La prua della “Santa Cruz” fende la calma
delle onde nere dell’oceano. Spira un vento lieve, senza affanni. Lo aspiro a
pieni polmoni per ricavarne energia, per familiarizzare con l’odore del mare,
così estraneo per me! Odore di salso, odore di pesce. Dopo una settimana mi sta ancora appiccicato
addosso. Lo percepisco tra le trame degli abiti, nei pori della pelle, tra i
capelli che quest’aria appena mi scompone, tentando di portarselo via.
Dietro la nave, sulla scia schiumosa,
gioca l’argento che cade dalla luna, si confonde in essa, si dissolve piano,
inghiottito in fondo al nero oceano della notte. La terra s’indovina appena dai
punti luminosi sempre più piccolini, sempre più incerti.
La nave, salpata dal porto di Genova, ha
come prima tappa Dakar. Appena partito la tentazione di abbandonare l’impegno
assunto, scendere e tornarmene a casa è stata violenta. Mi sono sentito in
trappola ma oramai non c’era più possibilità di ovviare alla mia indecisione se
non buttandomi a mare, ma neppure nuotare so fare bene.
“Che ci vado a fare io, innamorato della
terra mia, in America? Voglio tornare a casa! Indietro, indietro tutta...” ecco
la realtà che mi aggredisce. Trascino i piedi lungo la scala che dal finestrone
del secondo ponte porta giù al terzo.
Il terzo ponte è il confino dei poveracci
come me che ancora credono, o forse è più giusto dire che confidano nella
realizzazione d’un futuro benigno dentro il proprio vivere, per far restare il
presente con un palmo di naso. E perché poi non dovrebbe andare così? Intanto è
chiaro che si va sotto. Al secondo ponte stanno i benestanti; al primo i ricchi
e qui, è altrettanto chiaro che si va su!
Ci sono otto cuccette nelle nostre
camerate: quattro per ogni parete di legno che le separa. Un corridoio centrale
tra di esse, giusto lo spazio per mettere giù le gambe. Non ci sono oblò, anche
se stiamo sopra il pelo dell’acqua. Siamo gli ultimi a mangiare: prima vengono
serviti i signori. Il più delle volte ci viene passato quello che essi
avanzano.
Insomma, tutto normale in terra, in
mare... confido nel cielo.
Le giornate sfilano lente rinchiusi come
topi, insieme ai topi della stiva. Nelle sere, meravigliose musiche arrivano
dai saloni del primo livello, le note solcano la nave, le inseguo. Mi è sempre
piaciuta la musica, veramente tanto. Me la cavo anche con qualche passo di
danza, imparato a suon di ripetizioni che la bella del paese, elargiva con
grande serietà a noi giovanotti duri come i manici delle scope.
Di nascosto m’intrufolo nel salone delle
feste. Gli addetti se ne accorgono, mi ‘accompagnano’ fuori. Sono feste private
alle quali vi possono accedere solo gli invitati. Nello spazio angusto della cuccetta non
riesco a rilassarmi. Il sonno non arriva a dar tregua al mio spirito che fino
ad ora nessuno è riuscito a imbrigliare, né a sciogliere gli interrogativi che
lo agitano.
Mi concedo due abbondanti sorsi di grappa,
direttamente dalla bottiglia. L’alcool morde la gola, calma l’ansia di piangere e urlare, solo in mezzo al mare, desideroso solo di scivolare nel
sonno per dimenticare.
«Perché non parti anche tu con mio
fratello? Avresti lavoro assicurato, pagato in dollari!» aveva detto Remigio
alla partenza di fra’ Feliciano, per il collegio dei francescani di Padova,
aperto da due anni a Florida in Uruguay.
«Hanno bisogno di un giovane volonteroso e
sano, che prepari blocchi per ampliarlo
e accudisca alle mucche» aveva aggiunto.
A ventisette anni, che posso dire della mia
situazione occupazionale ed economica: catastrofica? Non posso vantare un
mestiere vero e proprio. Fino ad ora mi sono arrangiato a fare un po’ di tutto
contentandomi di sbarcare il lunario.
Fra’ Feliciano è convincente e la sua proposta
mi stuzzica. Poi la allontano, non voglio lasciarmi coinvolgere.
Non ho un
lavoro fisso, dignitoso. Questa la nuda e cruda verità, che la proposta
evidenzia.
“Parto! Al diavolo i ripensamenti!”
concludo e l’attimo successivo mi coglie il panico...
“No, non parto! Non ce la farò mai a stare
senza Anna!”
Mi sveglio in un bagno di sudore. Invano
tento di riemergere dal vortice nauseante nel quale mi dibatto. A fatica butto
lo sguardo intorno. Non sono il solo in tale guaio. Qualcuno vomita anche
l’anima. Qualcun altro prega. C’è chi si tiene la testa stretta tra le mani a
limitare il movimento che i flutti impazziti imprimono alla nave. Chi ha le
dita ficcate nelle orecchie nel tentativo di allontanare lo sconquasso al quale
le sottopongono. Un conato violento mi assale, rivoltando lo stomaco tra fitte
più maligne di un’ulcera perforante. Con un lamento impotente ricado
all’indietro.
Che mi venga
un colpo a me e a chi mi ha convinto a partire!
In quel marasma ricerco in fondo agli
occhi serrati il volto di Anna, davanti alla corriera. Lo sguardo umido di
lacrime, cancellate dalla piccola mano prima che il loro rotolare per le
guance, le palesasse. Finalmente il mare si placa, con esso anche l’infame
malessere e seppur spossato, il cielo tornato limpido un po’ di fiducia, devo
dire che me la ridona. Quando è così ci è concesso di uscire fuori coperta,
stando separati dai signori del primo ponte, si capisce!
Abbiamo superato lo stretto di Gibilterra
e fatto l’unico scalo a Dakar.
Poi l’Atlantico, l’oceano.
È l’ultima settimana di un viaggio che mi
pare eterno. Non vedo l’ora di sentire la terra salda sotto i piedi. Non avrei
mai potuto campare facendo il marinaio io! Sono agitato, senza far niente tutto
il giorno, la mente si lascia ingarbugliare dai pensieri, pur che cerco di
nutrirli di speranza.
Penso a cosa troverò al collegio, mi
adatterò? Come farò a vivere sradicato dalle mie abitudini, dalla mia terra,
dai miei amici, da Anna?...
Ecco che già mi serpeggia uno strano
malessere che seppure mi pare presto definire nostalgia, gli assomiglia molto e
sporca la speranza. Per credere nelle mie potenzialità e, per tutte le
intenzioni che ho nel cuore..., in fondo non è che starò via per sempre!
Già me lo sono prefissato prima di
partire, che cioè se non va, tornerò indietro.
Com’è nero l’oceano di notte... è nero anche
quando il cielo è un luccicar di stelle, che sembra ricamato come gli abiti da
sera delle signore. Mi spaventa.
È lo spuntar del
giorno, davanti al finestrone del secondo piano della Santa Cruz, aspetto...
Aspetto che proprio laddove l’acqua si
mistura al cielo rendendo l’orizzonte incerto, il sole venga su a indorarlo.
Quale sorpresa mi coglie al focalizzare corpi enormi, flessuosi. Corpi lucidi e
potenti che saltano a fianco della nave, come ad accompagnarla nell’andare: un
branco di delfini!
Il movimento? Danza. Il canto? Musica. Si
rincorrono, si alternano in balzi poderosi e agili che sfiniscono nel riflesso
del sole provocando spruzzi alti, iridescenti. Riemergono e, in una serie
ininterrotta di sequenze danno vita ad un gioco suggestivo.
Agito le mani a salutarli:
«Siete belli!» urlo estasiato. E... ho la
convinzione che lo apprezzino, che mi odano, che mi capiscano poiché mi
concedono il bis. Poi s’inabissano. Ogni mattina, fino all’arrivo a
destinazione, corro su per incontrarli. Pare che seguano la nave, che aspettino
quell’ora incantata per esibirsi. Ed ecco che addirittura li riconosco: qualcuno
per il suono che esprime nel canto, qualcun altro per il salto nel quale si
produce.
Siamo in prossimità del porto di
Montevideo, l’alba sbiadisce le stelle. Salgo, a salutarli. Voglio ringraziarli
per avermi donato attimi di pace con le loro danze, le loro grida che paiono
canti...
«Basta poesie! È ora di affrontare la
realtà!» mi ammonisco. Ci sono due fraticelli ad attendermi allo sbarco,
avvolti in sai neri. Sono venuti a
prendermi con un camioncino sgangherato. Con gesti veloci tra lo strusciare
delle lunghe vesti, caricano il mio baule. Io, le due valigie. Non ho modo di
spaziare lo sguardo sul paesaggio. Loro zitti, io zitto.
Arriviamo al collegio, che è buio pesto.
Il Superiore mi riceve. Mi assegna una
cameretta provvisoria, mi mette in mano un crocifisso: «Che il Signore ti benedica, ne avrai
bisogno! Da domani puoi cominciare a fare il tuo lavoro» dice. Eppure non so
perché, nella sua voce c’è una vena come dire? Sibillina! Forse sono solo stanco, nonché deluso e
affamato.
“Che ti aspettavi?” mi chiedo d’istinto:
“Che ti ricevessero con una tavola imbandita? Sarai l’uomo di fatica per il
collegio è giusto che da subito tu ti metta in riga, che capisca bene quale
sarà il tuo ruolo.
Nel silenzio tiro fuori dalla tasca, la
foto della nave comprata a memoria della traversata oceanica. Seduto sul letto scrivo un po’ davanti e un
po’ dietro:
“27 Agosto 1950. La
‘Santa Cruz’, questa nave vecchia mi ha portato in Uruguay. Un mese di viaggio.
W DIO”.
Così cominciò la mia storia di bastonate, catene
e dolore, prima riconquistare, dopo 57 anni, la gioia di tornare al mio paese!
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