L’ho vista un pomeriggio, si lasciava andare anche lei
sull’acqua, su di una barchetta sgangherata stile la mia, mentre io mi riparavo
dalla pioggia accostato su una sponda del fiume, sotto una roccia. È venuta lì
anche lei, senza dire nulla e facendo solo un sorriso. Io sono timido, così per
un po’ non ho detto nulla, ma mi facevo le miei idee su quanto somigliasse al mio
quel suo modo abbandonato di viaggiare, vagabondando sull’acqua, e anche lei,
mi pareva, senza nulla da cercare né trovare, o qualcosa verso cui puntare.
Abbiamo rotto il silenzio con una stupidata qualunque,
forse con la scusa della pioggia, o qualcosa del genere. Poi siamo ripartiti
per lo stesso viaggio, anche se, sinceramente, nessuno dei due sapeva bene
dove. Ci siamo raccontati per quello che eravamo, fin da subito con quella
stupenda e un po’ scioccante sensazione di potersi dire tutto con estrema sincerità,
passando tantissimo tempo insieme, specialmente la sera, quando, già dalle
prime volte, sentivamo il bisogno di sporgerci, ognuno dalla propria barca, per
baciarci, talvolta intensamente, talvolta per scambiarci appena il sapore delle
bocche. Fin dalla prima sera in cui le ho toccato il corpo, e mi ricordo
perfettamente d’aver iniziato dalle spalle, per farle scivolare lungo le
braccia il vestito estivo che indossava, non ho mai dovuto pensare a nulla sul
come fare e fin dove osare, né sperimentare o cercare di capire verso quali
parti del corpo, sfiorate, accarezzate, o strette, spostare le mie mani, e se
appoggiare il palmo o stuzzicarla con le dite, semplicemente perché quello era
il momento giusto di mischiare odori e sudori. Ci siamo esplosi addosso, senza
cautela, e me ne sono irrimediabilmente innamorato.
Alla fine non le ho mai chiesto perché fosse lì anche lei,
e perché, dopo tutte quelle ore trascorse assieme, lei se ne tornava sempre a
dormire sulla sua barca, salutandomi con un bel sorriso, è vero, ma come se
qualcosa tra di noi mancasse. Parlavamo di un sacco di cose e presto mi sono
reso conto che faticava ad accettare quella condizione di incertezza, e che non
si stava lasciando trasportare tranquillamente, come me, per rifiatare dopo un
periodo storto, ma che era più un andare alla deriva il suo, piena d’attesa per
qualcosa di diverso. Solo in quei nostri momenti, lei si scioglieva da tutte le
ansie, e stavamo bene.
Nessuno dei due ha mai remato per scappare via e non farsi
prendere, ma siamo solo scivolati sull’acqua, anche se sempre con quella specie
di maledetta distanza di sicurezza. Sta sera ceno con lei, magari è l’ultimo
atto, mi ripetevo ormai alla fine di ogni giornata. O magari scoperemo tutta la
notte e ci ameremo tantissimo, fino a domani mattina, quando tutto tornerà come
è sempre stato, nell’amore e nella vita, cioè precario.
E infatti, un giorno l’ho persa di vista, semplicemente.
Forse mi ha fregato di notte e si è appartata in qualche insenatura, da sola e
senza dire nulla, lasciando che proseguissi nel solito, lento scorrere
notturno, che aveva come attracco il mattino seguente, in cui il primo a
svegliarsi, avrebbe aspettato il saluto dell’altro; oppure ha trovato una vela
per salpare, o magari l’aveva già, e quella notte ha semplicemente deciso di
usarla; o forse la corrente è cambiata, differente per me e per lei. Può essere
che abbia gettato l’ancora mentre io dormivo, appoggiandola dolcemente sul pelo
dell’acqua. Me la immagino con quelle sue piccole mani, fare tutto con leggerezza,
senza il minimo rumore per non svegliarmi. Faceva ogni cosa con una delicatezza
ineguagliabile, come se sfiorasse gli oggetti, invece che tenerli in mano per
appoggiarli o spostarli; e io restavo incantato nel guardarla sistemare le sue
cose.
Non ho dovuto strapparla ad un uomo, convincerla di essere
io quello giusto, ma ho provato ad alleggerirla dalla sua insoddisfazione, dalla
spasmodica e delirante ricerca, se perseguita troppo a fondo, del ‘chi sono?
Perché sono qui? E quali sono il mio ruolo e la mia strada?’. Ci vogliono i
nervi saldi per indagare alle profondità degli abissi, e reggere poi il colpo
se non si trovano risposte o ci si convince di non essere sulla via giusta per
trovarle. Da parte mia, ho soltanto provato a farle accettare il fatto che sia
ingiusto e inutile esigere da se stessi tutte quelle cose, soprattutto d’un
fiato, e tutte assieme, ma non ce l’ho fatta. Non siamo mai riusciti ad amarci
sulla stessa barca, ma ci siamo sempre seguiti a vicenda, scivolando assieme
per tanto tempo, e non saprei nemmeno dire quanto; ogni tanto tenendoci per
mano, sporgendoci e baciandoci, ma ognuno sempre dalla sua imbarcazione poco
stabile. E mi son chiesto milioni di volte, durante quelle giornate in cui al
massimo ci scambiavamo sorrisi, se ne valesse la pena di soffrire così, per me
e per lei. Mi sono risposto di si, che ne è sempre valsa la pena aspettare di
poterci ritrovare in qualche angolo meraviglioso e fare un altro di quei bagni
insieme. Comunque, so che in ogni caso non si volterà mai a guardare se ci
sono, o per vedere se non sono ancora troppo lontano per gridarmi qualcosa o
farmi un qualsiasi cenno, e rimangiarsi la decisone presa. È questa risolutezza
che mi sta uccidendo, in questa leggera navigazione, sdraiato e senza interesse
a stabilire una rotta. Con tutto me stesso mi sto sforzando di guardare avanti,
nonostante questo dolore che mi monta addosso, sentendo come un intruglio di stati d’animo bollire
nello stomaco, e poi salire, salire ancora fino a non so esattamente dove,
forse in testa, in faccia, in gola, ovunque da quelle parti, incontrandosi con,
boh, non ne so un cazzo della genesi delle lacrime, esplodendo letteralmente in
un pianto che mi annega la vista. Quattro o cinque gocce, grandi e piene come
noci, colano pesanti sulle guance; e non ci posso
credere che non ci sia davvero più alla portata della mia vista, ed è come se
soffocassi, nonostante questo lontanissimo orizzonte, spalancato e sdraiato
tranquillo davanti a me, appena illuminato dall’alba che sale. Ancora una
volta, ho capito che è dalla sofferenza che provi che ti rendi conto di quanto
hai amato. Perché sono sicuro d’aver amato, e posso dire che entrambi avevamo
capito di quale pasta fosse fatta quel nostro amore. È stato intensissimo. Ma
non è andata, e non so davvero perché. Cerco di distendere il viso, per recuperare
un sorriso, uno solo, tra tutti quelli che lasciamo sparsi in un presente
felice che se ne è appena andato, e ritrovandolo in mezzo a questa ingorda
carrellata di bellissimi momenti passati con lei; ma ho gli occhi gonfi, e
niente è così nitido da poter essere inchiodato definitivamente nella memoria.
Sento le lacrime spezzarsi sulle mie guance, ormai secche,
asciugate dal vento. No, non ne descriverò la bellezza, perché la felicità non
è un problema da risolvere e di cui raccontare qualcosa. L’ultima cosa che mi
resta da dire, è che avremmo potuto sorridere di più assieme. Ma che importa?
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