Giacomo sapeva di aver sviluppato una sorta di assuefazione
alle vacanze.
Per quanto notoriamente avverso alla speculazione astratta,
negli anni aveva fatto alcuni tentativi di indagare la causa di questo
fenomeno, ma sapendosi particolarmente goffo negli esercizi del pensiero
metafisico, portava con sé il timore che le sue conclusioni potessero risultare
banali.
In molti altri casi della vita, infatti, si era accontentato
di constatare. Fare ipotesi gli pareva rischioso, perchè portava a distaccarsi
da ciò che si tocca, si vede, si sente. Dedurre richiede esperienza o coraggio.
O entrambe le cose. Il raccontarsi, il guardarsi dal di fuori, il descriversi,
la combinazione e ricombinazione continua degli episodi e delle motivazioni,
quella cosa a cui la gran parte degli individui sembra incapace di rinunciare,
più che affascinarlo, lo preoccupava.
Ad ogni modo avrebbe giurato che la sua indifferenza alle
vacanze fosse collegata ai suoi numerosi viaggi di lavoro, ma anche, e in
misura non trascurabile, al fatto che, unico tra tutti i duemilaquattrocentosei
dipendenti dell'Azienda, Giacomo consumava ogni giorno entrambi i suoi pasti in
mensa. Per riuscirci doveva arrivare al lavoro molto tardi, verso le nove e
trenta del mattino, pranzare presto, prima di mezzogiorno, e infine approdare
alla mensa deserta verso le diciotto e trenta. Il cuoco conservava qualcosa per
quel suo vizio monacale e lui lo scaldava nel micro-onde. Poi lo divorava in
silenzio sotto il ronzio delle luci al neon.
Il fatto che qualcuno cucinasse quotidianamente per lui da
molti anni rendeva, nella sua teoria, meno interessante e saporita la
permanenza in un albergo. Lo manteneva, inoltre, in forma, perché il cuoco
aziendale aveva il mandato di stare bene attento nel dosare i grassi e i
carboidrati.
La questione della salute fisica, che si collegava
inevitabilmente a quella della pensione, gli era venuta ad apparire essenziale
quando alla morte di suo padre si era sorpreso a chiedere all'impresa di pompe
funebri informazioni sulle dimensioni delle bare. Voleva prendessero le misure
per lui. Il becchino se l'era cavata con una pacca sulla spalla e un aneddoto
riguardo a suo zio. Posto di nuovo di fronte all'esotismo della sua indole, e
violando la regola aurea del “non teorizzare”, Giacomo aveva formulato
l'ipotesi che in un certo qual modo per lui andare in pensione equivalesse a
morire. Si era subito ribellato a quel pensiero stabilendo che si sarebbe
goduto almeno due decenni di tranquillità prima di sgonfiare il suo corpo,
modellato attorno a quarantatré anni di fatica.
Quarantatré anni.
Fedelissimo, Giacomo aveva permesso a una e una sola Azienda
di sottrarre la sua forza lavoro sotto forma di plus-valore per la gran parte
della sua esistenza. Non aveva e non avrebbe mai osato concepire ciò che stava
succedendogli in termini simili. Si era invece limitato a occuparsi in modo
preciso, ma con sempre minor passione, degli stessi prodotti, che erano
invecchiati insieme a lui e avevano assunto la sua stessa funzione: una
vestigia del passato, ma allo stesso tempo una soluzione talmente ben
congegnata da rendere scomodo, faticoso e poco economico passare a qualcosa di
diverso. Il suo prodotto era come la razza umana: presentava evidenti difetti,
ma non era facile sostituirlo.
Con il passare del tempo, era divenuto quasi impossibile
pensare a lui senza includere quegli oggetti e la loro produzione. Tuttavia,
dopo la pensione, i quadri dirigenziali l'avrebbero sostituito rapidamente e
avrebbero affidato le sue mansioni a un giovane ingegnere di recente
assunzione, che staccava prima delle diciotto e che si dirigeva a casa o
qualche volta nella grande città, attirato da viali alberati, rossetti e
aperitivi. Per una perversione del naturale flusso degli eventi, i suoi
prodotti non avrebbero protestato.
Questa era all'incirca la mole di pensieri che attraversava
Giacomo, seduto nella Hall del Grande Hotel Cinque Stelle in quella sera
primaverile. Tale e tanta. Era perturbante e un po' faticoso. Ricordò che anche
da ragazzino, nei lunghi pomeriggi trascorsi a Pavia in casa della nonna, gli
capitava di cadere preda della sua mente, come narcotizzato dai vapori del
lavoro mentale esalati dai compiti e dall'appropinquarsi della pubertà; vapori
che lo avvolgevano e lo intossicavano al punto da costringerlo in una tristezza
leggera. Decentrato e galleggiante, si fermava a studiare la matita o una forma
qualsiasi fuori dalla finestra, ma la nonna, abile scrutatrice e Stato di
Polizia, lo scopriva subito e gli imponeva insieme un rimedio e l'esigenza
stessa di rimediare per quel troppo di pensiero che lo aveva colto:
“Giacomo” diceva “Sei stanco? Hai fame?”.
Giacomo crebbe così mansueto e robusto, esperto nel
rimediare all'inevitabile struggimento della vita dormendo e mangiando. Fece lo
stesso tanti anni dopo, quella notte, a New York, nel grande Hotel, dove si era
recato in supposta ma non per forza fattuale vacanza, per visitare con
religiosa compostezza lo storico Apollo Theatre, dove aveva performato nel
rigoglio della virilità il suo idolo indiscusso: James Brown.
Si alzò dunque dal divanetto.
“Me ne andrò a dormire” si disse, a mezza voce.
La sua decisione andò quasi a urtare contro una interprete
del celebre pezzo del compianto Soul Brother Number One, cioè una sorta di
planimetria illustrativa del sesso, una mappa catastale del desiderio, una vera
e propria “Sex Machine”.
Si trattava in modo inappellabile di una escort, cioè di una
prostituta di talento, dedicata a uno dei facoltosi clienti dell'Hotel. Gli
parve, a Giacomo, di essere davvero in presenza di una macchina: solo le
macchine, di cui era discretamente esperto, svolgevano in modo così accurato la
funzione per cui erano state concepite. Un uomo di impasto differente avrebbe
portato più in là il ragionamento, concludendo che una persona ridotta a
funzione, a macchina, era forse lesa nella sua umanità, ma Giacomo si fermò più
a monte, o meglio, imboccò una breve deviazione autobiografica, andando col
pensiero a tutte le volte che i colleghi lo avevano deriso bonariamente per via
dellla voce, da lui stesso alimentata, che lo voleva occasionale frequentatore
di prostitute svizzere.
Il motivo per cui Giacomo alimentava tali false credenze era
l'indole di molti, sostenitori convinti dello “schifo tutti, schifo nessuno”.
In altri termini, aggiungendo al suo personaggio quella nota patetica (“solo
pagandole, te le scopi, Giacomo!” gli diceva il direttore del personale,
sollevato) e d'altro canto risolutiva rispetto all'enigma della sua quieta
solitudine, si garantiva una certa approvazione, solo lievemente sfumata nel
disappunto. La realtà, del resto, era molto più interessante e da un certo
punto di vista inspiegabile: il rapporto di Giacomo con le donne era infatti
iniziato e finito in un decennio, tra i venticinque e i trentacinque anni. Si
era sviluppato con fatica estrema, in uno sforzo di risposte tardive e
inefficaci alle richieste femminili e soprattutto era stato solcato da dubbi
tremendi circa la natura e la quantità del proprio desiderio.
Giacomo, in fin dei conti, gradiva la solitudine e questo
gusto si era tramutato in determinazione dopo l'unico tentativo un po' più
serio, l'unico spiraglio un poco più rilevante, che aveva concesso a una donna.
Durò due anni, in una sorta di tensione muscolare verso la luce, e si risolse
poi in un precipitare quasi proverbiale, tra nubi di piume e cera disciolta. Ma
di Icaro Giacomo aveva poco, col suo incedere agorafobico tra sguardi ambigui e
conversazioni occasionali, con ansia fulminea e inesorabile, smorzata soltanto
nel momento in cui gli riusciva di pensare che no, la donna in questione non
era nata per lui.
Fu così che la sua vita descrisse una traiettoria rispetto
alla quale James Brown avrebbe avuto un buon numero di obiezioni, per
ricongiungersi però con la traccia del Mito, in una serata qualsiasi in una New
York cinica e aliena. Era tornato, nemmeno troppo penitente, sulla strada del
Soul e del Funk, come a dire che non tutto in lui era tipicamente suo e
banalmente suo e che lui era vivo e irrazionale e non riassumibile in un
trafiletto. Sette otto righe, per esempio un necrologio.
L'intento simbolico del suo viaggio gli permise però a quel
punto, mentre si avviava verso l'ascensore e di lì in camera, di cogliere
qualcosa nello sguardo di una donna vestita di verde che camminava a pochi
metri da lui e soprattutto, di rispondere. Egli colse, cioè, un'attenzione
speciale, come un “anche tu...?”, e poi qualcosa di ancora indefinito,
affascinante. Restò dunque fermo per qualche secondo a guardarla, anzi a
guardare lei che guardava lui e lei fece lo stesso e ben presto i due erano
seduti a un tavolino, non lontano da dove Giacomo era rimasto per diversi
minuti immobile a meditare. Erano italiani, entrambi. Prossimi alla
pensione.
L'altro elemento, incredibile, che li accomunava, era il
motivo della loro presenza a New York: un amore mai del tutto giustificato per
James Brown.
Parlarono, parlarono moltissimo. Non condividevano quasi
niente all'infuori di James Brown, ma attorno a quell'unico perno roteavano
come le sfere infuocate della cosmologia biblica l'Alfa Romeo, i libri di Paulo
Cohelo, il tennis domenicale, il mare della Sardegna, gli occhi ambrati, un
accento emiliano, tanta tristezza, un po' di allegria, i figli avuti e mai
avuti, i vinili della PFM, la pelle cedevole sotto la mascella, l'industria
quattro punto zero, il corso di lingua araba, l'amore per la barca a vela,
Renzo Arbore, Carlo Verdone, la sorella bipolare, la militanza politica nei DS
e la produzione dei suoi prodotti, descritta, per la prima volta, in una
colorita e piacevole abbondanza di dettagli. Quando lei gli propose una
metafora basata su un film di Woody Allen, Giacomo percepì per un istante una
fessura aprirsi dietro le sue spalle e l'irrompere roboante di qualcosa di poco
bello e molto amaro, ma poi recuperò galoppando sulle spalle possenti del Soul
e ricucì lo strappo, a costo di negare la ben nota e clamorosa insufficienza di
ciò che si vive rispetto a ciò che si immagina.
Fu in un unica, lunghissima, frase interiore che la conobbe,
la amò, seppe di essere amato, prese l'ascensore, entrò in camera, si mise il
pigiama, si lavò i denti, scivolò tra le coperte e concluse, chiaro e fresco
come uno scroscio d'acqua sorgiva: “Questo è l'inizio della mia nuova vita”.
Dopo quella sera di metà Aprile, in quella Manhattan non
ancora ridotta nel fascino e nelle ambizioni, resistente alla Cina, all'effetto
serra, all'etica protestante, al trascorrere del tempo e agli americani, di
Giacomo si persero le tracce. La notte ebbe ragione sul suo corpo e lo ridusse
all'incoscienza, ma la vittoria venne sporcata da un sogno nel quale seppe con
chiarezza chi era riuscito a non diventare.
Giacomo non era un padre di famiglia, non era coraggioso,
non aveva avuto una moglie e quindi nemmeno un'amante, non era capace di
guidare una moto, un'azienda, non era mentore di nessuno, non era un
cardiochirurgo, un pittore come suo zio, era stato un calciatore appena
mediocre, non aveva mai capito il pensiero di Kant né la relatività di Albert
Einstein, aveva vissuto senza aver mai letto Freud, Sartre, Borges,
Dostoevskij, senza aver visto un film di Pasolini, non investiva in azioni, non
giocava alle macchinette, non era un malato psichiatrico, non aveva mai fatto
sesso in auto, per strada, in un bosco, non era un prete, un animalista, un
omosessuale, non aveva coscienza politica, non era un uomo cattivo, si gestiva
male sui social network, non aveva idea di come si fa felice una donna, né di
come lui, Giacomo, avrebbe potuto essere più felice, più sicuro, più forte.
Queste immagini, queste alternative, comparvero tutte una dopo l'altra in sogno
e Giacomo capì di non averne avuto bisogno.
Il giorno dopo incontrò di nuovo quella donna. Insieme
fecero diverse cose che non avrebbe alcun senso raccontare.
Bellissimo, complimenti!
RispondiEliminaC'avevo visto lungo, contentissimo che la vittoria sia andata a te! Ci si vedrà alla premiazione ;-)
EliminaNarrato molto bene e con la necessaria sospensione di giudizio nei confronti del personaggio. Complimenti.
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