Non saprei quali oggetti portare con me,
forse i nodi, quei pochi che ho imparato,
i più facili da fare, difficili da sciogliere;
un sorriso scolpito dal lento incedere
delle rughe e dai margini del tempo, dolcezza
marchiata sul cuore a lettere di fuoco.
Ci sono parole che non so dirti, pensieri
schivi,
che volteggiano come aquiloni senza filo,
il canto della mia pelle, la goccia
sulla ragnatela illuminata dal sole
se l’immagino scendermi addosso come
la carezza di un’increspatura
nell’aria tranquilla di una domenica mattina.
Cose che non conosco, di cui non saprò nulla,
eppure le porterei con me, per stringere
ancora i nodi irrisolti, per incamminarsi
un’altra volta scalzi sulla lama del rasoio,
sul taglio delle pietre, spezzandosi i talloni
o saldamente stare, pazienti come scogli
permettendo che sfoghi il mare la sua rabbia.
Non so, e mi uccide non sapere;
sono barca alla deriva, disancorata,
mi sento piccola davanti a tutti i porti
che hai toccato, piccola, se penso
alle tue mani come vele, io, via navigabile
dalla tua isola alle stelle, la dalia rossa
che non hai colto e si è nutrita dei tuoi passi,
della tua terra; e tu hai contato i miei petali
uno a uno come parole, come semi,
come frammenti di un racconto pescato
con la canna al fiume e ributtato in acqua
mille volte, perché crescesse ancora, fino
a farsi tronco e albero e foresta,
sì che scorra la resina tra le strettoie
dei miei rami e non si pieghi il gambo al giorno
e al fuoco, né alla notte e al vento, ma a te solo;
a te, la pagina densa del libro che non ho letto
e mai finirò di toccare con dita impazienti,
all’infinito, negli interstizi tra il prima e il
dopo.
Nulla possono i corvi contro i miei occhi colmi
dell’inizio e della fine delle storie, e non c’è
da pentirsi di alcun peccato, altro che
di troppo amore, troppo, senza ritegno,
senza buona misura o ragionevolezza, o almeno
l’intento di redimere le anime perdute:
ma qui nessuno si è perduto, e comunque
mi basterebbero, se volessi essere salvata,
le tue ali, il tuo dolore e l’immagine
della tua faccia che mi guarda, prima che
sia memoria quel poco che ho capito.
Occorre essere perfetti per questa missione
di decidere chi deve espiare cosa, e quando
mentre io amo l’imperfezione troppo,
per potermene liberare facilmente,
amo quei tuoi passi di farfalla e quelli stanchi,
il respiro sommesso di chi non ha altra pretesa
che vivere per sé e per quel ritorno
a un’isola, che non è Itaca per tutti,
ché ognuno ha il suo ritorno, la sua patria,
gli amori di un tempo e quelli nuovi,
che attraversano lo spazio e il tempo
senza curarsi di quanti universi
ci siano da passare, quante veglie,
sul limitare del cielo e della sera.
Vorrei esserti anche madre, per amarti
senza che tu faccia nulla, solo
perché esisti, ed esserti anche figlia,
per chiederti ragione di ogni gesto,
sorella forse, per ridere insieme, ma di
nascosto
dopo che si sono spente le luci dei teatri.
Amarti, comunque, di tutti i nodi
il più semplice da stringere, ma per scioglierlo
non basterebbero tutte le vite trascorse
dai giorni in cui muoveva i primi passi il
mondo.
Vorrei cullarti, la tua testa sul mio petto
e sentirti gridare il mio nome come
la mezzanotte dei gatti, come fosse amore,
il vizio di darsi e prendersi con troppa innocenza.
Toccami, bruciami, sentimi solo con le mani,
a illuminare la mia pelle di desideri
indiscreti,
le tue mani, conchiglie, uccelli di mare, navi
di passaggio,
il capriccio del volo, la voce del viaggio e del
ritorno.
Fai del mio corpo indifeso la tua casa,
percorri la mia schiena come una strada aperta
le braccia luogo d’incontro, argine al dolore
le spalle un punto d’appoggio, l’arrotondamento
delle geometrie, i miei fianchi un granaio,
una lunga estate, il riso e il suono del mio
ventre, dove hai sciolto già la neve e tra le
gambe
ho un lago vulcanico, l’origine del mondo, e ti
offro
il momentaneo silenzio, prima che ti risuoni
dentro
l’eco di ogni uomo che sappia cercare
il paradiso da rovescio, nel posto sbagliato;
riprendi fiato, solo per perderlo ancora,
spezzarlo
ancora, cerca nella mia bocca il miele e
guardami,
guardami dentro, guarda la mia ombra scucita
e sia la tua lingua il filo che rimargina i
lembi.
Danza sulla mia rosa nuda, lascia solchi di
meraviglia
a inumidirmi gli occhi e il cuore e tutto il
resto
Senti la carne che si fa pensieri, o era forse
Il contrario, adesso non ricordo;
ruberemo alla notte il suo mestiere, fino a
mettere
la volta del cielo sottosopra e tutto sarà un
gioco,
facciamo che tu avevi soltanto finto di morire
dietro di noi c’è di nuovo il mare
- ed è ancora giorno.
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