venerdì 28 giugno 2019

Stefano Ficagna - Una leggerezza

L'unica cosa certa, in tutta questa storia, è che mentre lui inizia a disegnare lei non tira neanche un fiato.
Il suo ruolo negli avvenimenti fu accettato con leggerezza, la stessa che ostentavano i sei fazzoletti di lino bianco che stringeva in mano. Una tassa d'entrata inusuale, un vezzo di eleganza di dubbia utilità in luoghi dove ogni movimento costa sudore. Il sole in quel villaggio sembra camminare al tuo fianco, ma il suo abbraccio non è per niente benevolo. Soffoca.
Dei fazzoletti ricamati, a pochi passi dalla giungla, rappresentano una bellezza effimera. Un esotismo al contrario, laddove esotico è qualunque simbolo di lande che forse non vedremo mai.
La regione intera era un miraggio prima che potesse vederla coi suoi occhi. Ciò che gli veniva raccontato di quei luoghi era tanto inverosimile da provocare una reazione consolidata sul suo volto: il sopracciglio sinistro arricciato verso il basso; quello destro, una linea retta verso l'alto, come un accento; la fronte increspata di rughe.
E gli occhi, tanto fissi quanto distanti, persi in chissà quale ragionamento. Partecipare alla spedizione era stata una sfida, ai propri limiti fisici certo ma non di meno a quelli della propria mente.
Voleva vedere, toccare con mano. Come un novello San Tommaso necessitava dei sensi per credere a un mondo diverso da quello in cui era cresciuto. Innumerevoli viaggi non lo avevano abituato alla varietà del creato, perché gli agi della propria ricchezza gli facevano da schermo.
La curiosità di entrare finalmente in contatto con qualcosa di autentico lo spinse ad agire. L'espressione corrucciata, quella distanza fra la linea dello sguardo e l'effettivo orizzonte che i suoi occhi vedevano, furono stigmate che non lo abbandonarono nemmeno in quella terra dove l'impossibile appariva reale.
E a chi gli promise di mostrargli qualcosa di cui non sospettava l'esistenza, un atto al quale nemmeno calpestare quella terra e respirare l'aria pesante e umida lo avevano preparato, egli riservò leggerezza e incredulità in egual misura.

Camminarono a lungo, un piccolo drappello scelto. Eterogeneo e insolito, dagli abiti al colore della pelle finanche all'età. Lui si lasciava guidare, ogni tanto gettava un'occhiata distratta al tributo che andava recando, ma i suoi occhi si fissavano oltre. Incapaci di fissarsi sul presente, cercavano segni di qualcosa di là da venire.
Risposte, a domande nemmeno troppo chiare nella sua testa.
Arrivarono al villaggio successivo accolti da una deferenza eccessiva, solitamente riservata solo a ospiti importanti o temuti. A quale categoria appartenesse il drappello lo testimoniavano piccoli dettagli. Occhi rivolti verso il basso, sorrisi incerti, piccoli tremori delle mani.
Abituati alla crudeltà, gli abitanti del villaggio associano l'uomo bianco alla paura. Il suo arrivo getta sempre un'ombra sugli eventi, e al tramonto la si può vedere che si allunga dai loro piedi, assumendo le più svariate forme. Una nave che solca il mare, un ammasso di catene.
E una montagna di mani tagliate, che hanno smesso per sempre di tremare.
La paura era il minimo comune denominatore che legava i due gruppi, e sfuggivano alle sue grinfie solo i più forti e gli innocenti. O chi, come l'uomo che si avvicinò al capo villaggio, era presente col corpo ma non con lo spirito.
Guardarono la sua ombra, ma il sole era allo zenit ed essa ristagnava neutra sotto di lui. Ci si poteva aspettare qualunque cosa, ma egli recava con sé un dono e per il capo villaggio quello era un buon presagio.
Il dono avanzò. Sembrava leggera quanto il lino di cui erano composti i fazzoletti con cui era stata scambiata, o forse era l'innocenza dei suoi dieci anni a renderla tale. Non tremò di fronte agli uomini a cui veniva ceduta, nemmeno al cospetto di colui che l'aveva comprata.
Ma alla voce di quest'ultimo, alla sua richiesta espressa in una lingua che masticava a malapena, un sospiro le sfuggì dalle labbra.

La sacralità di ciò che sta per accadere è rotta solo da pochi rumori, coltelli che vengono affilati, una matita che corre veloce sul foglio. Per la tribù tutto questo non è una novità, ma sentono che oggi qualcosa di diverso permea l'aria.
Forse lo sente anche la ragazza, legata a un albero e come arresa al suo destino. Gli occhi fissano qualcosa di indefinito, ma quando un uomo le si avvicina con la lama al fianco non riesce a impedirsi di guardare.
Due rapidi tagli al ventre, due strisce rosse che si allargano. Il sangue le cola lungo il corpo, ma il dolore non trova sfogo sulle sue labbra serrate.
Intanto l'uomo bianco osserva, mantenendo quell'espressione incredula sempre fissa sul volto. Distoglie lo sguardo solo per girare un foglio, ricominciare a disegnare, tratteggiare ogni dettaglio di quello strazio.
Gli uomini della tribù continuano ad affilare i coltelli. La cerimonia è solo all'inizio, ma la ragazza non ne vedrà la fine. Ogni minuto che passa gli occhi sono meno lucidi, le gambe meno salde, eppure continua a non emettere un lamento.
Sembra formarsi un legame fra lei e l'uomo che l'ha condannata a quel supplizio. Forse c'è un motivo per tanta crudeltà, e il suo martirio è anche estasi. Cosa vede? È ancora il nostro mondo che osserva?
E lui, quanto è consapevole del suo ruolo negli eventi? La sua leggerezza nel cercare prove di una pratica che non credeva vera gli fa orrore, oppure è insensibile di fronte al male? Quella goccia che scorre veloce dalla sua tempia al mento, spazzata via con un veloce gesto della mano, potrebbe essere sofferenza fisica quanto dell'animo, ma sul volto non appaiono moti di pentimento.
Quando la ragazza muore, lui continua a disegnare. Anche quando iniziano a farla a pezzi la sua matita corre veloce sul foglio, tratteggia una lama calata sul braccio, le viscere calde estratte dal ventre, l'acqua che monda le lame una volta finito il massacro.
Forse è stato davvero un momento sacro. Gli uomini della tribù renderanno onore alla vittima divorandone le carni, e l'uomo bianco potrà convincersi che il suo ruolo nella vicenda era scritto nel libro del destino. Che non esistono martiri senza un carnefice, e per ogni santo ci sono un uomo o una donna che ne hanno permesso l'ascensione, non meno degni di beatitudine.
O forse un demone si è rivelato al mondo, e non si è nemmeno riconosciuto.

(Ispirato alla vera storia del Jameson Affair, vicenda accaduta nel 1886 durante la sanguinosa occupazione del Congo da parte di Re Leopoldo II del Belgio)

Sergio Gallo - La cripta sommersa

Discorso intorno alla fine di due pesci rossi nella cripta della chiesa di San Francesco a Ravenna

- Ma vuoi che mi venga l'esoftalmo? L'idropisia, l'ulcera, la malattia del cotone? - disse Gemella d'un tratto, esasperata. - Che mi uccida a forza di testate contro il muro o per una cronica infiammazione mi metta a nuotare per sempre a sghimbescio o a pancia all'aria? Che per esaurimento mi si sfrangino la pinne, mi crescano i barbigli? - Esichio la guardò in silenzio, con aria interrogativa - Mi farai diventare pazza con le tue questioni e le tue continue lamentele! - aggiunse lei, aumentando il carico se ancora ce ne fosse bisogno.
- Beh ma prima o poi dovremo affrontarla, la fine: basta che l'acqua qui dentro per qualche ragione si prosciughi o drasticamente cambi la temperatura... e noi saremmo fritti! - dopo un po' fece lui. - Beh quando questo accadrà lo affronteremo! Ma fino ad ora la sorgiva si è sempre mantenuta costante - precisò lei - E poi, lo dovresti sapere, i bipedi dalle pinne lunghe, quelli che vivono nel mondo ultracqueo e che ci danno anche il cibo per sopravvivere, ripristineranno la situazione e ci sostituiranno con altri pesci della nostra stessa specie. Altri uguali a noi continueranno quello che abbiamo sempre portato avanti, tramanderanno quello che abbiamo imparato in milioni di anni e quello che abbiamo appreso di questa cripta, nella quale fino a oggi bene o male abbiamo vissuto. Anche loro saranno simili ad antichi zeloti, eredi dei custodi del vescovo Neone, che i bipedi venerano per aver fondato questo luogo sacro. Anche loro saranno “virgulto di sapienza” e orgoglio di tutti i pesci rossi! Quindi basta con questa tua ansia apocalittica! -.
- Ti ricordo cara che i bipedi credono che i pesci rossi non abbiano memoria! - puntualizzò Esichio. - Beh se ci conoscessero meglio cambierebbero idea! - controbatté Gemella.
- Se non vivessimo in questo particolare posto ci ignorerebbero del tutto! - concluse lui. Per un attimo tacquero guardandosi attorno.
Le tessere dei mosaici sul pavimento brillavano di mille riflessi.
Ogni occhio, muovendosi in direzione opposta all'altro, percepiva sfumature di colori diversi; da una parte prevalevano i blu: ceruleo, cobalto, pavone fino alle ombre più scure color blu notte, oltremare, Prussia. Dall'altra i rossi: magenta, scarlatto, vermiglio, cinabro, corallo, cremisi per arrivare a porpora, carminio, granata. Distintamente apparivano le basi delle quattro colonnine in pietra, “neri alberi” che si elevavano a sostenere il soffitto a volte a crociera che essi però potevano solo immaginare. Un cielo di vetusti mattoni. Altri diciotto alberi marmorei più piccoli delimitavano in semicerchio i confini della spaziosa cripta-acquario. Essendo i due pesci uno di fronte all'altra potevano invece sbirciarsi grazie a quello stretto angolo del campo visivo in cui gli occhi monoculari vedono simultaneamente. Non era la vista, però, l'organo di senso con cui di solito si riconoscevano.
Sapevano di essere in una cripta del Decimo secolo, meraviglia della cristianità, sorta sui resti d'una più antica chiesa primitiva e prima ancora forse da un tempio pagano dedito al culto di Nettuno?
Filtrava dalla finestra centrale qualche rasoiata di luce dalle navate della chiesa, un raggio di sole dall'abside un tempo decorato da mosaici raffiguranti gli apostoli Pietro e Paolo, il riflesso notturno d'una stella, d'una candela a rifrangersi sulla superficie smeraldo delle acque sorgive?

- Tu devi pensare a vivere meglio che puoi il presente! - proseguì Gemella. - Ti ricordi come eravamo felici quando ci siamo conosciuti la prima volta da piccoli, quanto ci piaceva nuotare una accanto all'altro, esplorare il mondo sommerso? Ti ricordi quando durante il periodo del corteggiamento mi danzavi attorno riempiendomi di attenzioni, di moine, solleticandomi il ventre con i tuoi buffi tubercoli nuziali? -.
- Lo sai che finché le condizioni di temperatura dell'acqua rimarranno queste non ci è consentito procreare! - borbottò mestamente Esichio - Altrimenti sì che ti avrei dato qualche migliaio di avanotti! -
- Ma io non sto parlando di questo - replicò Gemella - sto parlando di come un tempo la nostra vita fosse più spensierata, più tranquilla, meno problematica, meno esasperata. -
- Più nella vita aumentano consapevolezza e complessità, crescono problemi, ansie e preoccupazioni e più si rimpicciolisce il tempo per gioire – osservò Esichio da filosofo consumato e aggiunse: - L'iperuranio della gioia inconsapevole e le infinite coccole dell'infanzia ormai sono una chimera! -
- Ti ricordi le leggende che ci raccontavano su come sono nati i pesci rossi nel Catai? - riprese Gemella - Su come erano stati proibiti i pesci dorati e ciò aveva di fatto aiutato la selezione di quelli più rari color mattone? -
- Vediamo ora con questo tuo pindarico svolazzare del pensiero dove mi vai a parare - sospirò Esichio. E lei: - E ti rammenti di come imperatrici e imperatori bipedi facessero a gara per adornare con i più bei esemplari della nostra specie le vasche dei loro splendidi giardini, i più preziosi vasi di porcellana? Ci adoravano come piccoli dei, eravamo forieri di ricchezze, di bellezza, di fortuna. -
- Sì, però, si facevano anche dei gustosi bocconcini con quei nostri progenitori: morbidi frutti che cascavano in fauci ingorde! - disse Esichio. - È strano come si siano incrociate la storia dei pesci rossi e quella dei bipedi dalle pinne lunghe – constatò poi.
- É la storia dei bipedi a essere affascinante quanto la nostra! - ribatté Gemella. - Pensa solo a tutti quelli di cui abbiamo sentito le voci da qui sotto, a tutti quelli che sono stati sentiti dai nostri predecessori. E a coloro di cui abbiamo solo sentito raccontare: Onorio, Liberio, Orso, Neone. Si dice che un tale, Ostasio da Polenta, seppellito in un sarcofago rosso veronese ma con il volto e le mani di marmo bianco, sia stato il primo bipede ad aver importato qui dall'Oriente i pesci rossi! E quel tale che i bipedi chiamano il Sommo Poeta, su cui arrivano ancora oggi le notizie più disparate: in questi luoghi con i massimi onori ne vennero svolti i funerali e venne seppellito qui nei paraggi. Giungono bipedi da ogni dove per rendere omaggio alla sua tomba! -

A un tratto furono interrotti da un susseguirsi di vibrazioni. Da una moltitudine di voci che giungevano nitide, dato il più veloce propagarsi dei suoni nell'acqua. Poi sequenze di lampi colpirono la superficie delle acque soprastanti. Non li potevano vedere bene ma sapevano che un nuovo gruppo di giovani bipedi si era avvicinato e cominciava a guardare incuriosito nelle aperture della cripta: avrebbero ammirato gli splendidi mosaici bizantini del pavimento? Tradotto le epigrafi musive in greco e latino? No di certo! In men che non si dica s'apprestavano a tempestare i pesci con flash di telefonini e macchine fotografiche digitali! Altrettanto facevano i bipedi più grandi. Pareva non avessero mai visto dei pesci rossi nuotare in una cripta.
- Vai a far lezione a dei celenterati senza spina dorsale, che non rispettano nemmeno le altre forme viventi, non conoscono la storia e approfittano d'una gita scolastica solo per divertirsi e far casino, invece che per imparare! - sbottò a un certo punto Esichio, rassegnato.
- Ma santa merenda! Guarda anche il lato positivo! Senza la presenza delle scolaresche e dei turisti che passano di qui, noi saremmo costretti a vivere nel buio per quasi tutto il tempo, incapaci di distinguere il dì dalla notte e forse anche incapaci di vedere! - gli rispose Gemella.
- Quelli sono lampi di luce premonitori, che ci avvertono della fine! - disse Esichio - Le acque presto saliranno corrompendosi di melme e di fanghi e poi saremo risucchiati in un gorgo che ci ucciderà - e la compagna prontamente: - Ma prima ci spunteranno le ali tra le pinne dorsali, le branchie si muteranno in sacchi d'aria e come pesci rondine voleremo via nel mondo là fuori! -.
- Cribbiolina, manco fossimo degli angeli! Certo che ne hai di fantasia! - rispose lui. - Sognare aguzza la mente! - disse lei - E poi senza la speranza di un futuro come si fa a vivere serenamente il presente? Guarda che quei lampi che vediamo potrebbero benissimo essere i nostri illustri antenati che, trasformati in luce, vengono a rassicurarci! -
- Oppure ci avvertono che ci resta poco tempo! Difatti io mi sento già peggio - replicò Esichio - anche le mie squame non sono più rosso mattone come una volta e macchie olivastre cominciano a spuntarmi un po' ovunque! -
- È solo un po' di stress dovuto all'abbassamento della temperatura, vedrai che passerà - cercò di rincuorarlo Gemella - sono fasi transitorie come la rubedo e l'albedo alchemiche e se, per mentale nigredo, non ti si annerirà il cuore diventando duro come ossidiana, sono convinta che tutto si sistemerà per il meglio e che, seppur in cattività, vivremo una lunga vita, più longevi dei nostri coetanei selvatici! -.
- Siamo creature fragili in un mondo mutevole e spietato - ribatté Esichio - Non siamo fatti per durare! Non lasceremo alcuna traccia di noi, mica siamo le balene o i delfinidi del Pliocene... Un dì o l'altro ci adageremo sul fondo e in men che non si dica, se qualcuno degli altri non si ciberà prima dei nostri resti, imputridiremo e svaniremo sfaldandoci nell'acqua. Solo se uno strato di ceneri, di argilla o di sabbia ci coprirà, forse rimarrà tra qualche millennio il nostro scheletrino tra le pagine di pietra d'un bel fossile. Amen.-
D'accordo - replicò Gemella con decisione - ma fino a quel momento saremo insieme, ci sosterremo a vicenda badando uno all'altra, testimoni d'un piccolo miracolo vivente e circondati da un grande mistero che non siamo in grado di decifrare. Il nostro amore ci accompagnerà fino alla fine, sigillando le nostre brevi vite: siano due, dieci o venti anni! Saremo uniti per le code per sempre come i Pesci dell'antica costellazione! -
- Speriamo che invecchiando questo legame non si trasformi in un rapporto malsano, in un corto circuito ossessivo che a poco a poco ci soffochi, togliendoci tutto l'ossigeno! - interruppe preoccupato Esichio. Ma Gemella continuò come se nulla fosse: - E poi qualcuno di quei bipedi lassù, vedrai imparerà la lezione. Imparerà la storia, il rispetto per la natura e per le altre creature. Proprio come San Francesco, il bipede da cui questo luogo prende nome.
- Non dobbiamo rassegnarci agli angusti spazi di questa vita, Esichio, dobbiamo credere al perpetuarsi della Storia, all'incredibile ricchezza delle possibilità. Sorridere di quello che abbiamo (ndr. ma i pesci rossi sorridono? Sì, le loro anime sorridono!) e cercare di fare del nostro meglio per vivere il tempo che ci rimane.
- I bipedi non si dimenticheranno di noi, anzi è probabile che resteremo anche dopo che loro si saranno estinti. Non possono fare a meno di noi, come degli alberi, delle api, delle zanzare e dei vermi di cui ci nutriamo e di tutte le creature di questo mondo, sia quello subacqueo che quello ultracqueo.
- Siamo il riflesso della loro anima. Noi non possiamo sopravvivere per molto al di fuori dell'acqua, ma anche la loro anima, che credono erroneamente immortale, non può sopravvivere al di fuori del loro corpo. In fondo, come noi, sono imprigionati da ciò che del mondo filtrano coi loro sensi limitati. Ma senza i pesci rossi la specie dei bipedi non sarebbe neanche esistita!
- E poi nascono da uova fecondate dallo sperma proprio come noi e durante il periodo fetale, come pesci, vivono in una cavità uterina piena di liquido! Noi siamo i primi pilastri della loro Sapienza, a patto che la coltivino e la mantengano, siamo scintille viventi nei loro tempi oscuri. Noi c'eravamo quando la verga di Mosè fece scaturire l'acqua dalla pietra di Horeb. Siamo stati i progenitori dei loro progenitori, il loro cibo e il loro spirito. Abbiamo seguito i loro fasti e le loro cadute, così come seguiamo l'innalzamento e l'abbassamento delle acque. Siamo i loro pesci angeli custodi. -
Dopo tutto questo sproloquiare Esichio s'era tranquillizzato e aveva ritrovato un po' della sua ironia e del suo buonumore. Ora scherzava con gli altri pesci maschi e si vantava dell'intelligenza della sua amata consorte, come un paguro che fa bello sfoggio dell'anemone sulla sua conchiglia. Quello era il lato del suo carattere che era piaciuto fin da subito a Gemella. Lei sapeva che nonostante certi difetti, certe difficoltà, in caso di necessità l'avrebbe difesa e come un pesce siamese si sarebbe battuto per lei, fino alla morte. E tanto le bastava. Aleggiava sospesa nella corrente leggera come una medusa, come un pesce palla sospeso tra i coralli.

Hanno due caratteri diversi, Esichio e Gemella, ma si completano in una singolare dicotomia; pare di vederli, compunti, far uscire le loro testoline dall'acqua per ascoltare le parole dei santi: quelle di Francesco, il rivoluzionario che parlava a tutte le creature o quelle di Antonio,  orfano di uomini in ascolto, come possiamo ammirare nel celebre dipinto del Veronese.
Sentirsi la reincarnazione di Cupido e di Venere che si trasformarono in pesci per sfuggire al mostro Tifone. Sentirsi i teneri amanti nella bolla del Giardino delle delizie di Bosch. E continuare a raccontarsi vicende favoleggianti di vite precedenti, di vite fantastiche: di quando erano uccelli alla ricerca del Simurgh, farfalle dai mille colori, laboriose formiche, astuti ramarri a caccia negli intricati labirinti del sottobosco.
Cosa determinerà la fine della Storia? Un'implacabile, irrevocabile sequenza di eventi. Un catastrofico balletto. Una folle danza macabra. Si estingueranno prima gli uomini o i ciprinidi? Dare una risposta, impossibile: come risolvere il paradosso cretese del mentitore o quello ebraico della contrazione.

Biagio Nasti - La costellazione di nei

Quel che stringiamo nelle mani
è quel sentimento retrò,
passato ma vivo
di un giorno chiamato ieri.
Un termine obliquo,
ideato da sillabe delicate
che battono sulla lingua
un concetto detto per caso.
Siamo il risultato di verbi andati,
l’unione inconsapevole
di quell’armonia indicata
da una costellazione di nei.
L’insieme di punti fissi,
immobili come sassi
e decifrati singolarmente
come i grani di un rosario.
Ora si urla al presente la rabbia,
mentre indifesi e distratti
bisbigliavamo al futuro
la voglia di essere qualcuno.
Eppure non siamo eroi,
o forse lo siamo,
noi due che affrontiamo la vita
confrontandoci di schiena.

giovedì 27 giugno 2019

Domenico Priano - Sul sentiero

Il sentiero era un lungo filo d’erba
cresciuto a fior di labbra sul crinale
dove spiccava fitto il paradosso:
Neve d’agosto e rondini a Natale.
Noi ci andavamo
mano nella mano
un fiore in bocca e l’animo contento
e un brivido che dà la pelledoca,
a ogni strappo impercettibile
di vento.
Ora quel sentiero è abbandonato
povero e acerbo e vuoto
oltremisura.
E al posto dei tuoi passi e le tue impronte,
la trasparenza folle.
E la paura.

Alberto Salvalaio - Petardo

Sapore di birra a buon mercato
di capodanni del passato
di aspettative mancate
che rinascevano uguali il giorno dopo.

Strofino forte la faccia
per farne uscire una nuova
Alleno i muscoli in un sorriso
Concimo un sapere trascurato
Fai la vita da sposa
col lavoro assicurato.

Ho letto circa venti libri
da quando ho smesso di parlarti
Tutto quel rumore improvviso
sparisce veloce
come un petardo.

Alberto Salvalaio - Andiamo altrove

Santa fame che mi liberi dall’esilio.
E il peccato delle domeniche col sole.
Non ho radici, come le tue.
Tu che cerchi vita nuova alla fine di ogni estate.

Ti ho regalato un rospo sorridendo,
hai risposto con disgusto.
Ero sincero. Fino a qualche minuto fa.

Tengo le scarpe, che magari esco.
Dormo e fumo come un pazzo.
Quel che avanza è una mappa spiegazzata.
E un po' di tosse la mattina.

Il solaio è pieno di desideri.
La cantina allagata da lacrime vecchie.
Andiamo altrove.

venerdì 14 giugno 2019

Marco Maresca - Una storia vera di nichilismo e odonomastica

Laggiù in fondo una volta era tutta campagna, ed ora c’è un condominio con le puttane cinesi.
A grandi linee il succo è questo, però mi piacerebbe spiegarvi meglio il contesto.
A metà degli anni ottanta i miei genitori lavoravano entrambi tutto il giorno, e ad andare all’asilo piangevo. Così passavo tanto tempo dai miei nonni. Nelle mie perlustrazioni pomeridiane mi spingevo fino ad un piccolo campo da calcio situato poco dopo la loro casa. Non si poteva andare oltre, perché a parte un paio di villette non c’era niente.
Negli anni novanta il campetto sparì. Al suo posto sorse un condominio in cui i miei nonni andarono ad abitare. E da lì a pochi anni ci fu un’ulteriore novità: continuando a camminare si poteva andare ancora più avanti! Infatti nel frattempo era stato emanato il nuovo il piano regolatore, che dava il permesso di costruire in quella zona, poiché al Comune erano pervenuti degli studi abbastanza credibili secondo i quali c’era la possibilità che a breve la popolazione cittadina aumentasse del quaranta percento, cosa che effettivamente accadde.
A dire il vero, i rapporti di causa ed effetto di quanto ho appena enunciato potrebbero essere invertiti. Fatto sta che i costruttori di case in quel periodo si arricchirono, e non poco.
L’odonomastica è il dare nomi alle vie, e in quel periodo c’era bisogno di nomi, e tanti. I morti celebri erano divisivi, perché ognuno tendeva a darne una lettura politica. Così furono i bambini delle elementari a scegliere i nomi delle nuove strade, ma io ero già grande all’epoca, quindi non ho potuto compiere questo esercizio di democrazia partecipativa.
In buona sostanza, ad una nuova strada fu dato il nome di una valuta monetaria che avrebbe dovuto unificarci tutti quanti come fosse una bandiera. La storia recente mostra che non è andata proprio così, ma non mi son mai piaciuti i riferimenti all’attualità: le storie devono avere valenza universale. Quindi la chiudo qui, ma ne approfitto per rilevare una certa ironia in una via col nome di moneta in cui è sorto un condominio con le puttane.
Una volta i condomini erano un mondo in miniatura, una comunità in cui tutti si conoscevano e si aiutavano tra di loro. Tanti esseri umani, così vicini l’uno all’altro. Come potevano non organizzarsi per ricavare il meglio da una simile modalità di vita? Eppure, nei palazzi nuovi non accade questo. Molti usano l’appartamento solo per dormirci la notte, altri invece nel cuore della notte si svegliano per andare a lavorare. I più giovani nemmeno si accorgono di tutto ciò, in quanto immersi nel sentimento del proprio tempo, che non prevede più l’uscita da casa. Ormai non capita sovente di incontrare il proprio vicino di casa e di salutarlo lungo le scale.
Tagliando corto: c’era un appartamento pieno di donne cinesi dedite alla vendita di servizi nell’ambito del benessere, ma nessuno lo sapeva. Evidentemente si erano insediate contestualmente alla costruzione del palazzo e non erano mai uscite di lì, ed esercitavano la propria professione con estrema discrezione, oppure avevano dei vicini sordi. Solo i veterani del sesso a pagamento sapevano di questo appartamento pieno di prostitute, in quanto l’informazione era veicolata tramite canali non ufficiali. In breve tempo, quindi, si era formato un viavai di maschietti (prevalentemente pensionati) che suonavano il citofono, salivano le scale in silenzio, facevano quello che dovevano fare e se ne andavano com’erano venuti.
Ad un vecchietto, che chiameremo Gianni, era giunta la notizia delle puttane cinesi, ma l’informatore non gli aveva detto a quale campanello suonare. Giunto alla pulsantiera, Gianni non si era fatto ottenebrare dalla libido, ma aveva fatto un ragionamento logico: c’era un solo nome non italiano, e doveva essere per forza quello giusto. Infatti, dopo qualche secondo di attesa, il portone si aprì. Gianni entrò nel pianerottolo e con movimenti circospetti cercò di leggere i nomi sui campanelli posti di fianco alle porte d’accesso ai singoli appartamenti. Dovette accendere la luce ed inforcare gli occhiali, perché l’età non giocava a suo favore, ma più o meno stava proseguendo nella sua ricerca della giusta porta a cui bussare. Di base c’era un buon ragionamento: prendere  l’ascensore, selezionare un piano, scrutare il pianerottolo alla ricerca del nome straniero. Ripetendo queste azioni un paio di volte, finalmente Gianni trovò quello che aveva identificato come appartamento delle puttane cinesi. Era particolarmente compiaciuto del fatto che tutto fosse andato liscio e questa sensazione, frammista all’eccitazione per un atto proibito, gli fece recuperare un vigore che sembrava perduto da tempo. Così, mentre suonava il campanello col nome straniero, sentì che non aveva molto tempo: doveva iniziare a sbottonarsi i calzoni.
L’esotico proprietario di casa lo chiameremo Mark, poiché è semplicemente il mio nome tradotto in albanese, così non scontenterò nessuno. Dunque: una trentina di secondi dopo aver udito il suono del campanello, Mark aprì la porta e sgranò gli occhi. Era convinto di trovare davanti a sé suo cugino, venuto per aiutarlo con un trasporto di mobili, invece davanti a lui c’era un attempato signore con un paio di capelli attaccati alla testa, un paio di occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglia, e soprattutto un paio di calzoni sbottonati dai quali sembrava sporgere qualcosa.
“Buonasera, sono venuto per… Ehm… Le signorine”, esordì educatamente Gianni.
Mark aveva una bottiglia di birra in mano, e poiché nell’altra stanza c’erano la moglie e la figlia, tale contenitore non gli sembrava un’arma abbastanza potente per difendere ciò a cui teneva di più al mondo. Ma, per evitare spiacevoli complicazioni, per adesso bisognava rimanere calmi e limitarsi ad usare le parole.
“Che cazzo vuoi”, pronunciò quindi Mark a denti stretti. Senza punto interrogativo, perché era un’affermazione.
“Eh, le signorine! Mi hanno detto che si trovano qui. Posso entrare?”, chiese Gianni, che pensava che l’atteggiamento scontroso di Mark fosse parte del gioco. Secondo lui era tutto normale, erano scene che aveva già visto nei film. Non era particolarmente preoccupato: al massimo l’albanese gli avrebbe chiesto una parola d’ordine, o qualcosa del genere.
“Allora. Prima di tutto: il cazzo lo metti nei pantaloni”, gli intimò Mark.
Gianni obbedì. Era ancora convinto di stare recitando abilmente la propria parte.
I calzoni ora erano abbottonati ma la rigidità perdurava, quindi i due si trovavano in una condizione di stallo: Mark impugnava saldamente una bottiglia che era pronto a scagliare contro le pudenda del vecchio, e quest’ultimo, senza troppo rendersene conto, aveva ancora il pennacchio puntato verso Mark, benché trattenuto dal cavallo dei pantaloni. Era una situazione senza uscita, a meno che uno dei due facesse qualcosa. I film americani insegnano che in questi casi ha la meglio chi fa una mossa inaspettata. Fu così che Mark, sempre guardando Gianni fisso negli occhi e mantenendo protesa la bottiglia avanti a sé, iniziò a indietreggiare fino a chiudere la porta.
Gianni credette di aver ricevuto in questo modo la conferma di essere nel giusto: di lì a poco la porta si sarebbe aperta e l’albanese l’avrebbe lasciato entrare. Una volta varcato l’uscio, ci sarebbero state le tanto rinomate puttane cinesi ad aspettarlo, e con loro niente sarebbe potuto andare storto.
Infatti la porta si aprì. Ne uscì Mark, stavolta brandendo un’arma più appropriata: un coltello a serramanico. “Vai via, stronzo! Ti ammazzo!”, gli urlava, mentre il vecchio chiamava a sé tutte le energie salvaguardate nei suoi primi ottant’anni, e nel saltare giù dalle scale non sentiva nemmeno più l’artrite. Il cazzo, nel frattempo, gli si sgonfiava, perché il sangue in quel momento era maggiormente necessario altrove. Il sistema cardiocircolatorio doveva irrorare come si deve la muscolatura delle gambe, perché Gianni aveva assoluta necessità di percorrere in tempi rapidi quella quarantina di metri che lo separavano dalla sua automobile. E doveva sperare di trovare immediatamente le chiavi nelle tasche. E che la sua Nissan Micra venticinquenne partisse al primo colpo. E di non incorrere in uno sbalzo di pressione o in qualche altro scherzo della vecchiaia nel frattempo. Insomma, c’erano tante variabili da considerare, e Mark sopraggiungeva urlante, col suo coltello ben stretto in pugno. Se solo il povero Gianni non avesse dato retta alle recensioni entusiastiche da turisti sessuali dei suoi compagni di bocciofila!
La Nissan Micra infine partì. Non al primo colpo, ma partì. Ma Mark, in realtà, aveva dato a Gianni tutto il tempo necessario a raggiungere la macchina in tranquillità. Non voleva veramente accoltellare il vecchio. Era soltanto molto spaventato. Pianse, infatti, per la prima volta nella sua vita. E nel cortiletto del palazzo lo raggiunsero presto la moglie, la figlia, e pure il cugino, giunto nel frattempo. Mark strinse al petto la figlioletta, poi le prese la testolina tra le mani e guardando la bimba negli occhi si ricordò i motivi per cui ogni mattina si alzava dal letto e andava a lavorare. Sua figlia era la sua vita, ed era fiero di averla difesa da un vecchio depravato. Poi si rivolse al cugino e gli spiegò che quella sera non si sarebbero occupati di alcun trasporto di mobili, perché c’era da chiamare le forze dell’ordine e denunciare quanto successo.
Nel giro di cinque minuti arrivò una coppia di carabinieri, che parlavano in napoletano come i loro analoghi dei Simpson, però erano abbastanza svegli. Diedero una rapida lettura ai nomi sulla pulsantiera del citofono. Esclusero i nomi di alcune persone notoriamente perbene, e suonarono ad uno ad uno tutti gli altri campanelli, tranne quello di Mark, per ovvi motivi. Annotarono i nomi di chi aveva risposto. Entrarono nel palazzo ed ottennero facilmente accesso ad ognuno dei cinque appartamenti su cui ricadevano sospetti. Quattro non erano interessanti, in uno invece trovarono un’elegante signora italiana che sorseggiava amabilmente un tè in salotto insieme a due sorridenti donne orientali pesantemente truccate. L’appartamento presentava pareti di colori discutibili e complementi d’arredo stravaganti. Era chiaramente una casa di appuntamenti, ma i due carabinieri cosa potevano farci? La faccenda si esauriva chiedendo alle tre donne di mostrare la regolarità dei propri documenti. Da lì in poi c’era un problema di competenze. Se l’attività fosse lecita o meno, non stava all’Arma dei Carabinieri stabilirlo, ma eventualmente alla Guardia di Finanza. Determinare se l’appartamento fosse occupato legittimamente era invece una cosa da Polizia Locale. L’unico reato sul quale avrebbero potuto forse indagare era lo sfruttamento della prostituzione, ma non era elegante dare della maîtresse ad una distinta signora di mezza età, e in più le due cinesi non sembravano sfruttate. Quindi i carabinieri accettarono una tazza di tè e se ne andarono ripromettendosi di tornare ad investigare ulteriormente in tempi futuri, cosa che non avvenne in quanto la cittadina era in espansione e c’erano sempre più manigoldi da arrestare.
E questa, in sostanza, è la storia del condominio con le puttane cinesi. Però vorrei ricavarne una morale, anche se so che non va più di moda.
A teatro, è regola che tutti gli oggetti in scena vadano in qualche modo utilizzati durante lo spettacolo. E così, se dai ad una via il nome di una moneta, è lecito aspettarti che in quella stessa via sorga un condominio con le prostitute.
I nomi dei morti creano divisioni, è vero, perché si tende ad associarli alla politica. Però io avrei delle idee. Ci sono i letterati e gli scienziati. O, se vogliamo aderire alla cultura popolare, nel novecento ci son stati tanti cantanti celebri. Per me va bene chiunque, da John Lennon a Janis Joplin. Siamo in Italia, vanno bene anche Luigi Tenco o Mia Martini. Chissà mai che in una via intitolata ad un personaggio di questi un giorno si generi qualcosa di bello in un mondo così vicino al nulla.

mercoledì 12 giugno 2019

Andrea Clementini - Abbandonata

Abbandonata
sul suo petto nudo
ne odo il respiro
M’illudo
nell’eco del suo cuore
ragione d’ogni mio battito
Inspiro il suo profumo
cornice perfetta d’un sogno
durato un attimo
poi volato, via
con i suoi desideri
lontano da ogni mio dolore

giovedì 6 giugno 2019

Pamela Baldi - Vicine come ieri e l'altro ieri

Mi tocco in doccia.
Ho uno specchio in doccia, ma non mi guardo. Fatico ancora. Mi concentro, escludo pensieri, mi inarco, ottimizzo i tempi, e vengo. Poi l'acqua lava via tutto. Anche il pianto. Non piango da sempre, quando mi tocco. Solo da poco. Da quando ho pietà per il mio corpo. Ho le tette. E' da un anno che le ho. E una figa. Piango perchè le ho sempre avute, ma non le vedevo. Mi giravo dall'altra. Amputate, censurate, ignorate, mortificate.
"State scherzando?! Shhhhh! Zitte voi. Femmine siete. Dovete stare zitte!"
Mia mamma era l'ultima di nove figli. Tre maschi e cinque femmine. Più lei. Volevano buttarla. Quando si è poveri, le regole sono due o tre, non di più. Non c'è molto da vivere, c'è da sopravvivere. E se nasci femmina, mangi e non lavori. I fratelli avevano deciso che era inutile. Sono figlia di una madre inutile, inutile come una vagina.
Mia nonna non so se poteva parlare, quando partorì mia madre. Si chiamava Elvira. Da piccola mi mettevano in stanza con lei, una stanza buia, odore di coperte. Mi mettevano su una seggiola, piccola come la nonna. Così piccola che per starci, dovevo incassare le gambe e la schiena. La nonna non poteva parlare. Aveva una maschera dell'ossigeno e le parole, le diceva quel coso, quel macchinario. Come una preghiera, come un prete che avesse deciso che era ora di andare, quel che era fatto era fatto. Che fortuna quel coso, doveva essere maschio. Mi mettevano lì. "Stai con la nonna". Forse dovevo richiudermi anch'io, su quella seggiola. Dovevo imparare a stare zitta, imparare che non avevo niente da dire.
Mia mamma occupa ancora meno spazio della nonna. Nel letto dorme su un fianco: metà della metà di un letto matrimoniale. Anche mia madre non parla. Emette suoni come quel coso, quella macchina dell’ossigeno. E' un continuo rimprovero, un rumore costante su cosa è giusto e cosa no. Non c'era spazio per lei, per la sua innocenza morbida e femmina. Ha imparato a parlare come un uomo, come i suoi fratelli. Pur di uscire da quella stanza buia di silenzi e coperte umide, niente più tette, niente più figa. Amputate, censurate, mortificate. E così ha imparato a parlare, come un giudice, come i fratelli, a dire cosa è utile e cosa no. Dichiarò la mia inutilità quand'ero piccola. Ero la sua farfalla. Finchè un giorno scoprì che mi piacevano le femmine. Dinuovo, una figlia sbagliata, una figlia inutile. Da buttare via.
L'amore materno che viene a mancare è una colpa, una condanna. Non è solo un'arteria recisa, ma un fiotto di vita che si spreca a terra. Cosa ne potevo, io, bambina? E' un'amputazione con un bisturi infetto, un braccio fantasma, una gamba in meno. E il braccio ti prude, anche se non c'è più. Ti prude, dà fastidio, in automatico fai per grattarti e non lo trovi. "Ah, già. non c'è più". Solo che il bisturi era infetto e quella roba che manca s'allarga, un continuo prudere di parti mancanti, di vuoti urticanti. Una vita di colpe da rimediare. Era giusto così. Mi nascosi, nascosi a me stessa la mia sessualità. Mi rinnegai. Mai. Per quanto amassi una donna, mai nessuna potè toccarmi, accarezzarmi, niente più tette, niente più figa. L’amore è crudele: se non fossi figlia, sarei stata felice.
Poi un giorno fu quello per dire tutte le cose. Per dire quello che non dissero mai mia madre e mia nonna. L'attimo prima fu la morte, un terrore marcio che consuma le ossa, la spina dorsale s’incendia come quando dai fuoco a un nido di vespe. Tremo. Prego mia madre di sedersi ad ascoltare. Il mio corpo esplode, improvvisamente ho le tette, ho la figa. E glie lo dico. Le dico che so ballare. So cantare. So ridere e scherzare. So baciare e ubriacare. So amare. Mi esce tutto in una sola frase: "Cara mamma, sono lesbica".

Kosmè De Maria - Family blues

Quell'orribile, gigantesca onda plumbea l'avevo già vista troppe volte apparire all'orizzonte della mia vita e avanzare, quasi volesse travolgere soltanto me di tutti quelli che popolano l'intero pianeta, incombendomi addosso con quella sua cresta minacciosa, orlata di spuma biancastra come scarico di detersivo.
Si sollevava con un rombo assordante dal fondo dei miei pensieri, così, all'improvviso, minacciosa e violenta come una mano pronta a ghermirmi, a trascinarmi lontano.
Anche ora me la sentivo montare dietro le spalle, mentre guidavo nella pianura scura, flaccida d'acqua, verso il mare, ma questa volta non mi avrebbe fatto più paura.
La stavo lasciando indietro e, quanto più velocemente mi allontanavo da quella che era stata per quasi quarant'anni la mia casa, tanto più il cavallone maligno si assottigliava, fino a sfrangiarsi, a sfilacciarsi, confondendosi con lo sfondo livido dei cirri ammassati alle montagne.
Ero libero? Stavo finalmente riuscendo a fuggire?
Ancora non lo sapevo del tutto, troppi pensieri, troppi ricordi allucinati mi ingombravano la mente, tanto che mi pareva di non avere vissuto in prima persona tutto quello che era stato.
E pensare che avevo attraversato un periodo così gramo che, per il panico, non ce la facevo neppure più a uscire dalla mia stanza.
Un serpente che si morde la coda.
Quando si guida è il momento ideale per riflettere, succede a tutti: si inserisce il pilota automatico e la testa sembra rotoli via nel tempo e nello spazio al ritmo veloce delle ruote, con tutti i pensieri dentro. Rimane sempre un controllo remoto, come se ci fosse un altro al posto nostro.
Alle volte, però, sarebbe davvero meglio non esserci.
- ... Dato che la pensi così, te la puoi cavare da solo, ma ricorda che tuo fratello ha ancora bisogno di me, io mi sono spaccato la schiena per voi, ho tirato su una famiglia, che chissà che fine facevate tu e quella lì se non mi incontravate, e ora mi volete cacciare fuori da casa mia!
 - Papà, sai bene di mentire anche a te stesso, siamo arrivati a un punto di non ritorno - e la voce mi tremava per la rabbia repressa. Mia madre sedeva singhiozzando in un angolo della cucina.
- Tu prendi sempre le sue parti, ti lasci abbindolare come un fesso dalle sue solite moine...
- Oggi le hai messo nuovamente le mani addosso, papà, e se non ti prendo a cazzotti, è perché
sono sempre stato un figlio fin troppo rispettoso...

- Tu per me non sei mai stato davvero un figlio... - queste le sue ultime parole, bisbigliate con disprezzo, mentre usciva sbattendo la porta.
Meglio perderlo che trovarlo uno così, coi suoi modi rozzi, brutali, che, da piccolo, mi facevano pisciare addosso dal terrore, e ora continuavano a mettermi a disagio.
Mio padre Vincenzo..., o non era davvero mio padre? Poiché non poteva essere andata così, non aveva alcun senso.
Ma noi due non ci somigliavamo per nulla... Oppure sì, forse per qualcosa, ma mi durava fatica riuscire a ricordare cosa fosse, ora che la musica dell'autoradio mi invadeva, come un dolcissimo nettare tutto da bere con le orecchie.
Ah, la musica, se non ci fosse stata lei, forse mi sarei già fatto fuori in uno di quei momenti in cui niente girava bene: l'amore a rotoli, il lavoro che non c'era ancora, mia madre uscita di testa, mio fratello che stava rischiando troppo con la sua vita sregolata, uguale spiccicata a quella del padre...
Vincenzo e suo figlio, loro sì che si somigliavano davvero, e in tutto.
- Perché te ne vai? Perché mi lasci solo proprio ora che ho più bisogno di te? - mi aveva gridato dietro Fabio, strattonandomi per la manica del giubbotto, quasi a impedirmi di raggiungere la porta, ma io avevo tirato dritto, girandomi soltanto per sussurrargli, senza neppure un filo di astio nella voce: - Lasciami partire, fratellino, non è questo il momento di fare le tue solite menate, per te ci sono sempre stato, prometto che tornerò, ma questa volta si tratta della mia vita...
Due pianeti diversi, noi due, nati dal grembo della stessa madre, una ragazza con tanti problemi, una donna con troppi rimpianti, ma non ancora del tutto sopraffatta dal destino.
Le mancava solo un poco a soccombere, chissà se fosse la stessa onda assassina da disaster movie di serie B a minacciare anche la sua di vita - mi sorpresi a pensare - però qualcosa in lei resisteva, un fragile steccato di amor proprio eretto contro la furia devastante d'un uragano.
Con lei si stava bene, non c'erano tensioni, non c'era dolore. C'era la consapevolezza di abbandonarsi a un amore dolente, esausto, rassegnato, ma assoluto.
Quello che ci si aspetta da una madre, aldilà di tutto il resto.
L'ho amata tantissimo, tanto che, a volte, mi capitava di compatirla, di provare dolore con lei, quasi che la mia di sofferenza non fosse già abbastanza dura da sopportare.
Era come se noi due, l'uno di fronte l'altra, ci guardassimo allo specchio e, senza più alcun pudore,
disvelassimo reciprocamente le disillusioni e le cicatrici dei traumi subiti dalle nostre anime, nel continuo, disperato tentativo di soppesare quanta forza rimanesse ancora per resistere.
C'erano stati tempi felici per la nostra famiglia?
Non riuscivo a ricordarmeli, neppure sforzandomi di trovare belle situazioni appena accettabili.
Non volevo più neppure ricordare quante volte potesse essere successo qualcosa di sgradevole, forse ogni giorno della mia maledetta esistenza.
Un supplizio infinito.
Ecco perché questa volta avevo detto a Fabio di non rompermi le scatole, di farla finita almeno per un po' di tempo, avevo bisogno di vivere, di respirare con la testa fuori dalla melma.
Troppi erano stati momenti in cui la normale complicità fraterna aveva assunto il colore di una stralunata paternità, da fratello maggiore ero stato tante, troppe volte il padre di Fabio, senza averne ancora né la cognizione, né la necessaria maturità.
Io ero stato comunque sempre meglio del padre vero.
Più amorevole e più presente.
Ma ora ne avevo proprio le palle piene.
Acqua passata, i ricordi brutti però sono quelli che ti rimangono più impressi nella mente, anche se tenti di cacciarli via con tutte le tue forze, delle cose belle ci si scorda troppo presto, purtroppo.
Il sorpasso fra due camion, addobbati di luci come onirici alberi di Natale lanciati in corsa, mi riportò per un momento al presente, misi la freccia, sterzai senza fretta verso la terza corsia, assicurandomi che non ci fosse nessuno a percorrerla.
Viaggiare veloci nella notte padana, così dritta e interminabile, carica di promesse di qualcosa che abbiamo la certezza di trovare oltre, soli con i nostri pensieri che, finalmente, si mettono ordinatamente in fila come su di un tapis roulant, e non ti si aggrovigliano addosso...
Lasciarsi alle spalle paesi coi loro campanili dritti come fusi impigliati nell'oscura caligine estiva, svettanti sulla piatta distesa di campi e cascine, boschi e acque, binari e capannoni.
Fino a questa sera non mi era mai capitato di abbandonare la via vecchia per la nuova, avevo sempre avuto troppa paura di riuscire ad affrancarmi da quel malessere che rimaneva comunque la mia ragione di vita.
Non c'era mai stata una contropartita sufficiente a spronarmi, a darmi il la, come mi succedeva, invece, quando imbracciavo la chitarra per provare un nuovo pezzo e lì saltava fuori tutta la mia vera passione e la mia anima di poeta si ritagliava un attimo di tregua, esprimendosi in libertà.
Ero divenuto molto prudente, questa cosa almeno io l'avevo imparata dalla mia esperienza sgangherata: non c'è mai fretta di cacciarsi nei guai.
Mio fratello invece no.
Sembrava che i casini se li andasse a cercare, che vivesse lo stesso delirio di onnipotenza di chi lo aveva messo al mondo.
Non si era fatto mancare niente, neppure i pasticci più bastardi, quelli in cui è meglio, davvero meglio non cacciarsi.
Malgrado io gli avessi sempre ripetuto che le cose sarebbero potute finire male, che gli altri non sono tutti degli stupidi e che lui non fosse l'unico a farla sempre franca sulla faccia della Terra.
C'è sempre una legge cui adeguarsi, pena la riprovazione sociale. C'è sempre qualcuno più dritto di noi che si mette di traverso sulla nostra strada e ce la farà pagare cara se gli pestiamo i piedi.
Fiato sprecato.
Però, a un certo punto, ti accorgi che non puoi vivere sempre in funzione degli altri, che non puoi eternamente portarti appresso il fardello dei tuoi cari, anche se tu vuoi loro bene, anche se sei il più forte, o fingi di esserlo per la disperazione.
Il lavoro?
Beh, quello era arrivato, ma avevo dovuto sgobbare per insegnare ad altri cosa fosse meglio non fare...
E poi un bel casino anche nell'amore, tante storie spesso finite appena sul nascere e l'ultima, quella durata un po' di più, che mi aveva straziato il cuore.
M'ero infilato da solo, per spudorato romanticismo, per quel senso disperato di giustizia che ho dentro, per mia ingenuità, in un romanzaccio fatto di intrallazzi, menzogne e tradimenti.
Gemma mi aveva usato per far ingelosire il proprio compagno e poi tornare da lui, magari dopo il rituale pestaggio dell'intruso, a dimostrazione d'essere la femmina destinata in premio al più forte.
Che non sarei di certo stato io.
Certe volte le donne esagerano proprio.
Ero stato un vero cretino a non accorgermi subito di quella bizzarra e crudele messinscena, ma avevo tanta fame d'amore dentro che anche un surrogato di bene era sempre meglio di niente.
Mi toccava sempre di vivere quelle situazioni in mezzo a un guado, in cui non riuscivo mai ad arrivare dall'altra parte, sulla sponda della felicità, della realizzazione di me, della serenità, sempre lì, quasi a portata di mano, ma in realtà irraggiungibile.
Perché?
Già, perché?
- Un tipo giusto, uno sempre aperto e disponibile, uno che non ti lascia se sei nei casini, che ti ascolta e ti riaccompagna a casa la notte, che non ti chiede di fare l'amore al primo appuntamento, che ti rispetta... - i giudizi delle ragazze su di me si sprecavano, ma più d'una volta m'ero ritrovato a cantarmele da solo le mie canzoni.
Da solo per le strade deserte della mia città di provincia, intrisa di nebbia o d’afa, a seconda delle stagioni e di nient’altro…
Di una sola cosa le ero grato: vi avevo conosciuto Barbara.
Un esame d'Università sostenuto insieme quindici anni prima, e poi, per lei, nuovamente una partenza improvvisa, dietro a una famiglia che si spostava su e giù per l'Italia con l'impazzimento di un go kart.
Il mio primo amore. Quella che mi tornava in mente quando scrivevo i testi delle canzoni. Quella cui non avevo mai davvero smesso di pensare.
Non ci eravamo più rivisti, forse perché non eravamo ancora pronti a farlo, troppo presi dalle nostre personali storie per dividerle con un altro...
Così ciascuno di noi due aveva vissuto un pezzo di vita in solitaria.
A lei non era andata male, di me sapete già tutto.
Poi un sms dallo spazio intergalattico, roba da non crederci, una telefonata inaspettata, e un cercarla affannato su FB, tanto per sapere dove fosse finita.
Era andata a stare proprio là dove finiva l'autostrada, dove la terra si lascia bagnare dal mare e gli inverni sono miti e non intrisi di nebbia, dove si canta e si suona sia nella bella, che nella brutta stagione.
E ora mi aspettava, forse per chiedermi di persona, guardandomi negli occhi e non soltanto con un messaggio via web, se tra noi sarebbe stato finalmente possibile ricominciare.
Ancora un ultimo, piccolo sforzo, una manciata di chilometri nella notte che già schiudeva dolcemente gli occhi al sorgere del giorno e poi saremmo volati l'una nelle braccia dell'altro.
Come ai vecchi tempi, quasi che tutti quegli anni trascorsi lontano non fossero stati altro che un breve, ma necessario intervallo, tanto per riprendere fiato tra un bacio e l'altro, in quel nostro disordinato amore, non di certo concluso, ma più vivo che mai.

Bruno Bianco - Vicino

Avevamo solo quel cavallo; era l’ unica ricchezza rimasta. Mio padre l’ aveva chiamato Ferruccio, in onore di un vecchio commilitone del nonno che aveva una macchia bianca sui capelli come il cavallo l’aveva sulla fronte; era stato un buon animale, ma adesso era vecchio e stanco e non valeva più di un bottiglione di vino e nemmeno di quelli buoni.
Poi era iniziato tutto una domenica mattina sul sagrato dopo la messa.
-Avete sentito che c’è il ragioniere che cerca un cavallo?-
-Il ragioniere vuole un cavallo buono.-
-Il ragioniere problemi di soldi non ne ha.-
-Giovanni, perché non gli vendi il tuo?-
-Ha ragione. Cosa vuoi che ne capisca di cavalli il ragioniere.-
-Non distingue un cavallo buono da uno malato.-
-Il ragioniere non distingue una vacca da un tacchino.-
Il ragionier Mario Condove per tutti in paese era il ragioniere e basta. Abitava a Torino, ma da qualche anno aveva comprato una cascina in paese che dava a mezzadria; ultimamente aveva preso a venire più spesso in paese con la sua Balilla sempre tirata a lucido che potevi farti la barba davanti alle sue cromature. Tutti sapevano che di soldi ne aveva quanti ne voleva; il ragioniere era uno di quelli che contavano, uno che quando arrivava in paese il podestà andava subito a riverirlo con il cappello in mano.
-Possiamo fare qualcosa per voi, ragioniere?, Vi serve aiuto, ragioniere? Qualunque cosa aveste bisogno ragioniere...-
Di nascosto in paese lo prendevano in giro il podestà, ma anche se lo detestavano per com’era maleducato e pieno di sé, tutti quando lo incontravano si facevano da parte come se passasse il duce.
L’ affare del cavallo era partito un po’ per scherzo da qualcuno della compagnia del bar.
-Tu Giovanni il tuo cavallo lo devi vendere al ragioniere. Lo lustri bene, per una settimana lo fai mangiare con della roba buona, non lo fai lavorare e alla fine chiedi al ragioniere cinque volte quello che vale.-
-Il ragioniere di cavalli non capisce niente, ma non è uno stupido.-
-Però se qualcuno dice al ragioniere che quel cavallo è forte e sano...-
-E se qualcun altro mette in giro la voce che in paese quel cavallo lo vogliono tutti...-
-E se altri convincono il ragioniere che quel cavallo è l’ affare del secolo...-
Così tutto iniziò la prima domenica mattina che il ragioniere si fece vedere a messa con la moglie e le due figlie. Tutte le domeniche il ragioniere fermava sul sagrato Mario il macellaio per il solito pezzo di bollito.
-Certo ragioniere, vi porto il bollito subito a casa vostra; se però avete pazienza un minuto che stanno parlando del cavallo di Giovanni e voglio sentire cosa dicono perché interessa anche a me.-
-Perché c’è un cavallo buono da comprare?-
-Un cavallo buono? Il cavallo di Giovanni è il cavallo più sano, più forte, più bello e più intelligente che si sia mai visto in tutta la provincia.-
Il ragioniere si era avvicinato agli uomini fermi sotto l’ ombra del castagno che parlavano così forte che li sentivano per tutta la collina.
-Giovanni, dillo a tutti; da quant’è che ti dico che quando vendi il tuo cavallo hai solo da dirmelo. E adesso non puoi mangiarti la promessa.-
-Ma quale promessa, io non ti ho mai promesso un bel niente. Se ti interessa il mio cavallo mi dici quanto mi dai e se non c’ è nessuno che offre di più te lo prendi; altrimenti mi aggiusto diversamente.-
-Bravo Giovanni, non si spreca un cavallo così; ci penso io a farti vender bene quella bestia.-
-Ma se non hai un soldo da comprarti un quartino di vino, cosa vuoi prendere il cavallo di Giovanni!-.
-Ma non è per me; faccio da mediatore e te lo trovo io uno di quelli con il portafoglio sempre pieno.-
-Senti Giovanni, se vuoi un mediatore sai bene che sulla piazza non c’ nessuno che la sa lunga come me.-
Il ragioniere si era allontanato subito per non farsi vedere interessato all’ argomento, ma mentre rientrava a braccetto con la moglie non riusciva a non pensare al cavallo di mio padre. Lui cercava un cavallo perché voleva prendersi un calesse, di quelli eleganti, da girare per il paese; certo la macchina è un'altra cosa, ma ormai in paese non si stupivano più di vederlo al volante della sua Balilla. Adesso voleva qualcosa di nuovo in modo che i paesani avessero sempre presente la differenza tra uno come lui e quelli come loro. In più questa storia dell’ affare del secolo lo stimolava; i soldi li aveva sempre fatti con quegli affari che solo il suo fiuto riusciva a trovare e il suo fiuto gli diceva che quello era un affare per lui.
Il pomeriggio stesso era andato chiedere informazioni a don Giusto; il ragioniere sapeva bene che in un paese il parroco è sempre la persona più indicata per farsi un’ idea su persone, fatti e animali.
-Vedete ragioniere, Giovanni è un brav’ uomo, un lavoratore infaticabile e un buon cristiano; il suo problema è che le bocche da sfamare sono tante. Però gli è toccata la fortuna di quel cavallo. Lo ha servito per tutti questi anni nei lavori più pesanti e adesso che Giovanni non a nemmeno più i soldi da comprarsi da seminare è obbligato a venderlo; chi lo compra si porta a casa una bestia che va bene sia a lavorare sia a portare in giro un calesse. Qel cavallo va bene sia per un mezzadro, sia per un signore.-
Il lunedì il ragioniere era andato in farmacia con la scusa di una pomata per la moglie e con il farmacista aveva portato il discorso sul cavallo di Giovanni; va bene il parroco ma voleva sentire come la pensava uno di quelli come lui, perché era sempre convinto che le persone ricche e istruite devono parlarsi tra loro quando hanno a che fare con contadini.
-Se non fosse che ho comprato un cavallo nuovo solo tre mesi fa’, a quest’ ora l’ avrei già preso io quello di Giovanni. Sapete cosa mi piace di quella bestia: la sua disciplina. Va dove gli dici di andare e fa quello che gli dici di fare; mai un nitrito fuori posto, mai un movimento sbagliato. Lo vedi passare che porta il carro così pieno di grano che di cavalli ce ne vorrebbero tre; invece quell’ animale va avanti senza sforzo e tira un carro di grano con la stessa eleganza che dovrebbe avere per la carrozza del re.-
Il martedì il ragioniere era andato al mercato molto presto, all’ ora dei contadini, per sentire la voce del popolo. Andava da quello delle botti dove c’ erano i contadini più ricchi che avevano le vigne e li sentiva parlare del cavallo di mio padre; passava da quello che molava i coltelli e anche lì il nostro cavallo era protagonista. Persino le donne che facevano la fila dall’ acciugaio si scambiavano i pareri su Ferruccio e su chi avrebbe avuto la gran fortuna di prenderselo. Alla fine il ragioniere era entrato nel bar e quelli al bancone, ai tavoli e sui gradini della porta, tutti parlavano di quanto valeva quel cavallo, di quello che avrebbero dato per averlo e soprattutto di che avrebbe fatto l’ affare del secolo.
Sotto il sole delle due del pomeriggio, il ragioniere era andato di fretta da Elmo il mediatore.
-Ma ragioniere, non potete chiedermi questo. Io ho la fila di clienti che vogliono quel cavallo; ho già in mano più di una offerta e ogni giorno arriva qualcuno che aggiunge ancora qualcosa.-
-Vi ho già spiegato che a me delle altre offerte non interessa. Mi sono informato; un cavallo giovane e sano vale al massimo 300 lire e io sono disposto a offrire 300 lire per un cavallo che giovane non è più.-
-Ma Giovanni lo sa che ci sono già offerte di 400 lire; chi lo convince a vendere a voi per 300?-
-Voi lo convincete. Gli dite che se non vende a me non venderà a nessuno; gli spiegate come funziona il mondo e lui capirà senza tanta fatica che se uno come me vuole qualcosa la ottiene e che nessun contadino, nessun mediatore, nessuna persona istruita verrà mai a mettersi contro di me.-
Il mediatore aveva detto che gli serviva un po’ di tempo e il ragioniere gli aveva dato fino a domenica. Così il mezzogiorno della domenica erano tutti nel nostro cortile; il ragioniere, il mediatore, mio padre e il cavallo. Per tutta la settimana l’ avevamo tenuto a riposo e tutto il paese si era operato per fargli aver biada e erba medica. Il parroco in persona veniva tutti i giorni a portargli lo zucchero.
-Questa settimana metto meno zucchero nel caffè e quello che avanzo lo porto a Ferruccio.- diceva a tutti quando arrivava alla cascina.
Gli ultimi giorni mio padre lo aveva lustrato come un principino che quasi non lo riconoscevi rispetto alla settimana prima; così quando il ragioniere gli aveva fatto un giro intorno con lo sguardo esperto di chi sa valutare bene le bestie, si era più che convinto di aver fatto l’affare del secolo. Come da rituale Elmo prese le mani destre dei due, le strinse insieme e poi le staccò con un movimento rapido e deciso; e il ragioniere se ne andò con il suo nuovo cavallo, mentre mio padre portò in casa quelle 300 lire che tutte insieme non aveva mai visto.
La settimana dopo pagò da bere a tutto il paese; lo incontravano per strada e gli facevano i complimenti e lui li faceva a loro e si raccontavano i finti discorsi di tutti quei giorni e finivano sempre a bere un bicchiere di quello più buono. Mio padre diceva che dei soldi non gli interessava, gli altri rispondevano che a loro di bere a spese sue non importava niente; per tutti valeva solo la soddisfazione di aver venduto al ragioniere un cavallo vecchio e malandato al prezzo di uno giovane e sano, che questo valeva tutti i soldi del mondo, valeva tutte le migliori bevute di questa terra.
Però l’ estate il ragioniere l’ aveva passata tutta nel paese e non c’ era giorno che non si vedesse passare con il suo calesse lucido trainato da Ferruccio; da solo, con la moglie, con le figlie, con il podestà. Quel cavallo sembrava essere non quello che era stato venduto, ma quello che era stato comprato; bello, elegante, disciplinato, sembrava perfino più giovane. Quando l’estate finì Ferruccio era più che mai in forma e più nessuno pensava a lui come a un animale malandato; dell’ affare del cavallo non si parlava più, ma quando il ragioniere passava sul calesse, la gente guardava Ferruccio e qualcuno lo diceva sempre:
-Ve lo dico io. Quel cavallo gli dura ancora dieci anni e alla fine il ragioniere lo vende e prende ancora i suoi soldi; che tanto sono sempre quelli come il ragioniere che fanno gli affari migliori.-
Poi gli eventi portarono i discorsi su altri argomenti e la guerra prima, i partigiani e i repubblichini poi spazzarono via tutte le discussioni da bar, tutte le considerazioni sui cavalli buoni e su quelli che sanno fare gli affari. Il ragioniere fece una brutta fine in città insieme a molti altri della sua parte; Ferruccio chissà che fine fece, già era difficile tenere il conto degli uomini, tra quelli scappati, quelli morti, quelli andati con i partigiani e quelli andati con i repubblichini, che degli animali nessuno riuscì mai a tenere il conto.
Però alla fine io Ferruccio non l’ ho dimenticato. E non parlo del ricordo solito di noi anziani per quello che ci richiama alla memoria la nostra infanzia; io la storia di Ferruccio me la sono portata dietro per tutta la mia vita adulta. Ho avuto un lavoro, ho messo su famiglia e alla fine mi sono anche costruito quel briciolo di ricchezza come un po’ tutti quelli della mia generazione. Ma nel mio modo di vivere il mondo ho sempre tenuto presente la storia di Ferruccio, la storia di un cavallo a cui è bastato avere qualcuno vicino che ti risparmiasse le fatiche, ti desse da mangiare bene tutti i giorni e ti accarezzasse quando possibile. Che poi sono cose normali, mica l’invenzione del secolo. E io ricordo ancora il ragioniere che passa per il paese con Ferruccio che porta il calesse; il ragioniere, sua moglie, i paesani che lo guardano e pensano che gli affari vanno sempre bene a quelli come lui. Invece io l’ ho sempre pensata diversa; ho vissuto cosciente di quanto poco ci vuole per trasformare una bestia o un uomo da vecchio e malato a giovane e sano. Fatica corretta, mangiare il giusto, un po’ di attenzioni da chi ti sta intorno.
Che poi vuol dire una cosa sola: stare vicino.
Vicino alle persone.

Paolo Davide Manina - Così vicini

Era un tardo pomeriggio della calda estate portoghese.
Agnese e Federico si trovavano l'una di fronte all'altro nella piccola cucina dell'appartamento che condividevano in affitto.
Disinvolta romagnola lei, pragmatico piemontese lui; entrambi pensionati poco più che sessantenni e divorziati da lunga data, erano emigrati da poco in Portogallo e lì si erano conosciuti casualmente, grazie all'opportunità di condividere il canone di affitto di quel decoroso alloggetto con due stanze, cucina, servizio e terrazzino con vista mare in un antico borgo di pescatori dell'Algarve riconvertito al turismo.
Lui, in accappatoio e infradito, era seduto accanto al tavolo in attesa che il suo tè si raffreddasse un po'.
Lei, in elegante abito corto nero da sera, stava in piedi su un paio di decolleté tacco dodici, appoggiata all'angolo cottura attendendo che si sciogliesse un po' il ghiaccio nel bicchiere di mojito che teneva in mano.
-È davvero molto elegante, Agnese!
-Grazie, Federico; è molto gentile.
-Serata mondana?
-Sì; cena a base di pesce e poi balera.
-In compagnia del suo amico spagnolo?
-No, con lui ho chiuso; non c'era feeling. Stasera porto fuori un'amica un po' in crisi.
-Giovane?
-Ha qualche in meno di noi, ma non le consiglio di chiedermi di fargliela conoscere: rischierebbe di farsi travolgere dallo tsunami dei suoi problemi esistenziali.
-No, mi scusi! La mia è stata soltanto una domanda istintiva. Non sento assolutamente l'urgenza di fare nuove conoscenze, per ora.
-Lei esce stasera?
-No, Agnese, sono stanco. Oggi ho nuotato molto.
-Lo so. Prendevo il sole in spiaggia e l'ho vista gareggiare in acqua con quella ragazzina dai lunghi capelli neri.
-Sì! E ne sono stato molto soddisfatto.
-Ma Federico, potrebbe essere sua nipote!
-Ma cosa va a pensare? Intendevo dire che ero molto soddisfatto di aver messo alla prova la mia forma fisica, constatando che si mantiene ancora decisamente buona. Null'altro, mi creda!
-Ah, okay. Mi scusi; avevo frainteso.
-Non fa niente. Rientrerà tardi stanotte?
-Dipende da come è messa con la testa la mia amica Bianca.
-Ah, la testa! Nel bene e nel male è lei che comanda tutto.
-Già. Anche alla nostra non più tenera età.
-Soprattutto alla nostra età, cara Agnese! Quando avevo vent'anni il mio cervello era soltanto proiettato in avanti. Ora, invece, rivedo il mio passato, guardo il mio presente e cerco di capire se ci sia ancora la possibilità di costruire un mio futuro tutto nuovo: praticamente nella mia testa ho un turbinio che gira vorticosamente a 360 gradi.
Il silenzio che seguì fu rotto soltanto dal secco ticchettio del ghiaccio nel bicchiere di mojito che Agnese stava terminando di bere e dallo scroscio sommesso del tè che Federico versò nella tazza dalla teiera.
Quella sera Federico si rese conto di patire con un'insolita intensità quella solitudine alla quale peraltro era abituato ormai da parecchio tempo; sul terrazzino dell'appartamento neppure la compagnia di un buon libro e dell'armonico sciabordio dell'Atlantico riusciva a neutralizzare quella sensazione di snervante disagio.
Agnese invece non era sola quella sera; tutt'altro: il ristorante e il dancing in cui lei e la sua amica Bianca avevano deciso di trascorrere la serata pullulavano di gente allegra e spensierata. Ciò nonostante non riusciva affatto a svagarsi: al contrario, piombò in una situazione di inquietudine ancora più molesta di quella che contemporaneamente stava vivendo il suo coinquilino, dovuta al fatto che, paradossalmente, lei si stava sentendo sola in mezzo a una moltitudine di persone.
A un certo punto della serata Agnese fu piantata in asso da Bianca, la quale, senza farsi il minimo scrupolo, si allontanò dal locale in compagnia di uno sconosciuto, con il quale prima aveva soltanto ballato qualche latino-americano e bevuto un paio di drink.
Dopo un iniziale sentimento di profondo scoramento Agnese pensò che la solitudine della sua camera non avrebbe potuto essere più opprimente del senso di oblio che l'aveva attanagliata durante quella serata tutta da dimenticare.
Onde evitare che il suo morale finisse sotto un tacco dodici si avviò verso casa scalza, tenendo in mano quelle sue belle scarpe che sentiva del tutto inadeguate. Inadeguate per quella pessima serata; ma inadeguate anche per la breve relazione recentemente avuta con uno spagnolo quarantenne in cerca di sole avventure. E inadeguate ancor di più per una coabitazione che avrebbe avuto senso soltanto ai tempi dell'Università: ma quei tempi erano lontanissimi e ora Agnese si ritrovava a condividere cucina, bagno e terrazzo con un uomo a cui dava del lei, un uomo che non si faceva scrupolo nel gareggiare nelle acque dell'oceano con un'adolescente di quasi cinquant'anni più giovane.
Entrando in cucina per bere un bicchiere d'acqua, ancora ben immersa in quei suoi tediosi pensieri, scorse una luce flebile e tremolante sul terrazzino.
-Federico, ma è ancora sveglio a quest'ora?
-Si sta bene qui. C'è una bella brezza e l'oceano mi tiene compagnia.
-È uscito?
-No. Sono rimasto qui tutta la sera.
-Ma era in compagnia di qualcuno?
-No, ero solo. Perché me lo domanda?
-Perché non l'ho mai vista stare in casa in camicia bianca, foulard di seta e gessato grigio; e con una candela accesa al centro del tavolino. – Il tono di voce Agnese si era alquanto inacidito.
-Agnese, lei conosce la differenza tra il fato e il destino?
-Sì. Il fato è predestinazione, mentre ognuno è artefice del proprio destino. Ma che c'entra con tutto ciò?
-C'entra, eccome! Stasera mi sono sentito terribilmente solo, come mai mi era capitato prima d'ora.
-Mi dispiace. Se la può consolare anche la mia non è stata una gran bella serata. Ma, mi scusi, l'ho interrotta: mi stava parlando di fato, destino e solitudine.
-Già, la solitudine: questa sera si era trasformata in un odioso tarlo che mi rodeva dentro. A un certo punto, di colpo, ho avvertito in me un forte impulso.
-Cioè?
-Attendere il mio destino con un'atmosfera e un abbigliamento adeguati.
-Federico, ma che diavolo sta dicendo? Così mi fa preoccupare! - Il tono di voce della donna si era improvvisamente caricato di sincera apprensione.
-Ma no, Agnese, non c'è proprio nulla di cui preoccuparsi. Semplicemente, stasera speravo che il mio destino si presentasse a me con un abitino nero corto al di sopra di un bel paio di gambe perfettamente a loro agio su eleganti decolleté tacco dodici e decidesse di condividere con me questa splendida notte stellata. E quindi sono rimasto qui in paziente attesa.
-Federico...
-Sì?
-Sono qui...
Agnese calzò nuovamente quel paio di scarpe che, come per incanto, tornò a sentire perfettamente adeguate.
-...sono qui per te... per noi.
Il resto lo raccontò l'Oceano Atlantico: raccontò la storia di Agnese e Federico, che fino ad allora si erano sentiti lontani, non accorgendosi invece di essere così vicini.

Flavio Provini - Verso l'infinito

(endecasillabi per noi due)


Non aver paura di abbracciarmi ancora
per la tua pelle ho coperte di mani
ruvide un poco
                         ché l’amore è un gioco
duro, un beccheggio a un approdo sicuro
fra meduse occulte, rive salate
marosi imprevisti, secche annunciate.
E noi fummo velieri coraggiosi
fra i giorni bari delle mareggiate.

Non aver paura di un sorriso ancora
di scorte cariche di buon umore
contro echi burrascosi di livore.
C’è ancora acqua di fronte al porticciolo
per le barchette tremule che siamo
al limbo della darsena di sempre,
malgrado le tormente, ancora a galla
la vela non arresa al troppo sale
nell’attesa di un groppo di scirocco
a cogliere ultime stelle di mare,
nella stiva altro coraggio per amare
diversamente ma caparbiamente
fra l’ormeggio in una stagione amara
e l’incanto di una marina quieta.

Non aver paura di baciarmi ancora
sei sempre tu, luna, il mio faro acceso
la bussola che stringo tra le mani
a portarmi illeso verso il domani.
Io lo so, quel vento che il falò ha spento
delle nostre forze spira altro soffio
nel presente fragile di un abbraccio,
un sorriso, un bacio che sa di eterno
in questo salso inverno che svapora
in orizzonte bianco,
                                  verso l’infinito.

Flavio Provini - Velieri, transatlantici e piroscafi

- le età dell’amore -


Fummo un tempo velieri impavidi
per strade di spuma e valli di luce
a nutrirci di scirocco caldo, avidi
d’ignoto, il cuore il nostro duce.

Nessun timore di marosi o squali
canape vestivamo come mantelli
magici, repellenti ansie di fortunali
esche di sirene e i più salsi tranelli.

L’acqua infestò a volte i nostri legni
la gettammo d’un fiato sempre a mare
mentre i pennoni abbozzavano disegni
di noi su un cielo da inventare.

Bevemmo il sole come sidro al miele
finché il mare schiuse i vergini suoi lidi,
lì ci spogliammo delle lise vele
per divenir adulti: compagni fidi.

E sovrani fummo, fieri transatlantici
due Ulisse rivolti a battime segrete
l’usato sprezzo dei tabù oceanici
gli scafi che sull’onda erano ariete.

Traversammo la placenta della vita
l’estro italico col piglio piratesco
su una rotta a snodarsi quasi infinita
fino a uno scoglio che fosse desco.

Ormai non siamo che logori piroscafi
senza alito di vento o biancore
di scie crestate a poppa. Calligrafi
appuntiamo righi finali di vapore

alla chiosa del nostro romanzo rosa.

Vicini, ci troveranno ancora al porto
i gabbiani a corteggiare la ciminiera,
lei più non saluterà con quel diporto
che ci portò alla soglia della sera.

martedì 4 giugno 2019

Maria Francesca Giovelli - Vicino a quel sasso

(Ad un fante. Sulla cima del monte Valbella, Altopiano di Asiago)


Si è fermato il mio passo nel sole
sull’alta cima del monte Valbella,
inciso nel sasso c’era il tuo cuore
nel silenzio dove ora tace la guerra.

Ho cercato un segno del tuo passaggio
nel respiro profondo d’ombre d’abeti,
chiaro il vento mi svelava un messaggio
dei tuoi pensieri nel tempo fatti segreti.

Nella trincea ho sentito il tuo pianto
e i tuoi giovani anni farsi energia,
di mille fanti stesi al tuo fianco
resta soltanto la tua compagnia.

E in quel sasso che non pesa tra le dita
ho sentito il dolore dell’ultima ora,
resta qui, nel senso eterno della vita,
e la tua anima leggera oggi consola.

Maria Francesca Giovelli - La parola donata

 (Ad una maestra)


Fuori l’aiuola col colore dei tulipani,
dentro sulla lavagna le tue mani
scrivevano pensieri e poesie,
rimaste nel tempo, nelle sue vie.

La tua parola, la voce decisa
una docile scia rimasta incisa
nel corpo del tempo e della vita,
di quella scuola mai sbiadita.

Tra case e campagna sospesa
con te la vita diventava sorpresa,
e l’anima sempre cresceva piano
valore, scoperta, segno della mano.

Ora si è fatto eterno il tuo tempo
ma nulla si è perso, resta quel vento,
quel cuore che rende un pensiero,
la parola donata, lo sguardo sincero.