venerdì 30 giugno 2017

Stefano Ficagna - Riflessioni sull'orlo del precipizio

Oggi ho incontrato la morte due volte. Il nostro corpo cambia, le cellule si rigenerano continuamente e bastano pochi mesi per essere una persona completamente diversa, almeno esteriormente. Ma dentro? Non è legittimo pensare che anche la nostra anima, o quel che si suol definire tale, venga toccata da questo continuo rinnovamento? Un eterno ciclo karmico, con l’unica pecca di farci ripiombare, ogni volta, sempre in noi stessi, almeno finché una parvenza di conclusione non arriva a togliere di mezzo gli ultimi brandelli di ciò che siamo stati, per gettarci in una nuova esistenza. Sperando che il definitivo congedo non arrivi per consunzione, una lenta e definitiva erosione dello spirito.


Il primo momento in cui ci siamo incontrati è stato in ufficio. Aleggiava intorno a due colleghi, che per qualche motivo hanno cominciato a litigare furiosamente. Di ragioni per attaccarsi a vicenda in questo modo il posto ne abbonda: speranze di carriera, stress da superlavoro, superiori incapaci e poco, se non nullo, tempo per comunicare qualcosa che non faccia parte del programma quotidiano delle mansioni. Li ho visti cominciare a prendersi a male parole, ignaro di quale fosse stata la scintilla scatenante, mi sono alzato dalla sedia quando li ho visti prendersi per il colletto della camicia, le facce paonazze e le urla che coprivano il ticchettio snervante delle mani sulla tastiere. Quando un collega è arrivato a dividerli mi sono accorto di essere ancora nel mio cubicolo, immobile, a guardare fisso davanti a me con le mani abbandonate lungo i fianchi; ero sicuro di essermi alzato per un motivo, ma ormai mi sfuggiva.
L’ho incontrata nuovamente mentre mi accingevo a tornare a casa, nel dedalo tortuoso dei corridoi della metropolitana. Era accanto ad un uomo inginocchiato, un cartello con una richiesta d’aiuto appoggiato vicino a lui, una piccola ciotola di porcellana a contenere le monete donate con la consueta parsimonia dalla gente di passaggio. Mi colpì il suo aspetto: l’uomo indossava infatti un completo di buona fattura, era sbarbato e, non fosse stato per quella richiesta d’aiuto e per la posa insolita, lo si sarebbe scambiato per uno dei passanti che cercavano di evitare il suo sguardo. Il cartello recava, laconicamente, la frase “Ho perso tutto. Aiutatemi a rialzarmi.” Dopo averlo superato mi guardai le mani vuote, come se avessi dovuto fare qualcosa con esse, ma senza ricordare che cosa. Quando passai oltre sentii la stessa voce che mi aveva solleticato l’orecchio in ufficio, le parole della morte dell’anima.
‘Non è una mia responsabilità, dicevano, e la voce era la mia.

Sono le due del sabato pomeriggio, e finalmente posso rilassarmi un po’. Fuori splende il sole, e l’aria primaverile mi invoglia ad uscire: ma io rifiuto l’invito. Scarico un po’ di film, leggo un po’, ogni tanto sonnecchio sul divano: Borges scriveva, a proposito del primo imperatore cinese Qin Shi Huang, che la sua paura della morte lo aveva portato a rinchiudersi nel suo palazzo, convinto che ‘la morte non può entrare in un orbe chiuso’; so che l’immortalità non ha arriso a colui che iniziò la costruzione della muraglia cinese e diede alle fiamme i libri degli antenati, eppure è col suo stesso spirito che faccio di queste quattro mura il mio santuario.
Uscire significherebbe avere nuove occasioni per incontrare la morte, mentre qui non mi viene a trovare a meno che non la inviti. Rimango da solo, perlopiù in silenzio, ed evito contati con chicchessia: così mi tengo lontano dall’indifferenza, dall’odio, tranne quello che provo per me stesso.
Non sono religioso, eppure continuano a venirmi in mente paragoni divini. La televisione non riesce a farmi smettere di pensare, non oggi; mentre scorrono le immagini di un film insignificante mi chiedo perché, se Gesù ha perdonato una vita di sbagli al ladrone alla sua destra, egli non dovrebbe fare lo stesso con me. Quale inferno devo avere dentro per non essere capace di accettare i miei errori e passare oltre? Ma le mie colpe, forse risibili, sono dissonanti, nei momenti in cui la morte viene a visitarmi sento spezzarsi l’armonia in stridii così contorti che non esistono generi, metriche o scale atti ad unirli in una musicalità che possa essere appagante anche per un solo essere nell’universo.
La mia condanna all’esilio non mi è imposta, ma non riesco a vedere nel confronto con la morte un qualcosa da accettare: non ci riesco perché non ho amore da donare, ho un cuore dalla linfa inaridita, e questa mancanza mi impedisce di essere completo. Come vorrei essere come Prometeo, che ha amato tanto l’umanità da sacrificarsi per lei, facendosi straziare le carni all’infinito; o come Atlante, che si fa carico del peso del mondo perché la sua sofferenza è nulla se confrontata alla grandezza del suo compito.
Metto il film in pausa, un pensiero mi colpisce all’improvviso. E se Prometeo, invece dell’umanità, amasse l’aquila che lo tortura? Avrebbero più senso, allora, l’amore e la vita stessa, che apprezziamo solo nei brevi momenti in cui ci culla e ci riscalda: ma l’amore non può essere slegato dalla morte, non ci sono né onore né infamia senza il rischio; forse, mentre vede arrivare la sua pena su possenti ali, un senso d’infinito affetto lo avvolge, amore per ciò che cerca invano di distruggerlo ed invece lo completa.
Spengo il televisore. Mi sono ingannato per troppo tempo, la morte è qui con me ora più che mai. Non smetterò mai di portarla dentro, ma posso portarla a conoscere l’amore: esco di casa titubante, mentre inadatto al mondo mi inoltro per le strade in cerca di un po’ di pietà per le mie mancanze. Ho un fuoco nuovo che mi riscalda, ma è ancora una debole fiammella: temo un vento che non spira che per me, ma proteggo con tutte le mie forze quel piccolo alito caldo di speranza.

Camminare per le strade è un tormento continuo. Ho pensato spesso, negli ultimi mesi, agli hikikomori, persone che si seppelliscono in casa impaurite dal mondo esterno, ed ora eccolo qui, il loro più grande timore.
Ho abbandonato la soglia di casa con l’intenzione di trovare accettazione, di alimentare il fuoco che ho sentito per un attimo scaldarmi, ma ad ogni passo sento solo un senso di inadeguatezza. La mia rivelazione, così forte fino a qualche attimo fa, mi sembra ora solo una di quelle epifanie che puoi avere leggendo una frase su facebook, o aprendo un biscotto della fortuna in un ristorante cinese: illuminazione tanto improvvisa quanto flebile. Cosa ci faccio qui? Perché il mondo dovrebbe avere bisogno di me, perché dovrebbe volermi? Mi sento gli occhi addosso di ogni passante, ogni faccia che evita l’incrocio coi miei occhi mi sembra farlo con sdegno, trovo un rifiuto in qualunque gesto della folla che mi ritrovo attorno. Eppure avanzo, riesco a capire che, se dovessi tornare indietro, diventerò anche io come quei disperati che hanno chiuso fuori il mondo per amare od avvilire solo sé stessi.
Ma non è per preservarmi che mi rinchiuderei nella mia gabbia tutt’altro che dorata, no: è per preservare il mondo da me che eviterei ogni contatto. Non si può amare il mondo amando solo sé stessi: lo si può fare forse amando  tutti gli altri? No, perdonare le loro colpe è solo una patetica scusa per autogiustificare i miei errori, per difendermi strenuamente di fronte ad un tribunale universale che ha me come unico imputato. Persino Gesù nel tempio si scagliava con veemenza contro i torti: un amore come il mio rasenta il freddo tanto da vicino che mi chiedo come possa quella fiammella scaldare il mio cuore, farlo ardere abbastanza per farmi provare finalmente qualcosa di reale. Ora è solo uno specchio della società, che non condanna solo per non indossare veramente i panni degli altri: ma la santità di chi ama profondamente tutto il creato in egual misura, ed al contempo ama il singolo allo stesso modo, sembra sempre lì ad un passo. Chissà poi perché mi vengono in mente tutti questi esempi religiosi, io che mi sono sempre professato fieramente agnostico.
Passo accanto ad un locale da cui sento provenire una musica nota, qualcosa che scava nelle pieghe di un passato felice e mai dimenticato. Oggi assomiglia più ad un lieve invito che ad un triste rimpianto, e titubante decido di entrare ed accomodarmi al bancone. Una birra forse mi aiuterà a trovare il coraggio di affrontare questa sfida che nessuno può intuire, a scalare le vette inviolate delle mie paure più profonde.

Come sia finito qui non lo so. La musica rimbomba mentre una band si esibisce sul palco, palline da flipper che schizzano da una parte all’altra della pedana al pari del pubblico. Ci sono anche io, lì in mezzo, e la fiammella ora non rischia più di essere spenta. Mi sento parte di qualcosa, appagato, e non sono le birre bevute ad avermi procurato questa sensazione di beatitudine: anzi, mi sento lucido come non mai.
Ti incontro per caso al bancone, il concerto è finito ma la musica non smette di risuonare dalle casse. Dici che assomiglio a qualcuno che non conosco, ed è così che cominciamo a parlare. Mi racconti un po’ di te, io ascolto e parlo poco: il fuoco che ora dovrebbe ardere ancora di più si sta pian piano spegnendo; la mia morte mi sussurra all’orecchio, attendo il momento in cui ti stancherai di me ed andrai altrove, a prendere un altro cocktail o a conversare con un amico. La tua mano si avvolge alla mia con naturalezza mentre mi trascini via, tanto che non ho tempo per stupirmene.
Ho perso il senso dei gesti che portano ad un fine, ma se il fine sei tu vorrei mandarli a memoria per perpetuarli all’infinito. Mentre ci chiudiamo una porta alle spalle e ci baciamo io non vedo cosa ho attorno, dove siamo e quando: non ho occhi che per te. Potremmo essere a contorcere i nostri corpi sulle vette dell’Himalaya e non sentiremmo il gelo, né lo temeremmo, poiché il freddo lo portiamo solo dentro di noi: ora c’è un fuoco che ci unisce, e potrà scaldarci o consumarci; l’importante è che ci faccia sentire vivi.
Restiamo qui per sempre. Rendiamo infinita un’ora, un attimo, nutrendoci di noi, santi e cannibali, carni fameliche e voraci intrise di spiriti quieti ed assoluti. Saziamoci dei nostri organi finché non rimangano più corpi da esplorare, ed alimentiamo l’infinito con l’armonia dei nostri pensieri indissolubilmente legati.


Forse domani non ti ricorderai di me. La morte mi sussurra all’orecchio, ma non l’ascolto. Basta un solo momento a giustificare mille sofferenze, e quel momento è ora: non lo perderò nei miei tortuosi abissi.

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