La primavera d'acqua piovana
avvolge con pellicole d'uggia, nicchia e inibisce; la primavera pigra ha il
colore della borragine. La primavera esitante che intorpidisce, la primavera
corroborante, la primavera che sussulta in singulti di polline, allegorie
spicce in spessi tappeti verdi, gangli in fregola, passioni e braci antiche,
prole effervescente del brassicaceo.
La primavera tardiva.
Quella primavera fu quinta e
fondale, domino e taglio alto per l’incontro di Marco ed Elena.
Levità ingombrante quella di
Marco, sinistra a suo modo e presaga di futuro incerto.
Dal primo incontro, ad Elena era
stato chiaro che il fascino che avvolgeva densamente il ragazzo che le si era
parato davanti in una pausa pranzo, fino a quel momento qualunque, recava con
sé un ispido tormento dalla sostanza tenera come le prime pelurie, ma
definitivo quanto un'epifania.
Marco aveva interrotto il suo
cammino, poi sorriso innanzi al suo sguardo levato, appena sorpreso. Elena
aveva cantato tra le labbra, sottovoce, e tu chi cazzo sei?
Nel giovane volto di Marco nulla
vi era della spocchia che i suoi pari preparavano ogni mattina atteggiandosi
per interi minuti di fronte allo specchio del cesso. E ancora, Elena non
avvertiva pericoli, insidie, o ambigue quintessenze. Allarmi quieti. Sirene
silenziose.
Se la fiducia restava ancora
un'idea acerba sulle sue labbra, un concetto intimo e custodito o proiettato
sulla parete di una grotta misconosciuta, il saluto che rivolse a Marco fu un
cordiale lasciapassare alla conversazione breve che avvenne nei successivi
pochi secondi, il tempo di un appuntamento.
E che cambiò la sua vita.
Un giro e mezzo di lancette
giusto giusto e Marco la inebriava con veemenza, trattenendola nelle sue parole
con la grazia sovietica di un amato dei Ballets
Russes.
Seduti sugli spalti alti in un
pub, di fronte al bancone, Elena gli raccontò della sete e della fame, delle
fratture della terra, delle crepe nell’animo e gli abbai di dolore e notturni.
Gli disse anche della bellezza, del soffio prosaico della musica e di un certo
desiderio di ballare. Poi lo ascoltò ed ebbe inizio la metamorfosi; da pupa a
crisalide e da questa a farfalla, la schiusa avvenne nel bozzolo delle parole
di Marco.
La moquette scozzese, il caldo
torrido lenito tiepidamente dalle pale a soffitto, i sorsi cadenzati a 45 per
ottavo, il battito del cuore, impulsi ciliari a bassa frequenza, lo scorrere
nelle vene di un torrente caldo. Nello sprofondo ovattato la filodiffusione
stuprava la cappa di sudore vaporizzato.
Elena lo avvicinò con pazienza e nella pazienza di lui si perse o credette di farlo, eccitata, confusa. Con uno sbuffo liberò i pensieri e le guance.
E tu, ripensò con dolcezza, tu
chi cazzo sei?
Vivere per asindeti, rinunciando
a quegli ammennicoli che scivolano un periodo nel successivo, addolcendone la
cesura.
Così lei gli chiese quanto aveva
sofferto. La domanda le scivolò tra le labbra senza una ragione sufficiente.
Interessata e pura, trasparente come il succo dei fontanili. Quello era il
prezzo da pagare; Marco le si consegnò e disse.
Le disse dell'eroina incontrata a
Bologna dopo una notte di tregenda; aveva avuto memoria vaga di sfregamenti, un
sapore acido nella bocca riarsa. Si era svegliato nudo e allungato di sbieco,
accolto da un materasso lercio posato sull'impiantito consunto di una stanza
senza finestre. Poco distante da lui, sul pavimento, quasi assorbita dal legno
una chiazza abbondante ed estesa di piscio.
Un laccio emostatico
all'avambraccio. Un cucchiaino bruciato non molto distante dai suoi piedi sudici.
Gli sanguinava l’ano.
Marco era al secondo anno di
giurisprudenza. Figlio di operai, la sua vita era stata coerente col suo
progetto a medio termine.
Come un boato a spaccare il cielo
plumbeo, la fottuta collisione con la fallibilità, l’imperfezione; istupidito
aveva accettato la fragorosa assenza di risposte. Soprattutto di quelle al
quesito riguardo l'ago nell'incavo del braccio (condilo, epicondilo,
troclea, epitroclea).
Cristo gli aveva cacato addosso.
Non si era potuto sottrarre.
E cosa hai fatto dopo? Gli
chiese.
Lui rispose pesando ogni
pensiero, parola per parola e, ancora, disse.
Le disse piano.
Ho fatto fagotto di tutte le mie
cose. Il mio stomaco è il bestiame che ho da nutrire; ha reclamato un nuovo
spazio (pausa).
A volte mi sento ridotto, malato.
Coi malati ci ho lavorato; oltre la mia malattia, me ne sento parte. E parte di
essa, al punto di avvertire la diversità, l'istante, le mancanze. Al punto di
non capire più la normalità e la superficialità, l'insulto gratuito che
rappresentano (pausa).
Sono un ferro ritorto, sbagliato.
Allora mi chiedo, ora come faccio? (pausa)
La vita va troppo veloce perché la
riesca a capire a pieno e troppo lenta perché me ne senta figlio vivace.
Perdo il filo.
Io non esisto perché gli altri mi
vedano (pausa).
Io ho bisogno di sentire, in ogni
istante. Sono un (esitazione) sonar, sono un pipistrello, in continua
emissione di segnali, ricevo, ascolto (pausa, lunga).
Avverto il rischio di un dolore
strutturato. Non un semplice abbandono, né una mancata possibilità di bellezza.
Non ho la coerenza del poligono.
Mi piace l'idea di Heisenberg.
L'indeterminazione mi dà conforto (sorridendo).
Tre stagioni dopo.
Nella penombra di un mattino di
dicembre, i primi rumori di città sfregiano il sorgere di cenere di un’alba
lattiginosa, i trasporti sferragliano e le scale ripide e l’acqua fredda. Marco
corre verso Elena, perché il desiderio di lei tracima dalle mani e gli occhi
accesi.
Manca circa un’ora alla paralisi.
Entro un tempo che gli adulti quantificano in poche utilità, l’aria sarà pregna
di emissioni soffocanti e polveri sottili; ad altezze minori, di cappelle
d’ombrelli, amanite plumbee sgargianti d’acqua rifratta; nel mentre i mezzi
pubblici si fermeranno.
Marco corre verso Elena,
superando a falcate sciaguattanti automi deambulanti ciechi e sordi, protetti
da tese di girandola. L’incontro con lei ha penetrato la coltre spugnosa della
sua grassa paura di essere, apparire, o somigliare a un che di umano.
Guazzi di età multiformi,
caviglie intrise, luridume sulle bocche di scolo. La città annega lentamente
nel grigiore di un mercoledì intriso.
Elena se ne fotte allegramente e
attende in casa, inerpicandosi coi pensieri lungo i declivi del desiderio.
La sera prima Elena ha cantato
sulle sue labbra, sotto voce, tu sei il mio gesucristo, io un magnete
difettoso, un meridiano orizzontale.
Tu sei vita, le ha risposto, io
sono una cicala.
Marco ed Elena.
Il letto li attorciglia l’uno
all’altra, l’una per l’altro una seconda pelle.
Il sorriso sul ventre s’adombra
appena, schegge scabre s’eiettano in brevi parabole, apnee di dolore trascorso,
di timori insopiti come campane a giorno in una sera di grandine.
Marco ha spiegato nella
preistoria di sé le sue elitre croccanti, scaraventandosi contro un muro,
bussando il carapace.
Elena ha rimosso il dubbio dalle
labbra, tatuato a suo tempo per essere eterno.
Sei vita, le dice singhiozzando.
Il buio con te è scintillante,
gli risponde.
Stanno vicini, abbracciati l'uno
nell'altra, illuminati dal bagliore tremolante e tenue di un primo piano in
bianco e nero.
Nessun commento:
Posta un commento