«Di tutte le cose che potevano
venirti in mente, questa è stata proprio la peggiore, non so se te ne rendi
conto. Io, che non ho neanche il tempo di vivere, devo andare da quella stronza
a perdere pomeriggi interi per nulla, uno spreco totale di tempo. Che poi, cosa
credi, che le racconti la mia vita? le racconto fandonie, anzi le racconto cose
che le facciano esattamente capire quanto sia inutile il lavoro che vuole fare
su di me, sappilo!
E
guarda che ore sono, le cinque e mezza. Ho finito scuola all’una e vedi tu a
che ora sono tornata a casa! E domani ho quattro materie, quando avrei il tempo
di studiare, io, oggi? Che poi, abitiamo in questo paese di merda che ci vuole
più di un’ora a tornare con l’autobus, ed è ovvio che mi tocca arrangiarmi in tutto,
figurati se tu sali in macchina e mi vieni a prendere all’ospedale, almeno i
giorni in cui devo andarci di pomeriggio, e mi aiuti almeno in questo, no di
certo! Che poi è solo per te che ci sto andando, sei tu che mi obblighi, e
questo è già di per sé una cosa insopportabile, ma in aggiunta tu lasci che io
me la sbrighi completamente, a te basta scaricare le responsabilità e gli
impegni sugli altri e poi te ne freghi dei disagi che semini qua e là».
Si
preparava un tè mentre vomitava tutte le sue parole. Forse voleva che anche
quelle uscissero dalla sua struttura fisica e la lasciassero più magra.
Il
piano della cucina offriva alternativamente spazi vuoti e pieni. Lei spostava, apriva,
estraeva, tutto molto rumorosamente, e alla fine faceva pulizia: tutto finiva
nel lavello, alla rinfusa, con lanci piuttosto maldestri che potevano essere
fatali a qualche stoviglia.
Aveva
scelto un tè al mango, aveva già infilato il filtro nella teiera in attesa che l’acqua
si scaldasse nel bollitore e dopo avercela versata, tirò su e giù il filtro dall’acqua
bollente per decine di volte, come se l’effetto di rilascio dell’aroma fosse
più efficace tormentando la bustina in quel modo piuttosto che lasciandola semplicemente
in ammollo. Doveva pur fare qualcosa mentre esternava tutti quei pensieri
estratti da chissà quali pieghe della sua anima.
La
madre era rimasta in piedi vicino alla porta, ma quando capì che sua figlia aveva
solo cominciato e che stavolta voleva essere ascoltata, si sedette dall’altro
lato del tavolo, di fronte a lei. La lasciò parlare, trattenendosi il più possibile dal replicare, solo quel
tanto che bastava per dare la parvenza di un dialogo, non tirava mai la corda,
al massimo la tendeva o dava qualche piccolo strappo, ma lasciava che fosse sua
figlia a condurre. La guardava muoversi da destra a sinistra, la vedeva trafficare
con la tazza e il cucchiaino, ma soprattutto percepiva tutte quelle lame
affilate che volavano per la stanza, verso di lei. Non importava quanto
facessero male, non aveva paura del dolore, se anche tutto questo fosse servito
a far guarire sua figlia.
La
ragazza aveva indugiato in cucina per più di un’ora, sedendosi e alzandosi
alternativamente, poi era andata in bagno, continuando le sue accuse a porta
chiusa. Poi inaspettatamente tornò in cucina e si mise a spostare le confezioni
in dispensa, come se cercasse qualcosa che proprio non trovava.
La
madre si era trattenuta dalla tentazione di andare a spiarla in bagno, tanto
non sarebbe cambiato nulla se davvero avesse rigettato nel water, ma
soprattutto non voleva rischiare di rovinare quella catarsi che durava da ormai
due ore buone, da quando sua figlia era tornata dal Centro, quel giorno era stata
per lei la terza seduta. Rispetto alle altre due, la donna capì che stavolta
sarebbe stato molto peggio.
«Tu poi, che sei mia madre, dovresti capire i miei
problemi, invece non solo non sai niente
di me e non fai un accidente per conoscermi, tipo ascoltarmi o parlare con me,
ma mi mandi anche da estranei che dovrebbero aiutarmi al posto tuo, ti rendi
conto di quanto hai fallito?
Dovresti
andarci tu dalla psicologa, perché i problemi partono sempre da voi adulti, lo
sai benissimo, invece voi mandate me, come se quella cretina fosse capace di
aiutarmi, capisci che non succederà mai niente di buono in questo modo, non
cambierà mai niente, così?
Sto
cenando alle otto quando avrei dovuto farlo al massimo alle sette per mettermi
poi a sbrigare tutto quello che oggi devo ancora fare, quindi sono in ritardo
su tutto, ed è solo colpa tua, perché mi mandi a fare cose che non mi servono a
niente se non a crearmi altri problemi con l’organizzazione della mia vita.
Oggi, sono sicura, non riuscirò a finire niente di quello che mi ero
prefissata, neanche il minimo. Eppure tu lo vedi quanto sono occupata con le
mie cose, e poi con la scuola e lo studio, non ho neanche il tempo di uscire
con le mie amiche e di vivere, di vivere! tu, che non sai neanche cosa voglia
dire poi, e per complicare tutto ancora di più mi tocca perdere le giornate da
quella dottoressa di merda. Lo capisci almeno quanti problemi tu stessa mi stai
creando, almeno ti rendi conto che invece di risolvere i miei problemi, tu me
ne butti addosso altri, oltre a quelli che ho già di mio?»
La
madre avrebbe potuto dirle che le tre ore appena spese a recriminare erano
tempo sottratto alle sue occupazioni, ma ovviamente non era un argomento adatto
allo scopo, no di certo, avrebbe solo interrotto quel flusso liberatorio. Si
limitò a trovarsi d’accordo con lei, e non era solo una strategia di facciata,
se provava a mettersi dal suo punto di vista, non poteva darle torto, sua
figlia era sempre stata molto razionale. E anche nell’attribuzione di
responsabilità non avrebbe potuto fare che una misera anche se doverosa
autodifesa, ma a che pro? Se erano giunte tutte e due a quel punto, non
potevano fare altro che passare oltre, percorrendo insieme fino in fondo quel
sentiero stretto e spinoso. La madre rivisse mentalmente le tappe che le
avevano portate al Centro, grazie a dio aveva condiviso quella decisione con il
marito, e forse era solo per la firma paterna che sua figlia aveva accettato la
terapia senza delle vere azioni di protesta, cosa che in effetti la madre non
si aspettava, lei che le aveva insegnato fin da piccola a dire di no se una
cosa non le garbava, perché, così pensava, si sarebbe nella vita risparmiata
tanti soprusi e ingiustizie che erano invece toccati a lei.
La
ragazza aveva spostato platealmente i piatti con le pietanze che la madre e la
sorella avevano consumato per cena, poi aveva cercato in frigo qualche vegetale
crudo, non importava se rammollito, purché non contenesse carboidrati e lipidi,
lo grattugiò nel piatto e lo mangiò, sorseggiando al contempo altre due tazze di tè. Questa fu la sua cena.
Per tutto il tempo non aveva mai smesso di esprimere la sua collera alla madre,
che nel frattempo si era portata sul divano, tanto valeva stare comodi nel
farsi massacrare.
«E la devi smettere di prepararmi cose da mangiare, te
l’ho detto che non devi apparecchiare niente per me, che mi arrangio. Tu invece
insisti a farmi trovare cose pronte, e hai anche il coraggio di dire che le hai
cucinate per te o per mia sorella, tanto lo so che ci provi, che speri che io
le mangi trovandole comode sopra il tavolo, ma è ovvio, voi avete mangiato
un’ora fa e se non fossero qui per me, sarebbero già in frigo, invece sono
fermamente qui, vicino al mio piatto. Vedi, se tu mi volessi bene, faresti
quello che ti chiedo, e quando la mia richiesta è “per favore, non prepararmi
niente”, faresti proprio così, oppure se ti dico “preparami un’insalata” e lo
sai benissimo che non voglio che sia condita, tu non ci metteresti l’olio,
invece ce lo trovo sempre, e così la devo buttare via, e mi fai schifo quando,
dopo averti chiesto se l’hai condita, tu hai il coraggio di negare e poi mi
tocca sentirmelo in bocca il gusto dell’olio, come se io fossi deficiente e
potessi non accorgermene finché la mangio! E quando succede, odio che tu faccia
finta di non essere neanche consapevole di avercelo messo, ed è ancor peggio
quando poi ti giustifichi dicendo che ce l’hai messo sovrappensiero, che ti è
scivolato per abitudine e altre cazzate del genere, ma anche se fosse vero,
vorrebbe dire ancor più che non te ne importa proprio niente di me e di quello
che ti chiedo per favore di fare, lo capisci che quando metti l’olio
nell’insalata, che tu l’abbia fatto apposta o che ti sia davvero dimenticata,
in ogni caso per me significa che non mi vuoi bene?»
La
madre lo sapeva che tutto questo sarebbe potuto succedere, l’aveva messo nel conto.
Ma saperlo non allevia il dolore, quando le lame arrivano dritte al petto,
fanno male lo stesso. Non le importava affatto però, niente poteva ucciderla se
non la resa di sua figlia, e quelle parole aspre rappresentavano, forse, la
lotta di una ragazza che nel colpire così violentemente voleva vincere, quindi
vivere. Questo sperava la madre. Tolse dal tavolo le pietanze che la ragazza
non aveva assaggiato e le ripose in frigo.
Anche
la ragazza prese il suo piatto e lo lanciò nel lavello, gettò le posate al
seguito, quindi appallottolò la tovaglia per poi lasciarla lì. Continuava le
sue accuse, quasi senza tregua, guardando alternativamente l’orologio e il
telefonino e accennando più volte a ritirarsi in camera per poi tornare sempre
sui suoi passi, quasi a voler dar fondo a tutte le parole che potesse pescare
nel suo essere, facendole uscire dalle gambe ormai così magre, dalle ossa del
bacino che delineavano una superficie piatta in fondo alla schiena, dalle
spalle troppo strette o dai polsi sulla
cui parte interna sembrava fossero stati tesi due cordoncini. Un corpo
regredito allo stadio di bambina e privato anche della fertilità.
«Se solo provassi a capire come mi sento io nella mia
vita... Che poi, torno dall’ospedale che ovviamente sono nervosa, con questa
storia che devo andarci per forza, e quindi immagina quale stato d’animo ho io
adesso e soprattutto se sono serena per mettermi a studiare o anche solo per
riuscire a dormire. Capisci il tipo di problemi che tu mi stai creando? Sono le
dieci di sera, ti rendi conto, e non ho ancora aperto un libro, e domani il
prof interroga su duecento pagine di storia, capisci cosa intendo quando dico
che ho bisogno di altro per sentirmi aiutata? che ho bisogno di essere libera da
questi impegni stupidi, invece no, tu mi obblighi a fare delle sedute inutili
con dottoresse che vogliono solo indagarmi il cervello e soprattutto che non mi
possono aiutare perché la mia vita merdosa loro non me la possono cambiare.
Perché, poi, ti rendi almeno conto che questi incontri non servono a nulla,
vero? Anche perché io, quella, la prendo in giro, e mi ci diverto pure!, almeno
do un senso a quell’ora e passa che mi tocca stare lì dentro a perdere tempo,
mi basta guardarla in faccia e so già se le mie risposte la fanno sentire appagata
del suo lavoro di merda. Figurati se mi faccio dire da qualcuno come devo
vivere la mia vita, io so benissimo cosa voglio per me, non ho bisogno di
farmelo dire da nessuno. Mi basta solo uscire da questa casa per stare bene e
fare quello che voglio, senza limiti».
La
ragazza andò in camera per qualche minuto, ma poi tornò in cucina e si versò dell’altro
tè, continuando le sue argomentazioni contro la madre e guardando a tratti
l’orologio che si ostinava a rimarcare un ritardo cronico nella sua tabella di
marcia e costituiva la prova oggettiva di tutte le sue accuse.
Erano
già le undici di sera e la madre, che di solito a quell’ora era nel suo studio
o a letto, cercava qua e là qualcosa da sistemare e ogni tanto tornava a
sedersi, voleva che la ragazza capisse che l’avrebbe ascoltata ancora, se ce ne
fosse stato bisogno, nonostante tutto.
«Già ho una vita di merda per conto mio, sono l’unica
delle mie amiche a non avere una vita sociale, on ho mai potuto fare niente di
bello perché tu e papà siete gli unici che non mi portate da nessuna parte, gli
altri genitori accompagnano i loro figli fuori la sera dagli amici o in
discoteca o in altri posti e poi li vanno a riprendere dopo mezzanotte o anche
dopo l’una, ma io, da sempre, guai a chiedervi questo, sembrava che vi
chiedessi la luna. Gli altri lo fanno con gioia, lo capisci? con gioia, sono
contenti di portare i loro figli fuori la sera, ridono e scherzano in macchina
con loro, sono tutti rilassati, una cosa che con voi non succede. Tu, a
quest’ora ad esempio, alle undici e mezza, non usciresti mai per portarmi in
discoteca, e io infatti non ho il coraggio di chiedertelo quasi in nessuna
occasione, sai quanti inviti rifiuto in partenza perché conosco già le tue reazioni?,
tipo mi rinfacci che sei stufa di fare la tassista, oppure che quando mi porti
me lo fai poi pesare per un tempo interminabile, come se ti avessi chiesto di
darmi la vita? Lo capisci che schifo che è stata la mia vita in tutti questi
anni?»
Dopo
essersi lamentata dell’ora in cui avrebbe suonato la sveglia l’indomani, la
ragazza se ne andò in camera, ma dopo pochi minuti rientrò in cucina con il
pigiama addosso e bevve un’altra tazza, guardando l’orologio che segnava le
undici e trentacinque, quindi pronunciò l’ultima frase prima di ritirarsi
definitivamente.
«Potevi non farmi nascere, se dovevi farmi fare una vita
così.»
Rimasta
sola, anche la madre sbirciò l’orologio. Erano passate più di sei ore. Sentì nascerle
da dentro una profonda pena per entrambe, raccolse il viso tra le mani, lo appoggiò
sulle ginocchia e finalmente pianse.
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