Qualcuno ha socchiuso le imposte. Un’ombra fresca invade la
stanza risalendo dal giardino. La trasparenza delle tende si gonfia e poi si rilascia mollemente.
Io sono qui. La aspetto.
Ho trascorso la settimana chiuso nel mio silenzio, con un unico pensiero:
rivederla, rivedere la sua grazia sottomessa, accarezzare con lo sguardo le sue
lunghe dita, osservare di lei ogni cosa, senza la paura di venir sorpreso,
senza il timore di un rifiuto.
Suonano alla porta. Eccola, è lei che viene, preceduta dalla
sua voce che pare l’acqua di un ruscello.
In questa casa tutto parla del passato: il centrino ricamato
sul tavolo di lucido mogano, i volumi in bell’ordine dentro la spessa libreria,
il gatto che dorme silenzioso in un angolo del divano e che sembra non essersi
mosso mai da lì.
Ogni cosa qui sembra vecchia. E’ vecchia.
Lei invece…Lei è aria nuova, distillato di giovinezza, amato
disordine.
Solo pochi passi ormai ci dividono. Vedo la sua mano
scostare i pesanti drappeggi di velluto che separano la stanza della musica dal
corridoio.
Oh, meravigliosa visione!
Avanza a piccoli passi graziosi, facendo ondeggiare l’orlo
della gonna appena sotto le ginocchia, un’alta cintura di stoffa le abbraccia
l’esile vita e nella camiciola estiva risaltano bianchi e diafani il collo
flessuoso e le lunghe braccia. Un nastro colorato le lega i capelli. Come mi piacerebbe sciogliere quel nodo!
Non mi guarda, tiene gli occhi bassi mentre sistema sul
leggìo gli spartiti. Poi avvicina lo sgabello al piano, prova la distanza dalla
tastiera, s’aggiusta ancora. Infine raccoglie le sue mani in grembo e resta in
attesa.
Prima che possa aver trovato il coraggio per alzare il suo
sguardo su di me, irrompe a dividere la nostra silenziosa intesa quel farabutto
panciuto che avrebbe la pretesa di insegnarle a suonare.
Ma lui, con la sua pancia prominente e i suoi insulsi baffi
non può. E non può perché lei è già musica, naturale armonia di suoni e di
gesti.
“Il solfeggio, eh? Si è preparata questa settimana col
solfeggio?” la assale.
Lei, che è pura arte ai miei occhi, “Sì” risponde
timidamente. “Ho fatto più volte tutti gli esercizi che mi ha assegnato.”
Mi si ritorcono le budella al pensiero di lei che, faticando
a contenere la bellezza che prorompe da ogni suo gesto, si piega al volere
dell’uomo che la tiranneggia e la tortura, anche quando non c’è, obbligandola a
dure e insopportabili esercitazioni.
Quali armonie scaturirebbero dalle sue dita deliziose se
solo fossero lasciate libere di scegliere fra crome e biscrome!
Lui non molla; non pago della candida sincerità e della
fedeltà indiscutibile di lei ai suoi comandi, deve metterla alla prova: “Bene,
bene. Vediamo allora. Questo è un allegro con brio, un quattro quarti. Mi
raccomando, stia al tempo”.
I suoi occhi adesso mi guardano intensi e mi sembra di
cogliervi un’ombra di supplica. La sua mano fuggevolmente mi sfiora.
E il mio cuore! Questo povero cuore inizia a battere e in me
la vita inizia a scorrere al ritmo della sua mano che si alza e si abbassa, in
battere e in levare, e poi volteggia nell’aria a scandire la successione
ritmica delle note.
Sono così rapito dai suoi movimenti, dentro ai quali, come
in un sogno ipnotico, mi sto perdendo.
“Attenzione a questo passaggio. Deve comprendere bene il
ritmo di questo passaggio e per questo ci vuole ancora un po’ di studio”, si
intromette il villano, spezzando il nostro sogno comune.
Intanto, insinuante, le si è seduto vicino, così vicino che
le loro spalle quasi si sfiorano.
Soffro, vorrei riempire la faccia di questo imbecille con tutti
i colpi dei quali sono capace e lo farei, se non fosse per lei che, con un
tocco lieve della mano, mi trattiene.
Allora resto lì, appoggiato alla superficie specchiata del
pianoforte, che riflette la mia immagine intristita e impotente, a sopportare ancora
una volta la voce berciante di lui che la invita: “Adesso proviamo quel pezzo a
quattro mani che le piaceva tanto. Adagio. Tre quarti.”.
Prima di iniziare a suonare, prima che le sue dita agili si
lascino rincorrere fra i tasti bianchi e
neri da quelle tozze ed esperte di lui, approfittando della distrazione
momentanea di quell’uomo ripugnante, rapida distende un braccio: vedo l’incavo pallido del suo gomito e subito
dopo avverto su di me la dolcezza di una sua carezza.
Suonano quei due, suonano per un lungo tempo.
Io ascolto solo lei e lei dà retta solo a me e con me
condivide il ritmo, il tempo di questa musica che nasce dalle sue mani e dal
mio cuore.
L’accompagno e la assecondo sino all’ultima nota che, alla
fine, si perde nella penombra della stanza fra i mobili antichi, i ricami
preziosi e il gatto che dorme.
Lei si alza, raccoglie gli spartiti e, prima di andarsene,
con il suo piccolo indice delicatamente mi tocca.
E’ bastato questo gesto discreto ed io sono ritornato nel
silenzio: il mio cuore generoso e instancabile di metronomo si è fermato.
Non mi resta che attenderla, per una settimana ancora,
sognandola rinchiuso nella mia custodia, abbandonato sopra al pianoforte.
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