lunedì 3 luglio 2017

Alexandra Mc Millan - Nives

Nelle città ci sono strade che si incontrano, si intersecano a volte in grovigli e labirinti, in un dedalo che ti disorienta senza un filo per ritrovare la via, perché i fili si sono tutti aggrovigliati e annodati e a sbrogliarli ti ci vorrebbe la vita. Strade fatte apposta per confondersi e smarrirsi. Altre strade, invece, scorrono parallele, non come rette precise e geometriche, ma di solito come serpentine ondeggianti, che sinuosamente strisciano tra le case e le persone, infiltrandosi in mezzo ai tombini, palesandosi d’improvviso dietro una piazza, eppure senza mai deviare dal tracciato dell’itinerario di sempre.


E così ti capita di percorrere i budelli stretti di un cruciverba cittadino, orizzontali e verticali che tra loro si aiutano, e se ne risolvi una hai trovato la chiave per l’altra; oppure ti capita invece di lasciarti trascinare tra le onde del serpente, e sai che ha a fianco un altro serpente, e che in qualche modo potresti andare di là e confondere le acque, ma tieni duro, diritto per la tua strada, ovunque ti porti, dovessi anche arrivare all’inferno o perderti nell’aridità di una via senza sbocco, o ritrovarti in un amore sbucato d’improvviso.
Fu così che incontrai Nives, un nome da bucaneve, da antica fiaba, che ti immagineresti candida e pura, con pelle di alabastro, bianca come la neve e rossa come il sangue.
Ma la pelle di Nives era color bronzo, i suoi capelli castani avevano poco o niente a che fare con l’ebano, e anche le labbra, più che rosse come il sangue, erano un color carminio appena accennato, rossetto non ne portava quasi mai.
Aveva nello sguardo una luce velata, come se la parte d’infanzia che anni troppo duri le avevano tolto, se la fosse ripresa negli ostinati sogni di adulta.
Rideva di una risata cristallina e gioiosa, e rideva spesso, senza mai perdere né l’innocenza della bambina segreta che ancora aveva nascosta dentro, né il sottile dolore che l’accompagnava nella sua fuga dal mondo. Ché Nives era sempre fuggita dal mondo, mai dalla vita.
Nives, dicevo, la incontrai un giorno che, dopo essermi ingarbugliato per bene nell’intersecarsi dei carruggi, avevo deciso di prendere uno di quei serpenti dalla coda, e seguirlo.
Il bar non lo avevo mai visto prima, e non era niente di speciale, un locale come tanti, intimità comprata a poco prezzo con un po’ di luce soffusa alle pareti, le tende decorate a fiori di campagna, qualche pubblicità fintamente antica di birre e liquori. Ma c’era una freschezza non poi così comune, una freschezza che sentivi nella cura delle tovaglie di stoffa sempre allegre e pulite ben spianate sui tavolini, nelle composizioni di fiori secchi, e nel sorriso che ti accoglieva quando entravi. Il sorriso di Nives.
Fui banale, come forse si è sempre, quando più vorresti che le tue parole racchiudessero tutte le vite e tutte le storie e i mondi possibili, e invece tutto quello che ti viene in mente è “può un cliente offrire da bere al barista?”
Ebbi fortuna, non c’erano altri clienti nel locale, e lei rise e disse di sì. E dopo, molte ore dopo, ore di parole insulse, importanti e tenere, quando con un’impudenza che non era mai stata mia, le chiesi se mi avrebbe offerto un caffè a casa sua, lei di nuovo rise, e di nuovo disse di sì.
Solo per quella prima volta, si lasciò attraversare con la furia smaniosa che a me sembrava il modo naturale di far l’amore. Ma fu lei ad insegnarmi, un pezzetto alla volta, il prezioso segreto della lentezza, dell’attesa. La pelle esibita alla mia bocca e alle mani, mi sfidava alla scoperta di insospettate sorgenti, causa dell’aridità del palato prosciugato dal desiderio, ma anche l’unica acqua in grado di appagare la sete.
Mi offriva il suo corpo come offriva il caffè ai clienti fissi. Generosa, con naturalezza consapevole. Non senza pensarci. Pensandoci, invece, perché non c’era in lei quasi nulla di involontario. Mi raccontò un giorno una confusa storia, non so quanto genuina, di innocenza perduta, di paure e incubi quotidiani, e di vagabondaggi notturni nell’attesa spasmodica di quello che un giorno, finalmente, aveva ottenuto: la libertà. Da allora, mi disse, tutto quello che le era accaduto, era stato lei a volerlo, sempre. E questo potevo crederlo.
Ma in altre occasioni, parlò di domeniche in cui sua madre faceva la pignolata, così da noi si chiamano i pasticcini secchi ricoperti di pinoli, e del suo profumo di lavanda, e di suo padre che tornava dal lavoro e la teneva sulle sue ginocchia, dondolandola al ritmo di canzoni che lui stesso componeva. Quale delle due infanzie era quella vera? O lo erano entrambe, e magari ce n’erano anche delle altre, infinite sfaccettature, pezzetti di specchio da ricomporre per avere l’immagine tutta intera? Non l’ho mai saputo, e forse non mi è mai neppure interessato. Mi bastava quello che mi regalava lei, quei piccoli doni di parole che mi porgeva nei giorni in cui si fidava di me.
Fu un’estate lunga, quell’anno. Estate di siccità, pochissimi giorni di pioggia da maggio a ottobre. Dovevi rientrare nel garbuglio dei carruggi per trovare luoghi impenetrabili al sole. Ma sempre ricordando che quando più credevi di essere al sicuro, protetto dalla barriera delle case addossate una all’altra, da un’ombra indomita e inviolata che copriva la tua paura dolceamara, ecco, proprio in quel momento la strada si apriva, e di fronte a te trovavi il mare, il morso della sua luce azzurra, il graffio della salsedine nella gola. E quel sole raggiante e ridente, e appena un velo lieve, quasi impercettibile d’inquietudine per quello splendore implacabile.
Fu un’estate lunga, e finché durò l’estate, Nives continuò a fidarsi di me.
Ma le estati finiscono sempre. Quando cominciavo a permettermi di sperare che sarebbe scesa dalla corda su cui danzava i suoi passi di funambola, lei scomparve.
Non intendo dire che se ne andò, che non si fece più sentire. Intendo dire che sparì, si dissolse, si dileguò come se non ci fosse mai stata.
La dimenticai immediatamente, e ancora una volta, non mi fraintendete. Non fu il facile oblio di un amante occasionale, ma la perdita assolutamente involontaria di ogni traccia del suo ricordo.
L’amnesia, nella nostra immaginazione, è vicina alla morte, perché noi camminiamo al passo della nostra memoria. Il fascino che hanno per noi i racconti di chi ha perduto il nome, l’identità, il passato, è il fascino della condizione di chi ha varcato il regno degli inferi. Odisseo che diventa Nessuno, il poeta o l’indovino in grado di vedere oltre il confine, ma cieco a tutto ciò che è sulla terra.
Fu questa la mia condizione per molti anni. Ricordavo, a dire la verità, il mio nome, la mia identità e anche il mio passato, quasi tutto, tranne però quell’estate. E sapevo bene di aver perso sei mesi interi, sentivo il disagio di quello squarcio che aveva inghiottito poco più di centottanta giorni della mia vita, proprio come i raggi del sole inghiottiti dalle scure ombre dei vicoli.
Io che ho sempre fotografato ogni cosa come scusa per conservare i miei momenti, non avevo mai fotografato Nives. Non avevo nulla che lei mi avesse regalato. Non avevamo una nostra canzone, né un nostro posto, tranne il bar in quella strada che non percorsi più, per tutto il tempo in cui durò il mio stato di amnesia localizzata.
Fu un inverno lungo, l’anno in cui recuperai il ricordo di Nives.
Furono le strade, a guidarmi, come era sempre accaduto. Quando nasci in un luogo in cui i monti e il mare decidono l’intrico delle strade, e l’intrico delle strade decide la forma della città, non puoi non sapere che quell’intrico avrà un’influenza anche sulla tua vita.
Ripercorrevo quella zona un tempo nota e mai più rivista, in cerchi concentrici sempre più stretti, e ogni volta recuperando un pezzettino di ricordo.

Il bar però, non l’ho mai più rivisto. Ma forse si tratta solo di aspettare. Anche gli inverni finiscono sempre, e l’amore, dopotutto, è una questione di strade.

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