lunedì 2 giugno 2014

Maria Chiara Donati - Il tram

Se ne stava ritto in piedi, vicino alla palina con le fermate, cercando di mantenere quel portamento dignitoso che gli avevano insegnato a militare. Il sole lo illuminava facendo risaltare i riflessi argentei dei capelli, appena scompigliati dal vento, ed i guizzanti occhi color ghiaccio. Nonostante le rughe, non avevano perso il loro acume; erano vispi e profondi, pieni di quella consapevolezza che solo chi ha vissuto a lungo può avere, ricchi del riflesso di un sogno già vissuto.
Non ce n’erano tante, di giornate così, a Milano. Ma quando il sole ed il blu del cielo si scatenavano non temevano paragoni, incorniciati com’erano dalle montagne, che d’un tratto apparivano incredibilmente vicine.
Ricordava ancora la prima volta che ne aveva notato l’imponente bellezza, da ragazzo. Quel ricordo lo fece sorridere con malinconia.
Ecco arrivare il tram.
“Ancora non mi capacito del fatto che l’abbiano dipinto di arancione. Quand’era verde era molto più bello. Mah…” pensò, come ogni volta.
Salì a fatica, trascinando con sé le pesanti buste della spesa.
Da quando prendeva il tram per tornare dal mercato? Se la sua Caterina l’avesse visto avrebbe riso di lui. Avrebbero riso insieme, probabilmente.
Un giovanotto educato gli cedette il proprio posto, così poté sedersi sulle scomode panchette di legno, sistemando la spesa come poteva e aspettando la sua fermata.  Si guardò intorno: era circondato da chiassosi adolescenti, senz’altro appena usciti da scuola, professionisti dall’aria indaffarata ed insieme distratti e assenti, e qualche anziana signora un po’ male in arnese, che come lui tornava a casa dopo aver fatto la spesa.
“Santo cielo, non sarò mica diventato vecchio come loro!”
Il tram rallentò, scampanellando allegramente. Poi si fermò lasciando salire i nuovi viaggiatori.
Eccola.
La sua ampia gonna si muoveva leggera al vento, scoprendo appena le ginocchia, le scarpe nere, con un tacco appena accennato, sottolineavano un’andatura sicura, elegante e sinuosa. Un impalpabile guanto corto avvolgeva la sua mano.
Un soffio di vento caldo ed è Caterina, splendida, di fronte a lui. È il 4 aprile del 1952, se lo ricorda molto bene.
Le sue gambe sono scattanti, non incerte e fragili come oggi. Il suo braccio tornito e forte, come quello di un diciassettenne che si affaccia curioso alla vita.
Lei sta guardando fuori dal finestrino sorridendo al mondo, così lui balza in piedi, ammaliato, deciso ad avvicinarla.
Si ferma a qualche metro. Il suo cuore si ferma.
Guarda i suoi capelli rossi mossi dal vento, incorniciati in un piccolo cappellino colorato, i suoi occhi accesi di entusiasmo e il suo sorriso.
Poi ecco qualche secondo di coraggio e il suo mondo finalmente comincia.
-          Perché sorridi?
-          Perché c’è il sole! Non è un motivo sufficiente?
-          Sì, credo di sì.
Sei felice?
-          Come tutti! Siamo in pace, è una bella giornata, siamo qui. Sì, sono felice. Tu non sei felice?
-          Ora sono felice.
Come ti chiami?
-          Che importanza ha?
Chiedimi chi sono.
-          Chi sei?
Lei rise soddisfatta.
-          Ti porto con me.
Scesero dal tram e passeggiarono insieme, senza dirsi una parola, fino al centro. Non riusciva a smettere di guardarla mentre lei lo precedeva appena, solo di un passo, girandosi di tanto in tanto ad osservarlo divertita.
Il Duomo era meraviglioso quel giorno e riluceva nel sole, a guardia della sua gente.
-          Io ti seguo, ma tu dove mi porti?
-          In cima.
-          A cosa?
-          A tutto!
Indicò con la mano il tetto del Duomo.
-          Ci sei mai stato?
-          No.
-          È un luogo magico. Sali con me.
Si mise a correre e raggiunse in breve l’ingresso laterale, da cui partivano le strette scale per il tetto.
Lui continuò a seguirla: mistero e spensieratezza si univano ad una bellezza rara. Non l’avrebbe mai lasciata andar via, di questo era sicuro.
Arrivarono in alto col fiatone, ridendo delle reciproche fatiche. Poi uscirono fra le guglie e lui capì.

La Madonnina, finalmente tornata a brillare, dopo la guerra, si ergeva felice e luminosa sulla cima della guglia più alta, mentre i marmi bianchi emanavano una luce rosea meravigliosa.
Lei corse ad affacciarsi verso la città, indicando felice le montagne in lontananza. Il vento le portò via il cappellino, facendole volare sul viso i morbidi capelli. Parevano un’aura infuocata, posta a circondare il viso delicato dell’innocenza. Sembrò non accorgersene, e continuò a mostrargli ad uno ad uno i palazzi e le chiese che riconosceva, così come le cime ancora innevate.
-          Ti ho seguito – le disse in un momento di silenzio – ora devi dirmi chi sei!
-          Non l’hai capito?
Hai una vita per scoprirlo.
Si perse ancora una volta nei suoi occhi, finché uno scossone lo riportò prepotentemente indietro.
Il tram frenò bruscamente. La giovane che aveva attirato i suoi ricordi cadde proprio di fronte a lui. L’aiutò immediatamente ad alzarsi, offrendole le sue mani ancora forti.
“Che strana questa moda di vestirsi anni Cinquanta”.
Ripresosi dall’urto si guardò intorno. Non era ancora la sua fermata ma decise di scendere ugualmente. Aveva bisogno d’aria.
Scrisse un biglietto rapidamente e, scendendo, lo fece scivolare nella mano della ragazza.
“Lei era il mio sogno. Lo è ancora. Oggi per me sei stata come il sonno, che lascia che io possa raggiungerla. Grazie.”
Poi sparì.

Non aveva mai perso sua moglie del tutto.

1 commento:

  1. C’è un’atmosfera pacata, sognante e rarefatta che ho apprezzato molto, ricorda quasi una canzone di Guccini...

    La tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due

    RispondiElimina