lunedì 2 luglio 2018

Carlo Tirinanzi De Medici - Il manuale che non c’è

Basta, ho finito la pazienza.
Sono anni che seguo questo disgraziato, lo accompagno ovunque, gli offro da bere e mi faccio scroccare sigarette, insomma sono anni che lo sopporto. Lui, le sue follie, le sue fissazioni, le sue reazioni abnormi. Basta una luce fioca e non capisce più niente, lo vedi stringere gli occhi a fessura come se lo stessero crocifiggendo. Mettetelo in un ambiente dove ci sia un po’ di rumore di sottofondo, che so io, un bar, con il chiacchiericcio e l’acciottolio dei bicchieri, qualche volta uno scoppio di risa e la musica pop; lo vedrete perdere il contatto con la realtà, non rispondere più alle domande, smettere, con tutta evidenza, di seguire la conversazione, perché – dice – i brandelli di discorsi altrui i rumori le melodie lo colpiscono tutti assieme; cerca di seguirli tutti e secondo la sua espressione «va in crash», manco fosse un computer.
Fategli una carezza, sfioratelo con affetto: farà un salto alto mezzo metro, perché, poverino, il tocco leggero proprio non lo sopporta. Girerà con le magliette a rovescio perché dice che l’etichetta gli dà fastidio. Spostategli un libro dalla pila che tiene sulla scrivania, o mettetegli la tazzina del caffè a sinistra anziché a destra: darà di matto.
E soprattutto, non chiamatelo, come faccio io, Aspie, a meno che non vogliate subire un pippone di trecento ore sui cambiamenti apportati dalla quinta edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali alla classificazione dei disturbi pervasivi dello sviluppo, in base ai quali la “Sindrome di Asperger” è confluita nel più generale “Disturbo dello spettro autistico”. «La tua definizione è ormai datata e scientificamente inappropriata», vi risponderà dopo un lungo détour che avrà toccato neurofisiologia, indagini compiute con risonanze magnetiche funzionali e una dozzina di teorie sul funzionamento autistico.
–Non capisco come mai ti ostini a definirmi aspie, peraltro un diminutivo che, come tutti i diminutivi, non apprezzo. Io sono un autistico e basta.
–Ma Aspie, con la maiuscola, non è una diagnosi, è il tuo nome.
–È il nome che mi hai dato tu.
–Sì, è un soprannome, un modo per rinsaldare la nostra amicizia e complicità.
–Ancora con questa storia della complicità, te l’ho detto, non siamo criminali. Non abbiamo fatto rapine. Non progettiamo attentati. In cosa dovremmo essere complici e –soprattutto– perché sarebbe bello essere complici?
Se volete spiegargli voi in che senso parlo di complicità, accomodatevi: io ci ho provato decine di volte anche con supporti audiovisivi e diagrammi, ma inevitabilmente la sua conclusione è che come sempre mi esprimo in maniera impropria. E non è per questo che ho perso la pazienza, no, figurarsi: ormai mi ci sono abituato alle sue stranezze, l’uso univoco del linguaggio, la sua incapacità a mentire, anche striminzite bugie bianche, i discorsi ossessivi sulle centrali nucleari e l’esprimersi solo per citazioni. No, il motivo per cui non lo sopporto più è quella sua dannata incapacità a empatizzare.

Capita a tutti: c’è qualcosa che ti assilla – la ragazza ti ha lasciato, ti è morto il gatto, stai per essere licenziato, ti sei innamorato, hai sfasciato l’auto e non hai soldi per prenderne un’altra, sei triste spaventato arrabbiato – e cerchi un amico per avere supporto, qualcuno che ti ascolti, ti faccia sfogare. Che ti metta una mano sulla spalla e ti dica che andrà tutto bene, a prescindere dal fatto che sia vero. Qualcuno con cui prenderti una sbronza colossale. Sembra una cosa normale, ma non quando questo qualcuno è l’Aspie. Perché lui cercherà sempre una soluzione pratica, e in casi del genere le ipotesi sono due: la soluzione non c’è, perché il gatto è morto la ragazza si è trasferita in Messico l’auto è da buttare, o anche perché a volte uno è triste così, senza motivo. Oppure la soluzione c’è – vai dal padrone e pregalo di tenerti ancora qualche mese; vai dalla ragazza che ti piace e dille che la ami; – ma adesso non vuoi sentirla, perché sei lì solo per sfogarti e bere un altro bicchiere.
Ecco, una cosa del genere all’Aspie è del tutto incomprensibile. Lui dovrà a tutti i costi progettare un piano d’azione, e se non sarà possibile perché una soluzione non c’è o non è quello che vi serve, lo vedrete innervosirsi. Ballerà sulla sedia, fumerà una sigaretta via l’altra, borbotterà da solo e presto vi farà La Domanda, quella che di solito riceve come risposta un sonoro vaffanculo, se non direttamente un papagno in faccia:
–Ma allora se non ci possiamo fare niente, perché siamo qui a parlarne?
Poi vi chiedete perché l’Aspie ha pochi amici.
Dice che è un deficit di empatia cognitiva: praticamente non capisce perché uno sta male, è triste, piange. Bisogna spiegarglielo nel dettaglio, e spesso nessuno sa come mai quella mattina si è svegliato sverso, no? Ecco, dunque, l’Aspie non sa spiegarsi le vostre emozioni. Nemmeno le sue, peraltro, a quanto pare. Il suo orizzonte emozionale, più o meno, si riduce a due aree sbozzate malamente: “OK” e “non OK”, il resto è oltre la sua comprensione. D’altra parte, le emozioni è come se le sentisse. Se vi avvicinate agitati all’Aspie, otterrete un Aspie più agitato di voi, al punto che potrebbe diventare totalmente incapace di pensare. Fumerà quaranta sigarette, berrà compulsivamente, inizierà a sfregare la camicia o a muovere la testa avanti e indietro, nei casi peggiori cadrà in un mutismo totale (shutdown) o si produrrà in un’esplosione di rabbia da quattrenne cui hanno negato il lecca-lecca (meltdown). Farà tutto questo e molto altro, ma non vi aiuterà minimamente, perché sarà vittima di un contagio emotivo. Come quello dei film in cui una folla improvvisamente impazzisce e fa cose idiote, solo in un’unica persona.

Il problema vero si è posto l’altra sera, dopo cena. Eravamo fuori dal locale, bevevamo forse il quarto amaro e io mi stavo sfogando. In effetti è un periodo, diciamo, poco brillante, per una serie di congiunzioni astrali comunemente dette: sfiga mi sono ritrovato senza lavoro, sull’orlo di uno sfratto, ricco di casini sentimentali e perdipiù – sfiga maxima – con un serio problema in famiglia. Da circa due mesi mia madre è infatti gravemente depressa. È seguita da un medico, ma da alcune settimane ha anche iniziato a parlare molto spesso di suicidio. Mio padre è disperato, e io ho molta, molta paura. Insomma, avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Per mia somma sfortuna ho scelto l’Aspie. Ero arrivato al punto clou, quello relativo a mamma. «Tutti i giorni minaccia il suicidio e…», e l’Aspie nemmeno mi fa finire, gli capita quando è agitato o eccitato.
«Tutto sommato», inizia, «non c’è da preoccuparsi troppo: il 70% degli episodi depressivi maggiori si risolve in un massimo di tre mesi – mediana cinquantotto giorni –. Inoltre, lo so che sembra paradossale, ma statisticamente chi preannuncia atti anticonservativi tende a dare seguito alle minacce in percentuale decisamente minima. Sarebbe stato più preoccupante se avesse avuto comportamenti meno problematici: il candidato ideale al suicidio è il paziente che ha smesso di cercare interazioni con l’esterno, che ha ridotto a zero i tentativi di comunicazione, che ha smesso di parlare dei propri problemi».
Oh, io lo so cosa sta pensando: Ecco fatto, finalmente un argomento su cui ha potuto intervenire in modo sensato. Ha fornito dati rassicuranti, che dovrebbero lenire le paure. È confortante sapere che un evento temuto ha scarse probabilità di verificarsi, no? E qui abbiamo centinaia di studi di coorte, migliaia di pazienti, solide metodologie statistiche che permettono di calcolare la probabilità dell’evento: e quella probabilità è bassa! C’è da festeggiare, almeno questa palata di merda ti ha mancato, amico mio; nessuna mamma tenterà il suicidio, non questa sera! E vedrai che, uno per volta, risolveremo anche gli altri problemi.
È evidentemente soddisfatto. Per questo non capisce come mai lo fisso in silenzio. Credo, in realtà, che non colga nemmeno il fatto che lo sto fulminando con gli occhi (che idiota sono, certo che non lo coglie, quello non guarda mai nessuno negli occhi). Così gli devo spiegare che forse mamma è in quel restante 30%, che magari lei è l’eccezione che conferma la regola, che sicuramente lui è un cretino uno stronzo un idiota insensibile.
–Ma ti sembrano cose da dire?! Ti sembra che ho bisogno delle tue statistiche del cazzo?! Sto raccontando un problema serio, cosa me ne frega se il sessanta per cento dei depressi non si ammazza?»
–Veramente è il settanta per cento, ma riguarda la durata dell’episod…
–Fosse anche il novanta: non è quello che mi serve! Se non hai niente di intelligente da dire, ti conviene stare zitto! Non ho bisogno di numeri freddi, tirati fuori da qualche scienziato pazzo. Non sono dati, sono persone! Carne! Sangue! E, spesso, Sansimone!
–Ok, senti…
–No, senti tu: ti ho raccontato queste cose perché volevo mi capissi, non perché cercassi di tirarmi su con questi tuoi inutili conti della serva! È una cosa del tutto fuori luogo. Perché, piuttosto, non mi hai guardato negli occhi e non mi hai dato una carezza?
–Perché non so se la nostra relazione, al momento, mi consente di farlo.
–Devi leggere il manuale anche per questo? Perché devi sempre classificare tutto? Perché devi sempre attenerti a qualche regola del cazzo, che peraltro nella maggior parte dei casi ti inventi? Hai mai un comportamento spontaneo?
–Sì, ogni tanto, ma di solito finisce in questo modo, ecco perché se ci fosse un manuale, in effetti, gradirei molto leggerlo.
–Sei un caso disperato.
–Forse sì. Ma, senti, davvero non volevo ferirti. Non stavo cercando di sminuire il fatto che stai male, o che sei preoccupata per tua madre. Quello, anche se mi sembra assurdo, lo sento. Pensavo ti avrebbe tranquillizzata, almeno un po’.
–E invece no, cazzo.


Da allora non ci siamo più sentiti. Forse ho esagerato, in effetti voleva aiutarmi, per quanto nel suo modo contorto. Ma non posso sempre sopportare tutto. E non pensiate che dopo vi chiamerà non dico per chiedere scusa, ma per sapere come va: no, lui si perde dietro alle sue cose dimenticandosi persino di andare in bagno. Gli verrete in mente a orari improbabili, e non telefonerà né manderà un messaggio perché a quell’ora, stando alla sua rigida weltangshauung, non si effettuano comunicazioni non d’emergenza.

Eppure adesso che ci ripenso mi accorgo della sua paura, del suo stupore. È come se avesse avuto una percezione nuova, se gli fosse balenato davanti ciò che non ha mai avuto fino ad ora; per un attimo deve avere intuito com’è la vita degli altri — incasinata, complicata dalle incongruenze logiche, da questi fiotti di sensazioni che ti colpiscono e ti buttano a terra. E si rende conto che gli altri, i neurotipici, queste cose le provano meglio, con maggior frequenza e da più tempo; per questo hanno imparato a gestirle. Lui, invece, si muove tra le ondate di emozioni come quando cammina in una stanza piena di persone: goffamente, tanto più urtando negli spigoli quanto più cerca di evitarli. Non sa come fare. Dev’essere successo qualcosa: prima le sue emozioni erano in sordina, ora le spara un amplificatore da mille watt dritto nel suo sistema limbico. Continua a non capirle bene, ma ora cazzo se le sente: e quindi ancor più di prima quando sente le emozioni degli altri ne è sopraffatto. Ecco, forse il mio giudizio sull’Aspie è stato troppo duro, perché lui ora sa, ancorché vagamente, quello che provano gli altri, ha avuto idea dell’orrenda altalena di sentimenti su cui ci muoviamo noialtri, e lui non ha il manuale d’istruzioni, non sa come fare per rallentare certe sensazioni, o come accoglierle.
Allora forse, dopotutto, resterò qui. Per capire i suoi comportamenti e spiegarglieli. A lui, e agli altri, che non sanno cosa vuol dire essere Aspie in questo mondo di incostanti, imprevedibili neurotipici. L’Aspie non ha il manuale che gli serve, ma forse ce l’avrà presto. Meglio che gli telefoni subito, altrimenti se aspetto lui ci sentiamo tra dieci anni.

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