lunedì 2 luglio 2018

Marco Gagliani - L'ultima notte sulla terra

Il buio non sarebbe durato a lungo, ma a lui andava bene così. Alla fine era arrivato su quella panchina del belvedere di Castelletto, aveva respirato lasciando uscire un ultimo sbuffo di vapore bianco dal naso e si era lasciato scivolare dolcemente su quella stessa panchina. La vista da lì era stupenda, di giorno si poteva ammirare la città in tutto il suo splendore, con le macchine e le persone, tutti in movimento, tutti indaffarati, senza che l'idea che qualcuno li stesse osservando potesse sfiorarli; anche se il suo sguardo veniva attratto più che da tutto il resto dal manovrare delle navi in porto. Giganti di metallo che si muovevano entrando in città con lentezza e discrezione, quasi a chiedere il permesso, trasportando al loro interno meraviglie di mondi lontani ed allora ancora irraggiugibili, o genti che si apprestavano a rendere omaggio alla superba perdendosi nelle sue meraviglie. Ora, nel silenzio delle ultime ore della notte, sotto ai suoi occhi si spiegava uno spettacolo quantomeno inusuale, il silenzio di tutta la città era interrotto solo dallo spirare del vento gelido, per il resto nulla, nessun movimento, nessun rumore molesto, solo la pace di qualche migliaio di anime che riposavano nell'attesa dell'alba. Quello era senza di dubbio il suo posto nel mondo, quella panchina per lui c'era sempre stata, ogni volta che nella sua vita si era trovato dinnanzi ad un bivio piuttosto che a una svolta il buon Giacomo era andato lì, su quella panchina a guardare il suo mondo e a pensare. Gli piaceva pensare, gli piaceva davvero tanto, non che credesse fosse utile, non sempre quanto meno, anzi, a volte il pensiero lo portava ad affacciarsi su abissi spaventosi, ma proprio quest'esercitarsi in una pratica che tutti ritenevano ormai inutile, una perdita di tempo, specialmente in un'epoca che si apprestava a superare la modernità e che avrebbe trasformato il tempo stesso in denaro, gettare al vento un paio di banconote di tanto in tanto assumeva per lui un valore catartico. Andava a saziare perfettamente quella sua necessità di viaggiare in direzione contraria rispetto al mondo, di non avere paura di alzare una voce capace di distinguersi da quella della massa, e ripeto, non che gli avesse portato qualche beneficio materiale, ma la sua anima in quell'esercizio tornava a vedere la luce.
Su quella terrazza era giunto per la prima volta un'ottantina di anni prima, in un giorno di inizio giugno, per essere precisi l'ultimo della quinta elementare. Uscito da scuola era stato colto da uno stato di profondo turbamento, come se ogni certezza fosse crollata, come se si fosse trovato esposto per la prima volta a un mondo tanto difficile da comprendere, sentì in cuor suo di avere la necessità di mettere un freno a questo disfarsi delle cose. Dopotutto la classe, il signor maestro, tutto ciò che lo aveva più o meno dolcemente cullato in quegli interminabili cinque anni si era dissolto al suono dell'ultima campana. Così passo dopo passo, nella strada verso casa, quando era giunto di fronte a quella panchina, per la prima volta aveva distolto gli occhi dalle sue scarpe blu e in quel momento aveva sentito un'attrazione quasi magnetica, nulla gli avrebbe impedito di sedersi lì, anche solo per un paio di minuti. E infatti andò così, curiosamente la visione di quell'immensità non lo spaventò e nemmeno lo meravigliò, generò semplicemente un senso di pace; se quello era solo un puntino sul mappamondo, e già era così grande, figuriamoci cosa doveva essere la fine delle scuole elementari per il mondo intero, un nulla. Sentirsi insignificante lo fece stare bene, si sentì leggero, quasi felice, tanto da scordarsi del passare del tempo, e poco importava degli schiaffi presi per essere rincasato con il buio, quella sensazione avrebbe reso sopportabile qualsiasi cosa.
Su quella stessa panchina si era concluso il primo appuntamento con la sua Maria, si erano salutati, timidamente senza baci, solo un sorriso, non aveva avuto il coraggio di andare oltre, dopotutto era ancora un ragazzino e quella cosa che gli si agitava dentro, fino a tenerlo sveglio la notte e a contorcergli le viscere non sapeva bene come gestirla. Non avrebbe mai potuto dirle esplicitamente quello che provava, troppo difficile, troppo distaccato, e poi non era una cosa da uomini, alla fine se avevano passato quel pomeriggio a parlare e camminare, da soli, voleva dire che lei sapeva, insomma era una donna, come avrebbe potuto non saperlo? Erano passati mesi, mesi e kilometri di strada fatta insieme senza che succedesse nulla, alle volte un brivdo gli correva lungo la schiena quando le mani che ciondolavano a ritmo di marcia si sfioravano, poi erano tornati lì, sul belvedere ed erano rimasti a guardare il tramonto calare sulla città. Infranta la regola di tornare prima di sera Luca pensò che avrebbe potuto anche infrangerne un'altra, e così, guardandola negli occhi, con il cuore che cavalcava all'impazzata spargendo per tutto il corpo un miscuglio di emozioni indecifrabili e il fiato cortissimo come se avesse corso una maratona, non che in quel momento respirare sarebbe servito a qualcosa, ne avrebbe potuto fare benissimo a meno, con un tremolio delle labbra che tradiva il pandemonio che lo stava travolgendo, la baciò. In quell'istante sperò ardentemente che quelle sarebbero state le uniche labbra che avrebbe baciato nella sua vita e di non dover mai smettere di baciarle. E in effetti con il passare del tempo si convinse che un dio benevolo lo avesse ascoltato quel giorno, e quando la portò all'altare pensò di aver stretto un vero e proprio patto con lui "non osi l'uomo dividere ciò che dio ha unito" tutto era perfetto, al di là delle difficoltà, dei possibili litigi, di tutto ciò che il destino gli avrebbe messo davanti, la vita insieme sarebbe stata meravigliosa.
Sarebbe stata, se una sera, al ritorno dal turno non avesse trovato un bigliettino sul tavolo della cucina, una sola parola strisciante "scusami", nulla era rimasto di lei in casa, non un oggetto, non una foto e nemmeno il suo profumo. Se n'era andata da quella casa ma non da lui, Luca non l'aveva mai dimenticata, e come si fa a dimenticare il motivo per cui si vive, nel suo mondo fiabesco la loro storia non era finita, sperava che in qualche modo si sarebbero ritrovati, anche dopo "cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni" come in quella meraviglia del Gabo Marquez, che tanto l'aveva consolato e aveva fatto ardere il fuoco della speranza. Peccato che alla fine non fosse andata così, e anzi, il buon Luca pensava che il fatto di non sognarla nemmeno più da così tanto tempo fosse indicativo del fatto che la sua storia stesse finendo, erano ben trentun giorni che non gli appariva, non gli era mai successo.
Ora la notte si tingeva di rosa e gli uccellini sugli alberi ai fianchi della panchina avevano iniziato a cantare, aveva sempre odiato quel suono che gli impediva di dormire quando distrutto dalla fatica tornava a casa dopo il turno di notte, curioso come questa volta non gli avrebbero impedito di chiudere gli occhi. Per una volta nessun potere avrebbe potuto fermarlo o impedirgli di fare ciò che voleva, anzi, forse uno sì, il solito Dio che come la vita gli aveva insegnato non era infinitamente potente e buono, esattamente come tutti i poteri esercitati dalla gente. All'inizio lui ci credeva nel potere, credeva davvero che se fosse stato ben esercitato avrebbe potuto cambiare il mondo, c'aveva creduto quella volta che aveva scritto "Antoniazzi" sulla scheda elettorale, quel suo compagno di classe un po' scalmanato ma che infondo era sempre stato un buono, credeva che non si sarebbe scordato del suo paese, delle sue origini, che non sarebbe stato fagocitato dal sistema. Al secondo mandato venne arrestato per tangenti, su qualche articolo di giornale la solita scusa "lo fanno tutti" e forse era anche vero. Aveva creduto nel potere anche quella volta che quel suo collega, ragazzino di diciannove anni, era morto, orribilmente schiacciato in cantiere, e quando i sindacati avevano alzato la voce per guidare una protesta affinchè non ci fossero più morti bianche, affinchè nessuno dovesse più sottostare a turni massacranti, affinchè nessuno fosse più sfruttato lui c'aveva creduto. Aveva pertecipato alle assemblee, all'occupazione del cantiere, aveva sfilato per la città, fin sotto la sede del comune, dove quel potere con cui pensava di poter parlare si era arroccato e sentendosi minacciato aveva delegato il dialogo ai reparti della celere; ma lui credeva in quell'utopia ed era rimasto a testa alta, in prima fila. Peccato solo che quando il potere dei manganelli fece zampillare sangue anche dalla sua testa, con lui non ci fosse nessuno dei sindacalisti che megafono in mano avevano aizzato la folla, esattamente come quando un paio di giorni dopo gli fu consegnata la lettera di licenziamento "Vede, noi vorremmo aiutarla, ma credo che lei si sia spinto davvero troppo in là". Anche quel giorno si era seduto sulla panchina a piangere con il volto tra le mani, un'altra picconata aveva fatto crollare il mondo che tanto faticosamente aveva costruito, dentro e fuori di sè, in tutti quegli anni.
Ora, con il sole che faticosamente emergeva dal mare, dopo aver fatto i conti con la propria vita, una vita che malgrado tutto non riusciva a definire amara, Giacomo pensò che la fine fosse veramente arrivata, chiuse gli occhi e sorrise. Certo non era andato tutto come aveva previsto, anzi quasi niente, ma il fatto che le cose fossero andate diversamente non doveva significare per forza che si fosse trovato male, lui alla vita aveva dato tutto, non avrebbe cambiato nulla del suo percorso, nè di ciò che era, lei non gli aveva dato poi molto ma pazienza, la vita è anche questo e forse la cosa migliore che potesse fare era lasciarla senza rimpianti.
E poi chissà, forse dall'altra parte avrebbe rincontrato quelle labbra.

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