Mi tocco in doccia.
Ho uno specchio in doccia, ma non mi guardo. Fatico ancora. Mi concentro, escludo pensieri, mi inarco, ottimizzo i tempi, e vengo. Poi l'acqua lava via tutto. Anche il pianto. Non piango da sempre, quando mi tocco. Solo da poco. Da quando ho pietà per il mio corpo. Ho le tette. E' da un anno che le ho. E una figa. Piango perchè le ho sempre avute, ma non le vedevo. Mi giravo dall'altra. Amputate, censurate, ignorate, mortificate.
"State scherzando?! Shhhhh! Zitte voi. Femmine siete. Dovete stare zitte!"
Mia mamma era l'ultima di nove figli. Tre maschi e cinque femmine. Più lei. Volevano buttarla. Quando si è poveri, le regole sono due o tre, non di più. Non c'è molto da vivere, c'è da sopravvivere. E se nasci femmina, mangi e non lavori. I fratelli avevano deciso che era inutile. Sono figlia di una madre inutile, inutile come una vagina.
Mia nonna non so se poteva parlare, quando partorì mia madre. Si chiamava Elvira. Da piccola mi mettevano in stanza con lei, una stanza buia, odore di coperte. Mi mettevano su una seggiola, piccola come la nonna. Così piccola che per starci, dovevo incassare le gambe e la schiena. La nonna non poteva parlare. Aveva una maschera dell'ossigeno e le parole, le diceva quel coso, quel macchinario. Come una preghiera, come un prete che avesse deciso che era ora di andare, quel che era fatto era fatto. Che fortuna quel coso, doveva essere maschio. Mi mettevano lì. "Stai con la nonna". Forse dovevo richiudermi anch'io, su quella seggiola. Dovevo imparare a stare zitta, imparare che non avevo niente da dire.
Mia mamma occupa ancora meno spazio della nonna. Nel letto dorme su un fianco: metà della metà di un letto matrimoniale. Anche mia madre non parla. Emette suoni come quel coso, quella macchina dell’ossigeno. E' un continuo rimprovero, un rumore costante su cosa è giusto e cosa no. Non c'era spazio per lei, per la sua innocenza morbida e femmina. Ha imparato a parlare come un uomo, come i suoi fratelli. Pur di uscire da quella stanza buia di silenzi e coperte umide, niente più tette, niente più figa. Amputate, censurate, mortificate. E così ha imparato a parlare, come un giudice, come i fratelli, a dire cosa è utile e cosa no. Dichiarò la mia inutilità quand'ero piccola. Ero la sua farfalla. Finchè un giorno scoprì che mi piacevano le femmine. Dinuovo, una figlia sbagliata, una figlia inutile. Da buttare via.
L'amore materno che viene a mancare è una colpa, una condanna. Non è solo un'arteria recisa, ma un fiotto di vita che si spreca a terra. Cosa ne potevo, io, bambina? E' un'amputazione con un bisturi infetto, un braccio fantasma, una gamba in meno. E il braccio ti prude, anche se non c'è più. Ti prude, dà fastidio, in automatico fai per grattarti e non lo trovi. "Ah, già. non c'è più". Solo che il bisturi era infetto e quella roba che manca s'allarga, un continuo prudere di parti mancanti, di vuoti urticanti. Una vita di colpe da rimediare. Era giusto così. Mi nascosi, nascosi a me stessa la mia sessualità. Mi rinnegai. Mai. Per quanto amassi una donna, mai nessuna potè toccarmi, accarezzarmi, niente più tette, niente più figa. L’amore è crudele: se non fossi figlia, sarei stata felice.
Poi un giorno fu quello per dire tutte le cose. Per dire quello che non dissero mai mia madre e mia nonna. L'attimo prima fu la morte, un terrore marcio che consuma le ossa, la spina dorsale s’incendia come quando dai fuoco a un nido di vespe. Tremo. Prego mia madre di sedersi ad ascoltare. Il mio corpo esplode, improvvisamente ho le tette, ho la figa. E glie lo dico. Le dico che so ballare. So cantare. So ridere e scherzare. So baciare e ubriacare. So amare. Mi esce tutto in una sola frase: "Cara mamma, sono lesbica".
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