sabato 27 maggio 2017

Annachiara Capuzzo - Lame

«Di tutte le cose che potevano venirti in mente, questa è stata proprio la peggiore, non so se te ne rendi conto. Io, che non ho neanche il tempo di vivere, devo andare da quella stronza a perdere pomeriggi interi per nulla, uno spreco totale di tempo. Che poi, cosa credi, che le racconti la mia vita? le racconto fandonie, anzi le racconto cose che le facciano esattamente capire quanto sia inutile il lavoro che vuole fare su di me, sappilo!
E guarda che ore sono, le cinque e mezza. Ho finito scuola all’una e vedi tu a che ora sono tornata a casa! E domani ho quattro materie, quando avrei il tempo di studiare, io, oggi? Che poi, abitiamo in questo paese di merda che ci vuole più di un’ora a tornare con l’autobus, ed è ovvio che mi tocca arrangiarmi in tutto, figurati se tu sali in macchina e mi vieni a prendere all’ospedale, almeno i giorni in cui devo andarci di pomeriggio, e mi aiuti almeno in questo, no di certo! Che poi è solo per te che ci sto andando, sei tu che mi obblighi, e questo è già di per sé una cosa insopportabile, ma in aggiunta tu lasci che io me la sbrighi completamente, a te basta scaricare le responsabilità e gli impegni sugli altri e poi te ne freghi dei disagi che semini qua e là».


Si preparava un tè mentre vomitava tutte le sue parole. Forse voleva che anche quelle uscissero dalla sua struttura fisica e la lasciassero più magra.
Il piano della cucina offriva alternativamente spazi vuoti e pieni. Lei spostava, apriva, estraeva, tutto molto rumorosamente, e alla fine faceva pulizia: tutto finiva nel lavello, alla rinfusa, con lanci piuttosto maldestri che potevano essere fatali a qualche stoviglia.
Aveva scelto un tè al mango, aveva già infilato il filtro nella teiera in attesa che l’acqua si scaldasse nel bollitore e dopo avercela versata, tirò su e giù il filtro dall’acqua bollente per decine di volte, come se l’effetto di rilascio dell’aroma fosse più efficace tormentando la bustina in quel modo piuttosto che lasciandola semplicemente in ammollo. Doveva pur fare qualcosa mentre esternava tutti quei pensieri estratti da chissà quali pieghe della sua anima.
La madre era rimasta in piedi vicino alla porta, ma quando capì che sua figlia aveva solo cominciato e che stavolta voleva essere ascoltata, si sedette dall’altro lato del tavolo, di fronte a lei. La lasciò parlare, trattenendosi  il più possibile dal replicare, solo quel tanto che bastava per dare la parvenza di un dialogo, non tirava mai la corda, al massimo la tendeva o dava qualche piccolo strappo, ma lasciava che fosse sua figlia a condurre. La guardava muoversi da destra a sinistra, la vedeva trafficare con la tazza e il cucchiaino, ma soprattutto percepiva tutte quelle lame affilate che volavano per la stanza, verso di lei. Non importava quanto facessero male, non aveva paura del dolore, se anche tutto questo fosse servito a far guarire sua figlia.
La ragazza aveva indugiato in cucina per più di un’ora, sedendosi e alzandosi alternativamente, poi era andata in bagno, continuando le sue accuse a porta chiusa. Poi inaspettatamente tornò in cucina e si mise a spostare le confezioni in dispensa, come se cercasse qualcosa che proprio non trovava.
La madre si era trattenuta dalla tentazione di andare a spiarla in bagno, tanto non sarebbe cambiato nulla se davvero avesse rigettato nel water, ma soprattutto non voleva rischiare di rovinare quella catarsi che durava da ormai due ore buone, da quando sua figlia era tornata dal Centro, quel giorno era stata per lei la terza seduta. Rispetto alle altre due, la donna capì che stavolta sarebbe stato molto peggio.

«Tu poi, che sei mia madre, dovresti capire i miei problemi, invece non  solo non sai niente di me e non fai un accidente per conoscermi, tipo ascoltarmi o parlare con me, ma mi mandi anche da estranei che dovrebbero aiutarmi al posto tuo, ti rendi conto di quanto hai fallito?
Dovresti andarci tu dalla psicologa, perché i problemi partono sempre da voi adulti, lo sai benissimo, invece voi mandate me, come se quella cretina fosse capace di aiutarmi, capisci che non succederà mai niente di buono in questo modo, non cambierà mai niente, così?
Sto cenando alle otto quando avrei dovuto farlo al massimo alle sette per mettermi poi a sbrigare tutto quello che oggi devo ancora fare, quindi sono in ritardo su tutto, ed è solo colpa tua, perché mi mandi a fare cose che non mi servono a niente se non a crearmi altri problemi con l’organizzazione della mia vita. Oggi, sono sicura, non riuscirò a finire niente di quello che mi ero prefissata, neanche il minimo. Eppure tu lo vedi quanto sono occupata con le mie cose, e poi con la scuola e lo studio, non ho neanche il tempo di uscire con le mie amiche e di vivere, di vivere! tu, che non sai neanche cosa voglia dire poi, e per complicare tutto ancora di più mi tocca perdere le giornate da quella dottoressa di merda. Lo capisci almeno quanti problemi tu stessa mi stai creando, almeno ti rendi conto che invece di risolvere i miei problemi, tu me ne butti addosso altri, oltre a quelli che ho già di mio?»

La madre avrebbe potuto dirle che le tre ore appena spese a recriminare erano tempo sottratto alle sue occupazioni, ma ovviamente non era un argomento adatto allo scopo, no di certo, avrebbe solo interrotto quel flusso liberatorio. Si limitò a trovarsi d’accordo con lei, e non era solo una strategia di facciata, se provava a mettersi dal suo punto di vista, non poteva darle torto, sua figlia era sempre stata molto razionale. E anche nell’attribuzione di responsabilità non avrebbe potuto fare che una misera anche se doverosa autodifesa, ma a che pro? Se erano giunte tutte e due a quel punto, non potevano fare altro che passare oltre, percorrendo insieme fino in fondo quel sentiero stretto e spinoso. La madre rivisse mentalmente le tappe che le avevano portate al Centro, grazie a dio aveva condiviso quella decisione con il marito, e forse era solo per la firma paterna che sua figlia aveva accettato la terapia senza delle vere azioni di protesta, cosa che in effetti la madre non si aspettava, lei che le aveva insegnato fin da piccola a dire di no se una cosa non le garbava, perché, così pensava, si sarebbe nella vita risparmiata tanti soprusi e ingiustizie che erano invece toccati a lei.
La ragazza aveva spostato platealmente i piatti con le pietanze che la madre e la sorella avevano consumato per cena, poi aveva cercato in frigo qualche vegetale crudo, non importava se rammollito, purché non contenesse carboidrati e lipidi, lo grattugiò nel piatto e lo mangiò, sorseggiando al contempo  altre due tazze di tè. Questa fu la sua cena. Per tutto il tempo non aveva mai smesso di esprimere la sua collera alla madre, che nel frattempo si era portata sul divano, tanto valeva stare comodi nel farsi massacrare.

«E la devi smettere di prepararmi cose da mangiare, te l’ho detto che non devi apparecchiare niente per me, che mi arrangio. Tu invece insisti a farmi trovare cose pronte, e hai anche il coraggio di dire che le hai cucinate per te o per mia sorella, tanto lo so che ci provi, che speri che io le mangi trovandole comode sopra il tavolo, ma è ovvio, voi avete mangiato un’ora fa e se non fossero qui per me, sarebbero già in frigo, invece sono fermamente qui, vicino al mio piatto. Vedi, se tu mi volessi bene, faresti quello che ti chiedo, e quando la mia richiesta è “per favore, non prepararmi niente”, faresti proprio così, oppure se ti dico “preparami un’insalata” e lo sai benissimo che non voglio che sia condita, tu non ci metteresti l’olio, invece ce lo trovo sempre, e così la devo buttare via, e mi fai schifo quando, dopo averti chiesto se l’hai condita, tu hai il coraggio di negare e poi mi tocca sentirmelo in bocca il gusto dell’olio, come se io fossi deficiente e potessi non accorgermene finché la mangio! E quando succede, odio che tu faccia finta di non essere neanche consapevole di avercelo messo, ed è ancor peggio quando poi ti giustifichi dicendo che ce l’hai messo sovrappensiero, che ti è scivolato per abitudine e altre cazzate del genere, ma anche se fosse vero, vorrebbe dire ancor più che non te ne importa proprio niente di me e di quello che ti chiedo per favore di fare, lo capisci che quando metti l’olio nell’insalata, che tu l’abbia fatto apposta o che ti sia davvero dimenticata, in ogni caso per me significa che non mi vuoi bene?»

La madre lo sapeva che tutto questo sarebbe potuto succedere, l’aveva messo nel conto. Ma saperlo non allevia il dolore, quando le lame arrivano dritte al petto, fanno male lo stesso. Non le importava affatto però, niente poteva ucciderla se non la resa di sua figlia, e quelle parole aspre rappresentavano, forse, la lotta di una ragazza che nel colpire così violentemente voleva vincere, quindi vivere. Questo sperava la madre. Tolse dal tavolo le pietanze che la ragazza non aveva assaggiato e le ripose in frigo.
Anche la ragazza prese il suo piatto e lo lanciò nel lavello, gettò le posate al seguito, quindi appallottolò la tovaglia per poi lasciarla lì. Continuava le sue accuse, quasi senza tregua, guardando alternativamente l’orologio e il telefonino e accennando più volte a ritirarsi in camera per poi tornare sempre sui suoi passi, quasi a voler dar fondo a tutte le parole che potesse pescare nel suo essere, facendole uscire dalle gambe ormai così magre, dalle ossa del bacino che delineavano una superficie piatta in fondo alla schiena, dalle spalle troppo strette o dai polsi  sulla cui parte interna sembrava fossero stati tesi due cordoncini. Un corpo regredito allo stadio di bambina e privato anche della fertilità.

«Se solo provassi a capire come mi sento io nella mia vita... Che poi, torno dall’ospedale che ovviamente sono nervosa, con questa storia che devo andarci per forza, e quindi immagina quale stato d’animo ho io adesso e soprattutto se sono serena per mettermi a studiare o anche solo per riuscire a dormire. Capisci il tipo di problemi che tu mi stai creando? Sono le dieci di sera, ti rendi conto, e non ho ancora aperto un libro, e domani il prof interroga su duecento pagine di storia, capisci cosa intendo quando dico che ho bisogno di altro per sentirmi aiutata? che ho bisogno di essere libera da questi impegni stupidi, invece no, tu mi obblighi a fare delle sedute inutili con dottoresse che vogliono solo indagarmi il cervello e soprattutto che non mi possono aiutare perché la mia vita merdosa loro non me la possono cambiare. Perché, poi, ti rendi almeno conto che questi incontri non servono a nulla, vero? Anche perché io, quella, la prendo in giro, e mi ci diverto pure!, almeno do un senso a quell’ora e passa che mi tocca stare lì dentro a perdere tempo, mi basta guardarla in faccia e so già se le mie risposte la fanno sentire appagata del suo lavoro di merda. Figurati se mi faccio dire da qualcuno come devo vivere la mia vita, io so benissimo cosa voglio per me, non ho bisogno di farmelo dire da nessuno. Mi basta solo uscire da questa casa per stare bene e fare quello che voglio, senza limiti».

La ragazza andò in camera per qualche minuto, ma poi tornò in cucina e si versò dell’altro tè, continuando le sue argomentazioni contro la madre e guardando a tratti l’orologio che si ostinava a rimarcare un ritardo cronico nella sua tabella di marcia e costituiva la prova oggettiva di tutte le sue accuse.
Erano già le undici di sera e la madre, che di solito a quell’ora era nel suo studio o a letto, cercava qua e là qualcosa da sistemare e ogni tanto tornava a sedersi, voleva che la ragazza capisse che l’avrebbe ascoltata ancora, se ce ne fosse stato bisogno, nonostante tutto.

«Già ho una vita di merda per conto mio, sono l’unica delle mie amiche a non avere una vita sociale, on ho mai potuto fare niente di bello perché tu e papà siete gli unici che non mi portate da nessuna parte, gli altri genitori accompagnano i loro figli fuori la sera dagli amici o in discoteca o in altri posti e poi li vanno a riprendere dopo mezzanotte o anche dopo l’una, ma io, da sempre, guai a chiedervi questo, sembrava che vi chiedessi la luna. Gli altri lo fanno con gioia, lo capisci? con gioia, sono contenti di portare i loro figli fuori la sera, ridono e scherzano in macchina con loro, sono tutti rilassati, una cosa che con voi non succede. Tu, a quest’ora ad esempio, alle undici e mezza, non usciresti mai per portarmi in discoteca, e io infatti non ho il coraggio di chiedertelo quasi in nessuna occasione, sai quanti inviti rifiuto in partenza perché conosco già le tue reazioni?, tipo mi rinfacci che sei stufa di fare la tassista, oppure che quando mi porti me lo fai poi pesare per un tempo interminabile, come se ti avessi chiesto di darmi la vita? Lo capisci che schifo che è stata la mia vita in tutti questi anni?»

Dopo essersi lamentata dell’ora in cui avrebbe suonato la sveglia l’indomani, la ragazza se ne andò in camera, ma dopo pochi minuti rientrò in cucina con il pigiama addosso e bevve un’altra tazza, guardando l’orologio che segnava le undici e trentacinque, quindi pronunciò l’ultima frase prima di ritirarsi definitivamente.

«Potevi non farmi nascere, se dovevi farmi fare una vita così.»

Rimasta sola, anche la madre sbirciò l’orologio. Erano passate più di sei ore. Sentì nascerle da dentro una profonda pena per entrambe, raccolse il viso tra le mani, lo appoggiò sulle ginocchia e finalmente pianse.


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