Guardando
le luci del quadro comandi N. pensava all’albero di Natale. Non ad uno
qualsiasi, bensì quello specifico della casa dei suoi genitori, coi festoni e
le piccole luci multicolori a candela, un ricordo d’infanzia sbiadito come una
foto ingiallita e che sembrava ben più distante nel tempo di quei vent’anni che
erano passati da quando s’era impresso nella sua memoria. Pensava ai regali, al
fuoco nel caminetto, ai dissapori fra parenti seppelliti per un pranzo od una
cena ma che, come le braci scoppiettanti sotto le ceneri alla fine di una
serata invernale, ardevano nascosti sottintendendo ogni gesto di quei rancori
illusoriamente accantonati. Illusioni, come quelle con cui N. cercava di
riempirsi la testa guardando fuori dalle vetrate e chiedendosi senza uno scopo
preciso, a meno che non fosse non averne uno lo scopo, quanto fosse profondo il
mare, solo per celare a sé stesso gli abissi della propria inquietudine. Le
luci, quelle all’interno e quelle dei fari che scandagliavano le volute di
oscurità del fondale marino, erano fonti di distrazione ambigue, capaci di
portare la sua mente altrove ed allo stesso tempo focus delle preoccupazioni
laceranti del presente, quelle che altri sensi esclusa la vista cercavano di
inculcare in un cervello che chiedeva, per pietà, di poter dimenticare.
Ma
poteva durare quell’effimera pace, turbata dagli scricchiolii che N. sentiva
provenire dallo scafo attorno a sé, sempre più forti man mano che il tempo
passava? Gli occhi potevano far finta di non vedere, ma l’olfatto acuto portava
intatto e nauseante l’olezzo di sudore ed urina che emanava dal grosso compagno
di bordo (Oscar? Miguel? Non ricordava), riportandogli alla mente la sua
postura scomposta, rattrappito e con la frangia nerissima ed ingellata che gli
copriva maldestramente un occhio, posa con la quale aveva posto fine alla
macabra danza di morte che il cuore, cedendo, lo aveva costretto a
rappresentare per quello sparuto pubblico di una sola persona.
Perlomeno
questo odore non farà in tempo a peggiorare, pensò N. in un fugace momento di
lucidità. La putrefazione, quando arriverà alle sue espressioni peggiori, non
mi troverà più testimone del disfacimento. Asfissia e pressione, ecco i due
fantasmi che aleggiavano sull’unico occupante ancora in vita del piccolo scafo
adagiato nelle profondità dei mari del sud, privo di un tesoro leggendario al
suo interno tale da giustificarne la presenza imperitura nella memoria
collettiva, se non per i secoli a venire almeno per qualche mese o settimana.
N. si era fatto tentare, in un impeto di spirito avventuroso a lui così poco congeniale,
dalla proposta di un tour operator locale riguardante l’esplorazione dei
fondali marini in acque già famose per battaglie piratesche, tesori perduti e
sparizioni misteriose. Troppo timido per lasciarsi andare alle tentazioni del
turismo sessuale, troppo vecchio (o almeno, poco oltre la soglia dei trenta,
così si sentiva) per sprecare le sue giornate con un cocktail in mano
avviluppato dal ritmo della musica caraibica, troppo delicato d’epidermide per
fidarsi ad affrontare il sole impietoso sulle bianche spiagge affollate di
turisti, il richiamo delle profondità marine era suonato come un ultimo appello
per quel lato inquieto del suo carattere che lo aveva spinto, solitario, a
partire per la sua prima, vera vacanza. L’esplorazione dei fondali era un’ancora
salda a cui poteva aggrapparsi per giustificare almeno momentaneamente quella
meta scelta d’impulso ed allontanare i rimorsi, un ormeggio privo, nonostante
la scalcinata aria di pressapochismo ispirata dai componenti della “società” a
cui si stava affidando, di quell’aura di destino manifesto che, come una vera
ancora, aveva finito invece per trascinarlo a fondo.
Erano
partiti intorno a metà mattina, lui ed Oscar o Miguel, adagiati in mare a bordo
di una capsula obsoleta a forma di pesce da un argano arrugginito, anch’esso
memore di tempi migliori. Mentre la sua guida, ciarliera ed affabile nel suo
inglese comunque stentato, gli mostrava pesci e coralli che mal giustificavano
l’esborso, la capsula si inabissava sempre più, spinta a velocità risibili da motori la cui scarsa potenza non lasciava
presagire esplorazioni troppo approfondite. Fu mentre adocchiava annoiato e
deluso fuori da un oblò, masticando amaro la pillola al sapore di fregatura che
i tre ispanici gli avevano somministrato, che avvenne l’incidente. N. udì uno
schianto, poi un fioco lamento che giungeva dall’esterno, ben presto coperto
dalle urla in spagnolo della sua guida. Mentre, dimentico dei comandi, Oscar (o
Miguel) si faceva incessantemente il segno della croce con una mano e teneva con
l’altra la catenina d’oro che gli pendeva dal collo baciandone, con minime
soste per farfugliare le parole di una preghiera, l’effigie seminascosta lì
attaccata, il suo corpo ingombrante fu scosso improvvisamente da movimenti
convulsi, un braccio ora intento solamente ad artigliarsi il petto, fino a
terminare sul pavimento, immobile ma ancora in grado, forse, di chiedersi prima
di spirare a cosa fossero valse quelle incessanti preghiere e tutta quella
oceanica fede. E mentre questo caotico succedersi di eventi si compiva N.
rimaneva immobile a fissare l’ispanico sacramentare, danzare ed infine
spegnersi, muovendosi per accertarsi dell’inevitabile conclusione solo a giochi
fatti, come uno spettatore esterno a cui era mancata la prontezza di rendersi
protagonista ed a cui era stata negata, oltretutto, la soddisfazione di vedere
la mistriosa causa di tutto quel frenetico e mortale agitarsi.
Tanto
non fu subitanea la presa di coscienza di ciò che si stava svolgendo di fronte
ai suoi occhi quanto non lo fu, inevitabilmente, l’accettazione dell’accaduto.
Steso a terra, ancora in cerca dell’alito vitale che naso e bocca del
cadaverico compagno sembravano ostinarsi a nascondere, N. pensò irrazionalmente
di essere al centro di una candid camera di dubbio gusto. Mentre la capsula
proseguiva il suo viaggio senza guida lungo il solo asse verticale, i motori
morti per avaria od errore umano, lui continuava a mostrare un insistito
diniego verso quanto la realtà si ostinava a propinare ai suoi sensi
scombussolati, trincerandosi dietro fantasiose speranze e pensieri distanti.
Era un atteggiamento studiato, pianificato ed elaborato sempre meglio con gli
anni, fin da quando un amico in cerca di aiuto non lo aveva fatto sprofondare,
testimone diretto e partecipe, nei meandri della dipendenza da alcool: ne erano
usciti vincitori, lui soccorritore e l’altro soccorso, ma per tutto quel
problematico periodo N. aveva sempre sperato di esser vittima di uno scherzo,
di potersi fare una risata di quelle pene improvvisamente esorcizzate anche se
a scapito dell’amor proprio, così incline a non farci accettare beffe alle
nostre spalle. Il traumatico adagiarsi della capsula abbandonata a sé stessa
sul fondale coincise con l’ultimo sussulto che la sua mente ebbe riguardo la
propria sorte, ovvero un affannoso esame del quadro comandi alla ricerca di un
modo per mandare un SOS, per risparmiare energia, per avere più tempo ed
ossigeno: ma scervellarsi invano fra bottoni e levette, terrorizzato all’idea
di fare la mossa sbagliata in una partita a scacchi che metteva in palio la sua
sopravivenza, non lo portò ad altro che all’estraniazione da quanto lo
circondava.
Ritornato
conscio grazie al suo naso ed alle tutt’altro che piacevoli elucubrazioni
riguardanti la putrefazione, N. non poteva comunque far altro che piangersi
addosso od agire, ed una vita intera passata a sfuggire ad ogni responsabilità
lo avevano addestrato solo alla prima opzione. Si ricordò di un libro, letto
anni prima, in cui uno dei protagonisti veniva paragonato a quei pesci abissali
che, abituati a pressioni fortissime e costanti, non potevano ormai vivere
prive di esse. Cosa ci faccio io qui, si chiese tristemente, così lontano dal
mio habitat naturale, senza poter fuggire o chiedere aiuto? La possibilità di
accorciare una vita comunque segnata da un destino apparentemente ineluttabile
era un’eventualità capace di bloccarlo, e la vergogna per questa sua mancanza
d’iniziativa spegneva sul nascere ogni
speranza di una salvezza esterna, che fosse per miracolo divino od intervento
umano, quasi che la sua mente girasse in loop attorno alla frase “non meriti di
vivere”. Solo un pensiero, pian piano, riuscì a rasserenarlo: la consapevolezza
che, una volta morto, avrebbe trovato quella pace che anelava, giacché non
credeva all’inferno, men che meno ad uno che puniva oltremodo gli accidiosi
come lui. Aggrappandosi a quel pensiero, come prima si era affidato ad immagini
e ricordi lontani da quell’abisso per estraniarsi, riuscì a trovare una
parvenza di serenità, ad accettare mollemente il suo destino arrivando persino
a giustificare le proprie mancanze in virtù di una predestinazione, un movente
superiore che lo aveva portato lì, in quel momento, a morire solo. Tanto
anelava ormai la pace dei sensi che si spinse ad invidiare il cadavere lì vicino,
che lo aveva lasciato indietro arrivando prima di lui alla meta come tanti
altri avevano fatto in tutti quegli ambiti dove N. si era ritrovato a lottare
per un po’ di considerazione: amore, sport, lavoro, hobby, non aveva fatto
altro che arrendersi alla sua inadeguatezza in ogni campo...ora, perlomeno, non
sarebbe più stato costretto a competere, a giocare il proprio ruolo in una
battaglia eterna con l’ego che vive in ognuno di noi.
Fu
proprio in quel momento, mentre un sorriso stanco si faceva strada sulle sue
labbra, che si avvide di alcune luci in movimento.
Non
era forse normale attendersi, anche da operatori così palesemente improvvisati,
un minimo di sicurezza? Una spia rossa, lampeggiante alla sinistra del quadro
comandi, era un segno che N. non era riuscito a decifrare e che indicava come
qualcuno lassù, se non proprio lo amava, perlomeno aveva interesse a portarlo a
casa sano e salvo e ad evitare beghe legali. Con gli occhi sgranati vide un
uomo con una pesante tuta da palombaro fissare un grosso cavo alla sua capsula
e, dopo interminabili minuti, sentì questa muoversi nuovamente, trascinata
verso la vita ora che di quella vita non sapeva più che farsene. Si accorse di
aver voluto farla finita da anni ma senza il coraggio necessario ad agire, ed
ora che poteva abbandonarsi alla morte senza dover fare niente lo trascinavano
a forza fuori dal baratro.
Ora che la pressione calava si sentiva veramente schiacciare; poteva di nuovo respirare a pieni polmoni, eppure si sentiva soffocare; non era più prigioniero, e sentiva invece stringerglisi attorno le strette sbarre della sua supposta libertà: poiché sapeva che si sarebbe invischiato nuovamente in mille cose da fare proprio ora che s’era votato anima e corpo al semplice aspettare, all’immobilità che era insita nella sua natura. Guardò da un oblò le oscurità marine che scomparivano, invidiando al mare la profondità che lui non aveva.
Ora che la pressione calava si sentiva veramente schiacciare; poteva di nuovo respirare a pieni polmoni, eppure si sentiva soffocare; non era più prigioniero, e sentiva invece stringerglisi attorno le strette sbarre della sua supposta libertà: poiché sapeva che si sarebbe invischiato nuovamente in mille cose da fare proprio ora che s’era votato anima e corpo al semplice aspettare, all’immobilità che era insita nella sua natura. Guardò da un oblò le oscurità marine che scomparivano, invidiando al mare la profondità che lui non aveva.
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