveva iniziato il Progetto Pygmalion ormai quasi tre anni
prima con un team di scienziati che avevano curato assieme a lui le fasi
iniziali del lavoro. Galatea era il primo esperimento dello IHED e tutto, fino
ad allora, era andato per il verso giusto: rimaneva, ormai, da completare solo
la fase finale del progetto, della quale Deucalion era l'unico responsabile,
essendo l'unico membro del gruppo di lavoro esperto di Ingegneria
Antropomeccanica. Lavorava senza sosta da mesi e la sua opera era finalmente
quasi completa. Le parti meccaniche erano già state collaudate e il sistema di
impulsi elettrico-nervosi era già installato: doveva solo essere tutto
collegato e avviato e lei... si sarebbe animata.
Eppure c'era qualcosa che ancora le mancava.
Deucalion conosceva alla perfezione tutto di lei: aveva
passato ore e ore a crearla. Il Dipartimento non gli aveva permesso di
utilizzare come modello il calco di una donna realmente esistente, ma gli aveva
fornito un elenco ben preciso di tutte le qualità ideali da riprodurre: le
misure, l'altezza, il peso, il colore della pelle, dei capelli, degli occhi...
E così, quando guardava i suoi fianchi, Deucalion si ricordava la fatica che
aveva fatto nel dare loro la giusta forma armoniosa, quando guardava il suo
viso, si rammentava la difficoltà che gli era costata lavorare al suo naso e
alle sue guance, e quando guardava il suo seno non riusciva a credere che
quella perfezione potesse essere stata creata da lui.
Ma la parte che preferiva in assoluto erano le sue mani:
piccole e delicate, erano l'unico pezzo sul quale, forse per errore o per
dimenticanza, non aveva ricevuto indicazioni particolari da parte della
Direzione e, paradossalmente, era quello per il quale aveva speso più tempo e fatica.
Le aveva studiate a lungo, le aveva immaginate, progettate, e poi le aveva
costruite in modo tale che si armonizzassero perfettamente con le sue. Le mani
di Galatea lo tormentavano: erano la prima cosa che guardava di lei quando,
ogni mattina, arrivava al laboratorio, e certe volte, durante il resto del
giorno, senza nemmeno accorgersene, si trovava incantato a fissarle per interi
minuti. Mentre terminava le sue rifiniture degli altri pezzi, con la coda
dell'occhio le controllava, come se si aspettasse da un momento all'altro che
prendessero vita. Erano troppo perfette, troppo vere per essere sempre così
immobili. Le sue mani non smettevano di assillarlo nemmeno la notte; le
immaginava tiepide e setose intrecciate alle sue, le sognava mentre, delicate e
al contempo voluttuose, gli esploravano il petto, gli accarezzavano i capelli,
lo stringevano.
L'aveva immaginata viva così tante volte che ora che il
Progetto era concluso non riusciva a decidersi ad animarla. Si trovava a
tergiversare con i superiori per rimandare i tempi di consegna, a inventare
contrattempi, a trattenersi sempre di più in laboratorio per stare con lei. Era
la sua creatura e l'amava, l'amava davvero, come non aveva mai amato nessuna
donna vera. Le riponeva le ciocche di capelli dietro alle orecchie e immergeva
il suo naso tra quella scura, morbida nuvola, cercandone il profumo. Le
accarezzava il volto e passava le dita sulle sue labbra, per imprimersi nella
sua mente la consistenza, il colore, la forma, e non poteva fare a meno di chiedersi
se quel bocciolo di silicone avesse un suo peculiare sapore, o se tra i suoi
candidi denti, fosse racchiusa una risata particolare. Affondava avidamente le
dita nelle nude cosce e si stupiva della loro elasticità. E quando le sfiorava
il bianco seno, la sola cosa di cui si meravigliava era che il suo petto non si
alzasse e abbassasse ritmicamente e che, al suo interno, non vi fosse racchiuso
un cuore tonante.
Quanto sudore speso per assemblarla, quanta fatica! E lei
era sua, la sua Galatea.
Era pronta, ma per lui non era ancora completa.
L'ultimo pezzo era di fronte a lui, che aspettava solo di essere inserito. Un
pezzo del tutto superfluo, che non era stato nemmeno richiesto dalla Direzione,
ma che Daucalion aveva insistito a produrre: il suo cuore. Deucalion era lì,
immobile, eppure in fermento, e teneva nel suo palmo il cuore di Galatea, e
immaginava come sarebbe stato quando lei glielo avrebbe donato.
Quanto della sua vita era stata assorbita dalla non vita di
Galatea! Quanta dedizione, quanto amore le aveva dedicato!
L'aveva desiderata, progettata, programmata, assemblata.
Galatea era la sua Eva, e lui aveva ormai terminato la sua Creazione, aveva
concluso la costruzione del suo primo... amore.
E ora era lì, pronto a inserire l'ultimo ingranaggio, e a
vedere finalmente riaffiorare la vita dalle profondità dei suoi occhi neri. Ma
come lo avrebbe guardato? Avrebbe riconosciuto il suo padre, il suo Creatore? E
sarebbe riuscita ad amarlo, molto più di un padre? Avrebbe mai provato gli
stessi sentimenti che provava lui, gli stessi desideri?
E se la sua costruzione fosse stata vana, laboriosa e
fragile come un altare di sabbia in riva al mare? Se invece gli occhi di
Galatea fossero rimasti neri, profondi pozzi vuoti, mai in grado di ricambiare
il suo sguardo, come avrebbe potuto sopportarlo?
E se dopo tanto amore lei fosse stata finalmente viva e
libera, libera perfino... di non amarlo?
Un drone lucente e accecante illuminò d'improvviso i
pensieri di Deucalion. Un solo, brevissimo istante di luce, e poi di nuovo il
solito cielo nero, nero e vuoto e spento e soffocante e opprimente e
claustrofobico come gli occhi profondi di Galatea.
E così Deucalion posò nuovamente nel suo contenitore il
cuore di Galatea e lo distrusse, poi si voltò verso di lei e fece altrettanto.
La ridusse letteralmente a pezzi, strappandole le piccole orecchie, e i suoi
morbidi fianchi, e il suo seno perfetto, e le sue gambe bianche e i suoi neri
occhi profondi.
I colleghi lo trovarono ancora stordito, la mattina
seguente, tra i resti del corpo di Galatea, dopo essersi insospettiti per non
averlo visto convalidare il suo pass di lavoro. Tra le sue mani stringeva
ancora la mano destra della donna, piccola, delicata, fredda e inerte, che
combaciava perfettamente con sua.
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