Nelle città ci sono strade che si incontrano, si intersecano a volte in
grovigli e labirinti, in un dedalo che ti disorienta senza un filo per
ritrovare la via, perché i fili si sono tutti aggrovigliati e annodati e a
sbrogliarli ti ci vorrebbe la vita. Strade fatte apposta per confondersi e
smarrirsi. Altre strade, invece, scorrono parallele, non come rette precise e
geometriche, ma di solito come serpentine ondeggianti, che sinuosamente
strisciano tra le case e le persone, infiltrandosi in mezzo ai tombini,
palesandosi d’improvviso dietro una piazza, eppure senza mai deviare dal
tracciato dell’itinerario di sempre.
E così ti capita di percorrere i budelli stretti di un cruciverba
cittadino, orizzontali e verticali che tra loro si aiutano, e se ne risolvi una
hai trovato la chiave per l’altra; oppure ti capita invece di lasciarti
trascinare tra le onde del serpente, e sai che ha a fianco un altro serpente, e
che in qualche modo potresti andare di là e confondere le acque, ma tieni duro,
diritto per la tua strada, ovunque ti porti, dovessi anche arrivare all’inferno
o perderti nell’aridità di una via senza sbocco, o ritrovarti in un amore
sbucato d’improvviso.
Fu così che incontrai Nives, un nome da bucaneve, da antica fiaba, che ti
immagineresti candida e pura, con pelle di alabastro, bianca come la neve e
rossa come il sangue.
Ma la pelle di Nives era color bronzo, i suoi capelli castani avevano poco
o niente a che fare con l’ebano, e anche le labbra, più che rosse come il
sangue, erano un color carminio appena accennato, rossetto non ne portava quasi
mai.
Aveva nello sguardo una luce velata, come se la parte d’infanzia che anni
troppo duri le avevano tolto, se la fosse ripresa negli ostinati sogni di
adulta.
Rideva di una risata cristallina e gioiosa, e rideva spesso, senza mai
perdere né l’innocenza della bambina segreta che ancora aveva nascosta dentro,
né il sottile dolore che l’accompagnava nella sua fuga dal mondo. Ché Nives era
sempre fuggita dal mondo, mai dalla vita.
Nives, dicevo, la incontrai un giorno che, dopo essermi ingarbugliato per
bene nell’intersecarsi dei carruggi, avevo deciso di prendere uno di quei
serpenti dalla coda, e seguirlo.
Il bar non lo avevo mai visto prima, e non era niente di speciale, un
locale come tanti, intimità comprata a poco prezzo con un po’ di luce soffusa
alle pareti, le tende decorate a fiori di campagna, qualche pubblicità
fintamente antica di birre e liquori. Ma c’era una freschezza non poi così
comune, una freschezza che sentivi nella cura delle tovaglie di stoffa sempre
allegre e pulite ben spianate sui tavolini, nelle composizioni di fiori secchi,
e nel sorriso che ti accoglieva quando entravi. Il sorriso di Nives.
Fui banale, come forse si è sempre, quando più vorresti che le tue parole
racchiudessero tutte le vite e tutte le storie e i mondi possibili, e invece
tutto quello che ti viene in mente è “può un cliente offrire da bere al
barista?”
Ebbi fortuna, non c’erano altri clienti nel locale, e lei rise e disse di
sì. E dopo, molte ore dopo, ore di parole insulse, importanti e tenere, quando
con un’impudenza che non era mai stata mia, le chiesi se mi avrebbe offerto un
caffè a casa sua, lei di nuovo rise, e di nuovo disse di sì.
Solo per quella prima volta, si lasciò attraversare con la furia smaniosa
che a me sembrava il modo naturale di far l’amore. Ma fu lei ad insegnarmi, un
pezzetto alla volta, il prezioso segreto della lentezza, dell’attesa. La pelle
esibita alla mia bocca e alle mani, mi sfidava alla scoperta di insospettate
sorgenti, causa dell’aridità del palato prosciugato dal desiderio, ma anche
l’unica acqua in grado di appagare la sete.
Mi offriva il suo corpo come offriva il caffè ai clienti fissi. Generosa,
con naturalezza consapevole. Non senza pensarci. Pensandoci, invece, perché non
c’era in lei quasi nulla di involontario. Mi raccontò un giorno una confusa
storia, non so quanto genuina, di innocenza perduta, di paure e incubi
quotidiani, e di vagabondaggi notturni nell’attesa spasmodica di quello che un
giorno, finalmente, aveva ottenuto: la libertà. Da allora, mi disse, tutto
quello che le era accaduto, era stato lei a volerlo, sempre. E questo potevo
crederlo.
Ma in altre occasioni, parlò di domeniche in cui sua madre faceva la
pignolata, così da noi si chiamano i pasticcini secchi ricoperti di pinoli, e
del suo profumo di lavanda, e di suo padre che tornava dal lavoro e la teneva
sulle sue ginocchia, dondolandola al ritmo di canzoni che lui stesso componeva.
Quale delle due infanzie era quella vera? O lo erano entrambe, e magari ce n’erano
anche delle altre, infinite sfaccettature, pezzetti di specchio da ricomporre
per avere l’immagine tutta intera? Non l’ho mai saputo, e forse non mi è mai
neppure interessato. Mi bastava quello che mi regalava lei, quei piccoli doni
di parole che mi porgeva nei giorni in cui si fidava di me.
Fu un’estate lunga, quell’anno. Estate di siccità, pochissimi giorni di
pioggia da maggio a ottobre. Dovevi rientrare nel garbuglio dei carruggi per
trovare luoghi impenetrabili al sole. Ma sempre ricordando che quando più
credevi di essere al sicuro, protetto dalla barriera delle case addossate una
all’altra, da un’ombra indomita e inviolata che copriva la tua paura
dolceamara, ecco, proprio in quel momento la strada si apriva, e di fronte a te
trovavi il mare, il morso della sua luce azzurra, il graffio della salsedine
nella gola. E quel sole raggiante e ridente, e appena un velo lieve, quasi
impercettibile d’inquietudine per quello splendore implacabile.
Fu un’estate lunga, e finché durò l’estate, Nives continuò a fidarsi di me.
Ma le estati finiscono sempre. Quando cominciavo a permettermi di sperare
che sarebbe scesa dalla corda su cui danzava i suoi passi di funambola, lei
scomparve.
Non intendo dire che se ne andò, che non si fece più sentire. Intendo dire
che sparì, si dissolse, si dileguò come se non ci fosse mai stata.
La dimenticai immediatamente, e ancora una volta, non mi fraintendete. Non
fu il facile oblio di un amante occasionale, ma la perdita assolutamente
involontaria di ogni traccia del suo ricordo.
L’amnesia, nella nostra immaginazione, è vicina alla morte, perché noi
camminiamo al passo della nostra memoria. Il fascino che hanno per noi i
racconti di chi ha perduto il nome, l’identità, il passato, è il fascino della
condizione di chi ha varcato il regno degli inferi. Odisseo che diventa
Nessuno, il poeta o l’indovino in grado di vedere oltre il confine, ma cieco a
tutto ciò che è sulla terra.
Fu questa la mia condizione per molti anni. Ricordavo, a dire la verità, il
mio nome, la mia identità e anche il mio passato, quasi tutto, tranne però
quell’estate. E sapevo bene di aver perso sei mesi interi, sentivo il disagio
di quello squarcio che aveva inghiottito poco più di centottanta giorni della
mia vita, proprio come i raggi del sole inghiottiti dalle scure ombre dei
vicoli.
Io che ho sempre fotografato ogni cosa come scusa per conservare i miei
momenti, non avevo mai fotografato Nives. Non avevo nulla che lei mi avesse
regalato. Non avevamo una nostra canzone, né un nostro posto, tranne il bar in
quella strada che non percorsi più, per tutto il tempo in cui durò il mio stato
di amnesia localizzata.
Fu un inverno lungo, l’anno in cui recuperai il ricordo di Nives.
Furono le strade, a guidarmi, come era sempre accaduto. Quando nasci in un
luogo in cui i monti e il mare decidono l’intrico delle strade, e l’intrico
delle strade decide la forma della città, non puoi non sapere che quell’intrico
avrà un’influenza anche sulla tua vita.
Ripercorrevo quella zona un tempo nota e mai più rivista, in cerchi concentrici
sempre più stretti, e ogni volta recuperando un pezzettino di ricordo.
Il bar però, non l’ho mai più rivisto. Ma forse si tratta solo di
aspettare. Anche gli inverni finiscono sempre, e l’amore, dopotutto, è una
questione di strade.
Molto, molto bello!
RispondiEliminaNotevole, soprattutto la seconda parte.
RispondiElimina