martedì 6 giugno 2017

Salvatore Mancuso - Dania

E’ capitato tutto all’improvviso, inaspettato. Ora mi spiego. Sono sposato dall’età di ventun’anni e… amavo, così almeno credevo, Catia, mia moglie. Ci conosciamo da quando ero bambino. Una predestinata, avevo sempre pensato che fosse. Lo scorso mese, a una delle periodiche cene organizzate da quelli del laboratorio di pittura, che ogni giovedì frequento da tempo, Elisa, una pittrice di lungo corso, ha portato con sé una sua amica, che si è seduta a tavola di fronte a me.



A prima vista sembrava una svedese, ed avrà avuto forse quarant’anni. Mi ha subito colpito la sua calma, il sorriso accennato. Suggeriva una quiete interiore, profonda. Nel brusio generale non le ho rivolto neppure una parola. Temevo che avrei potuto sciupare qualche cosa, compromettere una situazione che mi sembrava, non so bene perché, momentanea, comunque a breve termine, precaria. E poi non ne avvertivo alcun bisogno, era talmente bello riservarle i miei sguardi e trangugiare i suoi, conditi da così teneri sorrisi, che mi è sembrato a un certo punto di aver creato, io e lei, uno spazio nostro, esclusivo, avulso dal resto del gruppo. L’ho osservata con simulata circospezione, in cuore mio incantato, masticare cauta, con gusto, ho notato il modo in cui asciugava il contorno della bocca col tovagliolo per apprestarsi a bere con pacata beatitudine. Ho interpretato le sue espressioni, le ho passato olio e sale senza che lo chiedesse, un paio di volte ho versato del vino nel suo bicchiere, notando meglio, nel contrasto col liquido rosso, le dita bianche e snelle dai contorni precisi nell’atto di alzare il calice. Sembravano finte, scolpite, potrei anche dire, più esattamente, come quelle di una bambina nella grazia del Signore il giorno della Prima Comunione, in tono col sottilissimo cerchio d’oro dell’anello, una pietra marina, all’anulare. Sul volto le leggevo un sentimento di gratitudine per tutte le mie piccole attenzioni. A fine cena ci siamo alzati in sincronismo spontaneo per seguire tutti gli altri commensali verso una sala attigua del locale, dove la maggior parte di loro si apprestava a consumare liquori vari e caffè. Fortuna che nella tasca della giacca avevo ancora giusto un paio di sigarette (sto cercando di smettere), perciò ho proposto a Dania (ora so che si chiama così) di uscire sul terrazzo a fumare. Ha risposto con un vago sorriso e un impercettibile cenno di assenso degli occhi e del capo, che normalmente avrei fatto fatica a decifrare. Presto comunque avrei compreso che sarebbe stata una serata tutta speciale. Mi ero persino convinto a un certo punto che fosse primavera anziché autunno. Neppure il tempo di accendere le sigarette che squillò il cellulare, mia moglie che chiedeva se potevo passare a prendere un litro di latte prima che l’ultimo bar sulla strada del ritorno calasse il bandone. Dania, appoggiata alla ringhiera, rimirava le luci di alcuni casolari lontani sparsi sulla collina di fronte che separava il ristorante dalla città, e fumava con gusto, indifferente, almeno in apparenza, alla conversazione telefonica appena conclusa. Invece a me, dopo non so neppure quanto tempo, anni di certo, temo più di un ventennio, batteva forte passo e rumoroso il cuore. E non potevo farci niente, era al galoppo, io non potevo controllarne il ritmo e il suono. Ero estasiato, da Dania, dal suo odore, dai suoi capelli biondi, lisci e sciolti, dai suoi occhi smeraldo, da quello sguardo così particolare di cui fin dall’inizio mi ero accorto (e capivo davvero perché mai quel tipo di strabismo fosse detto di Venere), dal suo sorriso lieve come la risacca, che asseta e che disseta il bagnasciuga, con il medesimo ritmo, reiterato e lento. Mi sentivo così, nudo e indifeso, come se sugli scogli si fosse infranto all’improvviso di schianto in mille pezzi il mio matrimonio e non avessi più, dentro di me, nessuno spazio, anche un solo pensiero, per mia moglie, a dispetto di ogni anni, anni e anni, di vita quotidiana fianco a fianco, fatta di gioie e sacrifici di ogni tipo, di tante situazioni, anche tragedie, milioni di parole e di discorsi, notte e giorno. Avrei potuto terminarla lì, mi rendo conto. Ma dopo tanto tempo ero felice. Soffocati i mozziconi delle sigarette dentro un grande orcio destinato allo scopo, con pignoleria prolungatasi più del necessario, nello stesso momento io e Dania ci siamo guardati e in un battere d’occhio reciprocamente ipnotizzati. Ci siamo allontanati dal locale abbracciati per guadagnare la mia auto e assecondare il desiderio. Sembravamo due naufraghi che dopo un’odissea infinita toccano terra. Sarà trascorsa un’ora, forse meno, in ogni caso la serata più bella della mia vita, quando abbiamo fatto ritorno nel locale. Nessuno aveva fatto caso alla nostra prolungata assenza, tranne Elisa.
“Dania, dobbiamo andare, devo svegliarmi presto, lo sai” le disse con accentuata espressività, del tutto priva peraltro di malanimo. D’altronde, pensai d’istinto, nessuno mai in nessuna circostanza avrebbe potuto provare per Dania sentimenti diversi da affetto, benevolenza, amore. Sono andato via anch’io, dopo aver stretto la mano a Elisa e Dania. Nessun senso di colpa, anzi, ero illuso, di poter essere un altro e che – prodigio! – mi fosse stata restituita l’età di quando la vita appare un carnevale senza fine, che pensavo mi avesse ormai da tempo e irrimediabilmente abbandonato. Sono passato dal bar a comprare il latte e sono rincasato. Era strana mia moglie, era diversa. Di solito sta a casa in felpa o in tuta. Era in vestaglia. Sembrava in ansia, sul punto di svelare cose turche.
“Prima al telefono ti ho chiesto di comprare il latte, era una scusa, avevo voglia di sentirti…” aveva detto fissando il tappeto dell’ingresso, temendo potessi leggerle in viso chissà quale verità, con la voce che stentava ad uscirle, una voce che a me sembrava non appartenerle. Si era interrotta, per osservare la mia reazione alle sue parole. Così ha aggiunto, con l’espressione contrita di chi a prescindere e a priori chiede perdono: “Che ho detto? Che è successo? Che fa, piangi?”
Ho sentito le estremità paralizzarsi, non ero più il naufrago di poche decine di minuti prima. Ero tornato, con Catia stavolta, su una zattera divenuta all’improvviso troppo piccola per sostenere entrambi.
“Non so, è che… ecco, non me l’aspettavo…”
Allora lei mi ha fatto una carezza sulla fronte, come una madre a un figlio che va giustificato ad ogni costo e incoraggiato e mi ha guardato come di solito guardano coloro che, giunti alla fine di una prostrante sofferenza, ne portano i segni sul volto.

“Sono io che aspetto” ha detto a un tratto, in un sol fiato, poi nascondendosi tra le mie braccia e il petto, ed iniziando a piangere con me a dirotto. Fu allora che mi accorsi di un suo capello bianco e subito pensai mia moglie Catia, un figlio… Proprio così, non credevamo più che avremmo potuto un giorno diventare genitori, Catia ha 44 anni suonati però a maggio del prossimo anno verrà alla luce un maschietto. Spero del Toro. Giovedì sera, al laboratorio di pittura, Elisa mi ha portato i saluti di Dania. Credevo che i mille propositi di fedeltà a mia moglie e al nascituro sarebbero stati una diga sufficiente ad arginare la tentazione di incontrarla ancora. Invece sono stato lì lì sul punto di chiedere a Elisa di darmi il numero di telefono della sua amica. Se non l’ho fatto è perchè Elisa mi ha anticipato  e ricacciato in gola le parole. “Sei stato bravo ad accorgerti subito che Dania è sordomuta”.

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