Al terzo
rifiuto dovette accettare, la signora del trucco non avrebbe esitato a
stuccarle la faccia con quella malta color carne. Dice che in televisione per
sembrare naturali bisogna mascherarsi, fingere un po’. Ora capiva perché era
stata tanto ferma nel declinare ogni invito per qualsivoglia genere di
trasmissione televisiva. Ormai era inutile cercare di tirarsi indietro. Si
guardò allo specchio e le mancava il delta delle rughe ai lati degli occhi come
fiumi in secca, le strane M che dalla fronte scendevano rincorrendosi fino
all’attaccatura del naso, ma più di tutto i segni del sorriso ai lati delle
labbra. Nonostante la sua fama di austerità era una donna che aveva riso molto
e non si era mai presa troppo sul serio. Un tipo incravattato con l’auricolare
le fa segno con la mano “2 minuti!”, allora abbandona il camerino e sbircia lo
studio da dietro le quinte. Un viavai di telecamere, alcune automatiche che
salgono e scendono da un traliccio inclinato, un pubblico obbediente che applaude
al comando di due giovani scalmanati con un berretto ridicolo, schermi giganti,
e quella luce irreale da mezzogiorno di fuoco.
Ora il
conduttore sta descrivendo a tratti sommari la sua biografia (ma perché, si
chiese, perché ti stai facendo questo?) e la presenta:
“…la più
letta scrittrice di gialli italiana, alla sua prima apparizione televisiva.
Siamo davvero onorati di avere qui con noi… Nora De Amicis!”
Applausi.
Mentre
percorre lo studio con passo incerto si chiede se è abbastanza elegante: gonna
lunga plissettata blu oltremare, abbinata a un golf bianco ricamato e
l’immancabile girocollo di perle. Le manca la mollettina nera che usa di solito
per sostenere la frangia, ma la parrucchiera dello studio disse che sarebbe
stato un oltraggio rovinare quello splendido caschetto biondo platino. Dato che
non è stupida intuisce di essere ridicola e ride di se stessa prima di prendere
posto.
Benvenuta.
Buonasera
a tutti.
Nora De Amicis!
Mi chiami
pure Nora. Si fa prima. (Sorride sistemandosi la gonna)
Nora. Siamo riusciti a vincere la sua leggendaria
avversione alle interviste. Per non sbagliare, cosa non vuole assolutamente che
le chieda.
(Ride).
Può chiedermi quello che vuole, al limite non le rispondo. Le signore della mia
età non hanno più segreti interessanti da raccontare. Però, se posso
permettermi, lasci perdere il mio cognome perché non sono parente di nessun famoso
letterato. E (finge un momento di imbarazzo) non mi chieda delle mie scarpe.
Perché? Cos’hanno le sue scarpe?
Esatto,
non hanno nulla. Tacco basso e tozzo, plantare largo. Da ragazza mi sembravano
una civetteria garbata, perché ero – insomma -
abbastanza carina. Mi piaceva quel tocco severo. Ora le trovo
semplicemente comode per i miei piedi gonfi.
Cosa l’ha convinta ad accettare questa intervista?
Ma… forse
l’età. Era un’esperienza che mi mancava. Temevo di sembrare obsoleta
continuando a negarmi, mentre sono solo vintage. (ride). Diciamo che mi ha
spinto una strana forma di affetto per Alice.
Alice è la protagonista del suo ultimo romanzo…
Sì,
certo. E forse sembrerò un po’ stucchevole in quello che sto per dirle, ma è
effettivamente così: Alice mi è molto cara, le sono legata come a una vecchia
amica, fa parte di me.
Tra l’altro il suo ultimo romanzo è il primo a non
essere un giallo. Cosa l’ha spinta a uscire dal genere?
Non sono
del tutto d’accordo con lei. Credo che ai lettori non interessino tanto gli
assassini quanto gli intrighi e in questo Alice è molto simile alle altre mie eroine.
Anche lei si dedica alle investigazioni, ma a quelle della mente.
Allora potremmo definirlo un romanzo rosa
esistenzialista…
(Ride).
Non direi. Alice alle rose preferisce le spine, le fitte punture dello stelo al
profumo del fiore. In questo è anche decisamente autoironica. Non prende troppo
sul serio i suoi tormenti. Deve andare avanti. E’ l’imperativo che ha dentro.
Comincia
ad annoiarsi. Le domande sono fin troppo prevedibili. Sposta allora lo sguardo
fra il pubblico: un ragazzo pare più interessato a chattare sul suo telefonino,
molti altri invece la seguono dallo schermo dei cellulari. Da lontano sembrano
tante mascherine per dormire, o binocoli. Non resiste e le scappa una battuta.
(dice) Mi
sembra di tornare all’eclissi totale del 61.
Come scusi?
Lei non
può ricordarselo, sarà stato un bambino all’epoca, o probabilmente non era
neanche nato. Per poter guardare quell’incredibile spettacolo della natura bisognava
mettersi davanti agli occhi delle lenti affumicate. Anche in questi anni sembra
che non si possano più misurare gli eventi semplicemente con il proprio
sguardo, ma servano per forza dei supporti. Non ci si fida più della memoria
per ricordare, sono necessarie immagini, filmati. Sembra che il nostro cervello
non riesca più a fissare il tempo, o perlomeno non abbiamo più fiducia in lui.
Naturalmente consiglio a tutti gli spettatori di continuare a guardarmi dallo
schermo del telefonino, magari riescono nel miracolo di rendermi accettabile.
(sorride).
Lei non ama molto le nuove tecnologie?
Non è che
non ami le tecnologie. Le trovo utili e cerco anche di mantenermi moderatamente
aggiornata. Non apprezzo come vengono usate.
Cosa ne pensa dei social network?
Li odio.
(Qualcuno
fra il pubblico accenna un applauso).
Non usa mezzi termini.
E perché
dovrei? Sono una terribile illusione di vicinanza, anche affettiva. Ma ciò che
trovo più fastidioso è la spettacolarizzazione del proprio privato in bacheche
che sembrano confessionali. Ogni messaggio deve essere pirotecnico per
strappare un “mi piace”, quasi fosse una medaglia al valore. Si scrive il
romanzo della propria vita senza viverla davvero. E’ solo finzione.
La finzione che entra nel quotidiano non dovrebbe
affascinarla?
La
finzione (ma in questo caso forse sarebbe meglio parlare di immaginazione)
entra continuamente nel quotidiano in modo molto più naturale. L’amore è la
massima finzione, crea la stessa euforia di Woodstock, o quella che ha provato
il mondo di fronte all’allunaggio nell’estate del ’69. Il sogno sbarca nella
meccanicità dei giorni e lascia la propria impronta in quell’abisso che è il
nostro inconscio. Non siamo più gli stessi, siamo nuovi. E anche se ci diranno
che quell’atterraggio non è realmente avvenuto, che è stato un inganno, che non
è possibile l’intervento dello straordinario nell’ordinario, noi sapremo che
non è vero, perché avremo dentro di noi quell’impronta indelebile, il passo di
un uomo sul nostro terreno lunare. Quella su internet è solo una commedia per
disadattati.
Come vive l’amore la protagonista del suo libro?
Intensamente.
Come ogni donna. E gli uomini non se la prendano troppo, molti di loro sono
sempre più vicini al femminile e alla sua sensibilità, ma sono ancora una
minoranza. Alice deve però affrontare il dolore di una perdita. Il suo non è un
amore felice. E’ messa di fronte a una scelta e decide di andarsene, ma non
voglio rivelare di più sulla trama.
Ci parli della scatola rossa che dà anche il titolo
al romanzo?
Potrei
prima chiederle qualcosa da bere? In altri salotti televisivi viene offerta la
birra agli ospiti. Non chiedo tanto. Mi basta un bicchiere d’acqua.
La birra possiamo offrirgliela anche noi, prego.
(Fra il
pubblico c’è un leggero brusio, qualche risata. Il ragazzo con l’auricolare
viene per un attimo inquadrato dalle telecamere mentre porge un boccale di
birra all’autrice. Nora De Amicis beve un lungo sorso. Il pubblico applaude).
(Sorride
dopo essersi passata un fazzoletto sulle labbra).
Ci voleva
proprio! Dove eravamo rimasti?
La scatola rossa.
Lei lo sa
che le scatole nere degli aeromobili in realtà non sono nere, ma di un
arancione molto marcato, quasi rosse?
No, non lo sapevo…
Le
scatole nere (per chi è come me poco tecnologico e non lo sapesse) sono
dispositivi elettronici che registrano i parametri di volo, le traiettorie, i
suoni nella cabina di pilotaggio, in modo tale da facilitare le indagini sulle
cause di incidente. Gli investigatori avranno la possibilità di capire cosa è
veramente accaduto controllando le registrazioni di questi apparecchi.
Mi spieghi meglio. Non capisco il collegamento.
Anche
Alice si trova nella situazione di capire cosa è accaduto nella sua vita dopo
il suo “incidente” sentimentale. Vuole capire le ragioni del distacco, cosa
l’abbia portata ad allontanarsi e soprattutto prendersi del tempo per gestire
il dolore. Così le viene in mente di usare la scatola rossa.
Una scatola di latta utilizzata per conservare i
biscotti.
Sì,
proprio quella. Mia madre ne aveva una deliziosa, di un verde azzurro chiaro
come il cielo all’alba. Perdoni la digressione cromatica. Di fronte ai ricordi
si diventa un po’ tutti poetici, o patetici, persino noi zitelle. Ma di
biscotti legati a rimembranze qualcuno ha già parlato approfonditamente e molto
meglio di me.
La scatola rossa, continui.
Alice si
chiede cosa le rimanga di quell’esperienza che l’ha segnata così profondamente.
Immagini certo, istantanee della memoria, ma più di tutto parole, quelle che
avrebbe voluto dire e che non ha detto, le offese durante le liti prima di
lasciarsi, le promesse, i nomi dell’amore (quei nomignoli che si usano per
chiamarsi quando ci si vuole davvero bene e non sono esclusività della
passione, ma anche delle amicizie sincere). Di fronte al vuoto di un lutto
sente che le rimangono solo parole. D’altronde sarebbe forse impossibile
ricordare senza una costruzione verbale, le parole collegano i pensieri,
elidono, sottolineano, troncano. Il ricordare sembra essere una prerogativa
umana, perlomeno il rievocare intenzionale, quel richiamare alla memoria per
far rivivere situazioni, persone, sentimenti. Questo perché anche il ricordo ha
una sua grammatica, una sua forma, delle regole. Alice scrive per nove mesi.
Come il tempo di una gestazione.
Una prerogativa tutta femminile.
No. Non
sono d’accordo. Il mettere al mondo non è un privilegio delle donne. Dà alla
luce chiunque voglia essere creativo. E’ una missione di chi decide di
impegnare del tempo in un progetto ambizioso. Pensi alla parola “parto”.
Nascita, origine, inizio…
Sì ma
anche partenza, prima persona singolare del verbo partire. Si ricorda anche per
metabolizzare e staccarsi da qualcosa che è cresciuto enormemente dentro di sé
e a cui bisogna dare vita. E’ così anche il voler bene, non può restare
un’esperienza solitaria e taciuta dentro di sé. Deve esprimersi e diventare
altro, un’amicizia, una relazione. Ha bisogno di fregare il tempo.
Fregare il tempo?
Sì,
l’essere umano ha bisogno di scommettere, di avere un progetto. La mancanza di
progettualità uccide ogni relazione. Se vivo un eterno presente, ma non ho un
passato e non penso a un futuro sono inumano. Il tempo diventa un alleato
quando non è un inesorabile e indefinito trascorrere, ma quando segna le
stagioni, le variazioni dell’esistere, il raggiungimento di una meta, i
percorsi.
E qual è il progetto di Alice?
La
maturazione di una lontananza. Un’assenza che forse c’era già prima e non se ne
era resa conto. Una sedia che era rimasta vuota. E lo fa scrivendo su foglietti
di carta i suoi pensieri, dolorosi, incerti, sovrumani a volte, banali anche.
Poi li piega e li mette in questa scatola rossa. Lì li sente protetti e al
tempo stesso sono rinchiusi. Scriverli e depositarli le consente di affrontare
il quotidiano senza rimanere sopraffatta dal dolore.
Una specie di diario.
Forse. Ma
il diario è più narrativo. Alice scrive questi biglietti per nove mesi e li
custodisce nella scatola di latta rossa. Poi sente che la fonte si è esaurita,
ha detto tutto, si è anche ripetuta, qualcosa si è dissolto. Allora apre la
scatola e dispiega tutti i biglietti. Li legge e li appende alla parete. Uno di
fianco all’altro creano una forma, la sagoma di quell’ “incidente” dentro alla
sua anima.
In fin dei conti sembra una specie di bacheca, come
quella di facebook, volendo tornare a un discorso precedente.
Lei è
particolarmente insistente su questo tema, forse perché vuol farmi apparire
irrimediabilmente desueta (sorride).
(Il
pubblico che era rimasto a lungo zitto e immobile, o perché interessato al
discorso, o perché da tempo assopito, improvvisamente scioglie il silenzio con
una breve risata).
(continua)
La differenza sostanziale tra la bacheca di Alice e una qualsiasi pagina di
facebook è che lo scopo di Alice non è creare una specie di manifesto
pubblicitario di se stessa, ogni biglietto perde di importanza se letto
singolarmente, non è scritto per suscitare l’interesse o la compiacenza di
qualcuno. L’essenziale è nella pienezza della struttura. Una scrittura per
stratificazione che frega il tempo facendolo diventare suo alleato.
Scrittura per stratificazione?
Sì, una
pennellata dopo l’altra, non avendo ben chiara l’immagine finale, ma con una
precisa intuizione, una volontà ben definita. Una determinazione.
E così si “frega” il tempo?
Sì, credo
di sì. Io e il tempo ormai abbiamo imparato a sopportarci. Se non puoi
sconfiggerlo fattelo amico, come si usa dire. Il tempo che abbiamo è l’unica
cosa che è veramente ignota a tutti. Spesso chi pensa di averne molto viene
truffato. Il tempo sa essere un gran turlupinatore. Avere un’idea, una
vocazione obbliga il tempo a una progettualità che gli è propria, ma spesso non
gli è riconosciuta. E ci si allea a lui, senza il terrore di un’opera postuma.
Un’angoscia decisamente letteraria, o artistica.
Si
sbaglia di grosso. Dovrebbe essere la preoccupazione di ogni uomo. Rimane
ultimo solo chi resta incompleto, non fa il salto verso l’ignoto, verso se
stesso e l’altro. Spesso ci si conosce senza comprendersi, ma accade anche il
suo contrario.
Grazie Nora, questa più che un’intervista è stata
quasi una lezione di vita.
(Ride) E’
finalmente riuscito nell’impresa di farmi sentire in imbarazzo. E’ una
sensazione che non provavo da tempo. (Ride fra gli applausi del pubblico).
Spero di non aver annoiato nessuno. D’altronde non si faccia l’idea che ciò che
le ho detto sia ciò che penso. Non ho grandi certezze sulla vita. Quelli erano
i pensieri di Alice, io li ho solo presi in prestito per un po’.
Ci lasci allora con un pensiero tutto suo,
personale.
C’è
ancora tempo. Per tutto. Per cambiare, per crescere o per tornare indietro. Per
incontrarsi, capirsi, scusarsi, comprendersi. Ogni possibilità è ancora aperta,
ogni ferita potrà rimarginarsi e essere dimenticata. Lo dico soprattutto a me
stessa in maniera scaramantica. (Ride ).
C’è tempo allora.
C’è
tempo.
Nora De Amicis!
(Applausi).
Grazie a tutti.
Esce
lentamente dallo studio e scompare dalla scena.
Il
pubblico sta già applaudendo il nuovo ospite.
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