venerdì 25 maggio 2012

Antonino Cervettini - Il bisogno di accettarla


Oramai “lei” passa tutto il suo fottutissimo tempo a guardare quella stramaledetta fotografia in cui si vede ancora bella e giovane. Si osserva per un po’ e poi ricomincia i suoi giri di casalinga maniaca della pulizia, dei servizi e di ogni stramaledetta cosa al suo posto.
“Lei” è mia moglie e mi sta rovinando la vita.
All’inizio non era davvero così. Eravamo una coppia normale, con una vita normale, con degli interessi, amici simpatici, serate divertenti.
Poi, quasi senza accorgersene, “lei” è precipitata in un vortice, è stata risucchiata dentro un gorgo malefico che l’ha presa e non l’ha più lasciata andare. E adesso la nostra vita è un grigio e uniforme vuoto dentro il quale io annaspo.
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Sono letteralmente ossessionato da questa frase: Dio è morto, Marx è morto e anche io non mi sento tanto bene. Sì, lo so che è di Woody Allen. Il fatto è, però, che da un po’ di tempo ormai non sto bene per davvero. Non fisicamente, no. Per quello, grazie a Dio, sto benissimo. Intendo dire che non mi sento a posto con me stesso. Mi sveglio la mattina e ho già la precisa sensazione, anzi la certezza che sarà un’altra giornata di merda. L’umore mi finisce sparato sotto i piedi. Per quanto mi sforzi non riesco a trovare un solo valido motivo per alzarmi dal letto, mettermi in tiro, uscire di casa, sorridere alla vita. E mentre conduco la mia quotidiana battaglia contro questa insostenibile pesantezza dell’essere, “lei” cinguetta incessante tutto il giorno insensatamente ilare, molesta come una mosca importuna quando d’estate vuoi fare una pennichella, come la suocera che telefona alle sette di ogni domenica mattina per sapere cosa stanno combinando i suoi amati figlioli, come la processione di amici che scopri immancabilmente di avere ogni qualvolta si approssimano le elezioni.
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Probabilmente mi sto prendendo l’esaurimento nervoso. Sono diventato scorbutico e ombroso come un mulo di montagna tanto che, ormai, al lavoro i colleghi mi evitano e mi guardano storto al riparo del loro perbenismo. Li sento borbottare commenti velenosi alle mie spalle quando li incrocio nei corridoi.
A casa, invece, a “lei” tutto sembra filare col vento in poppa. Mi accoglie con le pattine ai piedi, i bigodini in testa e un sorriso insensato e insopportabile stampato in faccia. E più sono scontroso più “lei” è flautata e melliflua, interamente assorbita dalla necessità di rovesciarmi addosso le sue ridicole, insulse questioni esistenziali.
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Sono ormai allo stremo. Sono arrivato al punto che non sopporto neppure più l’idea della convivenza, della relazione con una tale rompipalle di prima categoria. Mi interrogo spesso su cosa devo fare, soprattutto quando sono in bagno.
Il bagno è diventato il mio rifugio preferito, la mia cellula di sopravvivenza. È l’unico posto dove la mignatta sente il dovere di lasciarmi da solo. Parlo a muso duro con la mia faccia da allucinato che mi fissa nello specchio e le chiedo come posso uscire da questo buco nero che sembra avermi inghiottito. L’ultima volta una vocina dal profondo mi ha risposto: «Tu lo sai! La devi accettare! Accettala o sei perduto!»
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Sono sconvolto. Non dormo neanche più.  Mi aggiro per casa come uno spiritato. È oltre un mese che la vocina ripete sempre la stessa litania ma adesso non solo in bagno, anche quando siamo seduti a tavola o per strada in mezzo agli ignari passanti e persino a letto, mentre facciamo l’amore.
«Accettala! Accettala!» martella incessante come un disco rotto la perfida istigatrice.      E così oggi finalmente mi sono deciso. Tra l’altro avevo fatto il filo solo qualche settimana fa e la lama è venuta tagliente come quella di un rasoio.
L’ho accettata in quattro e quattr’otto in bagno mentre faceva la doccia. L’ho fatta in sei pezzi e sistemata a sgocciolare nella vasca insieme alla sua amata fotografia. Non è mai stata tanto discreta e silenziosa.
Mi sento un altro.
Ora vado a farmi un toast. Il sangue lo laverò dopopranzo.

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