Le frange del tappeto sono beige,
non sembrano essere fitte come dovevano esserlo in origine. Le forme
geometriche chiare, che si ripetono sullo sfondo porpora del caldo tessuto,
sono un movimento armonioso per la stanza con il tetto spiovente. Le travi di
legno scuro sono a vista. Il resto del soffitto è bianco.
Ma l’attenzione di
Manfredi è catturata da quelle frange, ne è distratto e incantato. Innumerevoli
fili di stoffa, lunghi tutti più o meno quanto un palmo di mano. Quelle frange
di stoffa del tappeto dell’analista gli danno un brivido. Manfredi è sdraiato sulla
chaise longue di Le Corbusier dove è solito fare la sua seduta il mercoledì
pomeriggio alle sei.
Come ogni mercoledì alle sei, o
giù di lì, prima di sdraiarsi, Manfredi aggiusta il cuscino cilindrico legato
alla poltrona. Con quel cuscino la testa resta troppo in avanti, la posizione
non lo rilassa e l’analisi non funziona. Allora lo lascia cadere indietro, il
cuscino rimane penzoloni lungo lo schienale della poltrona e così riesce a
tenere il collo ben disteso e la testa sufficientemente in alto per far
scorrere meglio i pensieri e non restare troppo ancorato alla realtà che ha
davanti e alle incombenze del suo lavoro; ha una società di famiglia da
amministrare. Da lì, vede quelle frange che tanto lo distraggono. Da lì, con la
testa leggermente verso l’alto e il collo lievemente flesso all’indietro, il
pensiero successivo: - ma certo le scarpe della dottoressa! -
Manfredi inizia a sentire il
desiderio. Di nuovo. L’analista è seduta dietro di lui su una poltrona di
velluto verde scura. Lui sente solo la
sua voce soave e rassicurante, non la vede.
- Sì? Mi dica? - Lo interroga la
dottoressa come a voler sbirciare nella mente del paziente attraverso la
fessura di una tenda.
- A cosa sta pensando? -
Silenzio. Manfredi non riesce a
dire nulla.
Poi piano piano non resiste.
- Ricordo un giorno
quest’inverno, doveva essere dicembre, lei era vestita di nero, portava dei
pantaloni larghi con la piega davanti e la vita alta, le arrivavano a metà
polpaccio. Aveva una maglia nera di velluto con uno scollo a vu, non troppo
profondo, le pendevano degli orecchini con dei cerchi d’orati, almeno tre in
ordine crescente a partire dal lobo, dovevano essere fatti da un orafo
artigiano. Indossava degli stivaletti scamosciati, neri, con le frange. -
- Mi piaceva. - É la prima volta che
glielo dice.
Manfredi sente caldo, quel
ricordo lo eccita.
- Bene, - dice ferma la
dottoressa.
- Bene? - risponde Manfredi
stupito.
- Sì, bene, - rincara lei.
Manfredi pensa che l’algida
dottoressa, sia in imbarazzo e non sappia cosa rispondergli. Attribuisce
l’imbarazzo al fatto che lei è più giovane di lui e che per questo motivo non è
preparata a simili situazioni con i pazienti.
Manfredi decide quindi di non
incalzare oltre e si lamenta decantando la solita solfa; la vuole difendere in
cuor suo.
- Insomma! Ma quando guariranno i
miei disturbi? La cosa sta diventando ingestibile, oggi un altro dipendente ha
dato le dimissioni. Sempre la stessa storia, dice che il lavoro non fa per lui;
ha resistito appena sei mesi. Ma io lo so che ha deciso di andar via perché l’ho
insultato. Non faccio altro dalla mattina alla sera. Umilio il prossimo. Provo
piacere nel farlo. Non riesco a trattenermi. Quando qualcuno lavora bene non
dico nulla, ma se vedo qualcosa che decido anche opinatamente che non mi piace,
è finita. Inizia l’opera di distruzione cosciente della dignità dell’autore del
misfatto. Non ne posso più, non che la cosa mi infastidisca più di tanto di per
sé, ma sta diventando un problema per l’azienda e temo le cause giudiziarie.
Già ne ho subite tre: mobbing, mi hanno condannato persino alle spese. -
- Ci sono voluti tre anni per
riconoscere che il suo comportamento è il sintomo di qualcosa di più profondo
che non funziona, adesso si dia il tempo, piano piano le cose andranno meglio.
Lei intanto provi a fare gli esercizi che le ho consigliato. Cerchi poi di ripensare
tra sé e sé al discorso sulle cause della sua ira, cerchi di rivedere il clima
conflittuale nel quale è cresciuto, quanto pativa nel vedere suo padre dirigere
tutti, compresa sua madre, come fosse un capitano della marina. Quando sta per
rivolgersi in modo scontroso a qualcuno ripercorra questo film nella sua mente.
Vedrà che andrà meglio, poco alla volta, sempre meglio. Ne sono sicura. - Risponde
decisa la dottoressa.
Manfredi non ha sentito una
parola. È rimasto al tappeto, alle frange, alle scarpe di lei che lo hanno agitato.
Pensa a come l’avrebbe baciata; immagina di spogliarla. Si chiede come stia con
i capelli sciolti. Lei li porta sempre legati, con una coda di cavallo bassa; i
capelli le coprono le orecchie, ha la pelle chiara e i lineamenti sottili. È
alta come lui. Ha le gambe lunghe e un petto poco pronunciato. Poi Manfredi pensa
che a casa dei propri genitori nessuno avrebbe mai indossato delle scarpe con
le frange, sua sorella non avrebbe certo potuto farlo senza sentire qualche
commento denigrante o peggio di scherno, soprattutto da parte di suo padre. Le
zie invece le avrebbero fatto un commento positivo probabilmente, ma così falso
da mostrare nitidamente che era fatto dall’alto verso il basso. Da chi sta
pensando che non sarai mai come loro. - Chi erano poi loro? - continuava a
domandarsi fra sé e sé Manfredi.
Si ricorda che da ragazzo
percepiva che sua madre si sarebbe concessa volentieri qualche peccatuccio
frivolo come uno smalto rosso o delle scarpe argentate, o, magari, con le
frange. Non era questione di pudicizia o femminismo. Era un fatto d’eleganza,
di stile. Bisognava essere sobri. In tutto. Ma in fondo sua madre voleva
trasgredire. Manfredi dal canto suo stava imparando che si trasgredisce perché
in realtà si vuole affermare la legge, violandola la si fissa, la si vede. La
legge è come una frontiera, finché non la si travalica non esiste. O ancora
come il confine disegnato da una costa rocciosa di un’isola quando viene
travolta dal mare in burrasca. La roccia si scopre più profondamente quando
arriva il cavo dell’onda e si forma la risacca, mostrando così, per un momento,
una maggior porzione di terra di quando il mare non sia calmo.
- Sì? - domanda con il suo tipico
tono interrogativo la dottoressa allungando oltremodo le vocali.
- Nulla. Pensavo ancora ai miei
insulti, a mio padre, al suo fare totalitario. Oggi ho imposto a Mattia, il mio
collaboratore, di darsi del coglione, glielo ho ripetuto almeno tre volte, poi
finalmente lo ha detto. Ero soddisfatto - risponde Manfredi omettendo gran
parte delle associazioni. Il paziente è pieno di riserve e la dottoressa se ne
accorge.
- Bene. Ci vediamo mercoledì
prossimo? -
- Questa cosa dell’imprevedibilità
della durata delle sedute proprio non la capisco - borbotta Manfredi. La
dottoressa sorride, gli da la mano e si congedano dopo appena venti minuti.
Olivia
Qualche anno prima, Olivia aveva
praticamente costretto il marito ad iniziare l’analisi. Manfredi non era
d’accordo, le cose non stavano andando bene neppure fra loro e soprattutto era
in atto un vero e proprio esodo di colleghi e dipendenti dalla società di
famiglia, non c’era nessun tipo di continuità e la gestione stava sfuggendo di
mano. Olivia, dicendogli che era per il bene dell’azienda di suo padre, ebbe
gioco facile nel convincerlo, ma era da anni che ci provava.
Si erano incontrati al lavoro la
prima volta, lei era figlia di un socio di minoranza. Le famiglie si
conoscevano, non ci furono troppi problemi e si sposarono. Prima del matrimonio,
Manfredi dovette partire per Belgrado, era ancora giovane, doveva formarsi e rafforzare
le proprie spalle nelle sedi più lontane per imparare a conoscere tutta la
filiera: dalla produzione alla distribuzione. Manfredi e Olivia stavano già
insieme all’epoca, ma una volta partito lui iniziò a subire il fascino di una donna
serba. Si chiamava Anie, aveva origini francesi. Olivia aveva capito, nonostante
fosse lontana; Manfredi non faceva nulla per non lasciarglielo intendere e lei
iniziò a dimagrire. Olivia ricominciò ad avere delle crisi: smise di mangiare.
Non riusciva a mandar giù nemmeno gli gnocchi al ragù che sono il suo piatto
preferito. Nulla di nulla. Ingoiava insieme all’acqua solo qualche boccone per
non morire, ma solo pochi, se avesse mangiato di più non avrebbe saputo trattenerlo.
Poi beveva dei succhi di frutta e delle spremute d’arancia. Era preoccupata.
Tutti le dicevano che era troppo magra, che stava scomparendo e a lei saliva
l’ansia.
Fortunatamente ha incontrato una
dottoressa che ha saputo aiutarla. Quando Olivia le chiedeva se anche lei la
vedesse troppo magra, la psichiatra mentiva sapendo di mentire negando
l’evidenza. Questa era la più grande rassicurazione per lei. Poco alla volta
riuscì a nutrirsi di nuovo e, dopo qualche tempo, riconquistò il suo fidanzato.
Giulia
Manfredi però non è cambiato. Aspetta
l’analista. E lei, Giulia, ansima mentre lui la bacia. Lui sapeva che il lunedì
mattina lei avrebbe avuto l’ultima seduta a mezzogiorno. A dicembre Olivia gli
aveva chiesto di spostare la seduta per andare alla recita di Natale del figlio
e Giulia la spostò lunedì a quell’ora, usava quello spazio per i recuperi. Così
è andato da lei, senza preavviso, alle dodici in punto citofona al numero dieci
di via delle Alpi.
- Chi è? -
- Manfredi! - Risponde con voce
piena lui, come se stesse vivendo un’epifania.
Lei, senza pensarci troppo, apre.
Lui corre per i tre piani di scale.
Arriva affannato, lei è sulla porta. La mano di lui le stringe il fianco, le
due labbra si sfiorano, si baciano. Il pianerottolo è freddo, i quadri appesi al
muro davanti all’ascensore sono quelli che spesso hanno guidato le associazioni
di Manfredi. Stavolta è diverso.
Giulia si sveglia di soprassalto.
È sudata. Capisce subito che si tratta del transfert, che, tra l’altro, è stato
sollecitato dalle parole di Manfredi nel corso della seduta precedente. Si
alza, mette su il caffè, fa un bucato, stende i vestiti bagnati che erano
rimasti nella lavatrice finita durante la notte, accende la radio e prepara la
frutta per la sua prima colazione.
Manfredi
Manfredi è in riunione con gli
altri amministratori, quando squilla il cellulare. È la suocera:
- Olivia ha avuto una crisi.
Erano anni che non ne aveva. Ha smesso di mangiare, credo da giorni ormai. Nessuno
se ne è accorto. È svenuta. Siamo in ospedale.
- Va bene, arrivo, - risponde lui
buttando giù e inventandosi una scusa con i colleghi di lavoro.
Manfredi sale in macchina e lungo
la strada pensa a Giulia. Pensa a lei e alle associazioni che fa quando sono
nella stanza con il tappeto con le frange. Pensa al desiderio per lei e quindi
alle attese prima delle sedute. Rivede impressa nella sua mente la frase di un
filosofo che ha letto distrattamente in un libro mentre aspettava di entrare da
Giulia, una di quelle volte in cui lei lo ha fatto aspettare anche un’ora. Lui
paziente aspettava, la desiderava. E adesso la frase non lo lascia libero: “aimer, c’est donner ce qu’on n’a pas”. È
un disco rotto. Non si ferma.
- Perché adesso? - si domanda
Manfredi.
- Adesso no - cerca ancora di
scacciare il pensiero, come fosse un foglio da stracciare nella mente. Ma
questo si ripresenta incessante, ancora e ancora.
- Lo sapevo io che non dovevo
cominciarla neppure questa storia dell’analisi - brontola Manfredi sperando di
togliere l’attenzione dalla frase che non lo abbandona.
Poco prima di entrare in
ospedale, dopo aver parcheggiato il macchinone impolverato, Manfredi intuisce lucidamente
che quello che lui chiama il vero desiderio è l’incontro di due fragilità,
ospitare le reciproche mancanze. Tutto si districa, d’improvviso la mente è
tersa.
Quando arriva in ospedale trova
sua moglie con la flebo. Lei accenna un sorriso e solleva con poca energia le
spalle. È dispiaciuta. I figli. Non vuole farsi vedere così. Lei sa che per
questo lui la lascerà. Manfredi non sopporta che i figli la vedano fragile. Lei
sa che la loro relazione e il loro matrimonio hanno le ore contate.
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